FISICA DI UNA FUGA.
Va’ che non voglio più salvare la mia notte. Parti pure. Salvati ? Tu lo dici.
Saprò credo seguirti solo se andrai verso Nord, dove una volta ho udito un vecchio esprimersi in una lingua dell’aurora, forgiare parole di epica bellezza in una lingua dura ma ancora vergine.
Ho viaggiato molto prima di conoscerti. Anche un modesto professore di fisica come me non resta sempre sospeso nelle sue congetture. Abbiamo viaggiato altrettanto, se non di più, per conoscerci. Non riuscendoci, se ora sei in fuga e mai lo avrei immaginato nemmeno fisicamente possibile. Ho le tue labbra ancora intinte nella mia anima.
No, non saprò seguirti, non ho nemmeno il mezzo adatto.
La tua auto grigia invece è un proiettile cavo lanciato in cerca dell’alba. Io non ho mai atteso un’aurora dalle dita di rosa. Non sono un romantico e non volevo disporre in modo assoluto né di te né dei tuoi pensieri. Solo, speravo che tu non fuggissi. Scusa non è così che lo chiami, questo partire indefinito. Niente ha un nome oggi, quando si tratta di esprimere un giudizio, di compiere un’azione irreversibile verso un altro essere umano, di comunicare un’opinione netta e perciò forse impopolare. Le cose oggi si fanno e non si nominano. La tua lingua, come i miei sogni, soffre evidentemente l’usura.
Non la tua auto, il tuo proiettile d’argento, l’isola che ti sei regalata qualche tempo fa, ricca di tuoi profumi e di musiche che ti sono piaciute. Di conversazioni apparentemente allegre in vivavoce. Parti portandoti dietro la tua vera stanza su ruote, la nostra casa non è mai stata tua. Io invece non ho mai posseduto un’auto.
Adesso non posso impedirmi di pensarti come una lumaca argentea, che lascia la sua bava sui tornanti su cui ti vedo filare, ancora incerto su quel debba essere il mio ultimo ricordo di te.
Stupidamente ti ho stretto la mano. Non so perché. Una volta, una cartomante di Brera ce le ha lette le nostre mani. Come due pagine squadernate di quello che un tempo era uno stesso codice. Un tempo le nostre mani erano chiare e noi eravamo leggibili. Formavamo una storia.
Ci disse che un giorno saremmo stati insieme, che avremmo condiviso altrove gli stessi spazi. Insomma, per essere esatti affermò risoluta che nella vita avremmo avuto infine e per sempre la stessa velocità. Usò queste precise parole che naturalmente allora non capimmo. Come condividere gli stessi spazi essendo altrove, come mantenere la stessa velocità all’infinito? E nella stessa direzione poi?
Ma come farlo comunque adesso, che non condividiamo niente, nemmeno gli stessi mezzi e che la mia stasi è così evidente e invade tutta la mia vita?
Non mi tormento, convinto che il destino, in cui nonostante tutto credo, mi darà una risposta, forse non priva di ironia.
Sembra che anche nelle linee della mia mano ci siano ancora delle storie, solo che adesso tremano incerte sotto al sudore che scorre copioso. Sto afferrato a questo balcone. Le mani mi fanno male. Le storie, ormai esangui, si saranno certo cancellate.
Faccio presa sul corrimano della nostra terrazza. Mi sporgo.
La tua lumaca metallica, o proiettile non so più, sono vittima delle mie stesse metafore, sta girando silenziosamente le sue ultime boe su in collina. Sotto geme il mare.
Più avanti, il sole. O le sue promesse. Per ora solo un’intenzione di bellezza. Ma c’è luce, c’è già molta luce.
Resto ascoltando il tuo vuoto; per un attimo mi scopro a ruminare l’eco delle ultime parole insignificanti che ci siamo scambiati.
Il tuo ormai è un viaggio fuori dall’orizzonte. Mi correggo. Fuori dal mio orizzonte. È la vita che ci vuole così. Ma dato che non so veramente cosa sia la vita non so nemmeno se possa davvero volere qualcosa.
Anche io mi ricordo viaggi in auto, quasi infiniti, perfetti, fuori dall’orizzonte. Assomigliavano a delle fughe, con mio padre che partiva sul finire del pomeriggio, di fretta come se avesse paura di ripensarci o che qualcuno lo obbligasse ad invertire la marcia, per poi rallentare a tarda sera, quando si rilassava sul sedile, distendendo il corpo e cominciando a parlare.
Il ronzare del motore, a quel punto, diveniva un piacevole sottofondo alle nostre parole.
Il buio gravitava attorno a noi, come la sequela di paesetti e case sparse, che la luce dei fari non faceva in tempo a rivelare. Più ci addentravamo nella notte e più tutto ai miei occhi perdeva senso, il viaggio, le parole che sentivo. Più andavamo avanti e più si faceva rarefatta la presenza umana, il taglio nella notte dei fari di altre auto nella corsia opposta. Forse anche loro concentrati in qualche forma di viaggio. O di fuga.
Anche gli alberi sembravano tagliati alla traballante luce dei fari, fino a che esplodevano dall’ombra con tutta la loro folta chioma estiva.
Poi, all’albeggiare, le facce familiari e sollevate dei nonni riemergevano dai nostri ricordi con la forza di un sorriso e la fuga non era più fuga: il viaggio prendeva senso e si chiamava dolcemente ritorno.
Adesso il mio sguardo galleggia sull’orizzonte. Non ci sei. Sei su un auto che è un proiettile cavo e mi ucciderai con tutto il mondo passato. Non abbiamo la stessa velocità. Certo che non l’abbiamo. La tua ormai è controllata da un ordinato sistema di spie luminose, la mia da un battito cardiaco disordinato e instabile.
Pensavo che è l’oggetto più costoso che ora possiedi. L’oggetto mobile più costoso che ora possiedi.
Un pomeriggio avevamo fatto l’amore. Poi d’un tratto avevamo iniziato un viaggio senza meta in città. D’improvviso ecco il tuo impulso che trascendeva di colpo mesi di tradizionale prudenza, fatta di opuscoli, chiacchiere, oziose navigazioni su internet, incursioni in concessionarie inevitabilmente concluse con il solito venditore davanti alla solita macchina distributrice di caffè, di volta in volta più o meno irranciditi.
Che eri, sei, scusa, una donna interessante. Ecco un dato assolutamente vero. Infatti finiva che al venditore non importava quasi più di vendere. Avevi vinto tu. Del resto, a ben vedere sei tu l’unica di noi due che possa vantare qualità assolute, mentre io, io ne possiedo solo di relative. Purtroppo per me, ora, di relative a te. Felice di avere te, brillante in tua compagnia, capace e ben organizzato nell’organizzare qualunque cosa con te. Affiatato, che brutta parola, con te, Non lo dicevo io, lo dicevano gli altri. Ma io ero, sono, perfettamente d’accordo. Sono, esisto in rapporto a te. Ti penso quindi sono, si potrebbe dire.
Fino alla rivelazione. Quella macchina seppe prenderti. Non il venditore, quella macchina. Lei sapeva da subito vestirti e tu sapevi indossarla secondo il bisogno.
Non la potenza del motore, non le linee, che mi ricordavano al contempo dei fianchi scattanti e sinuosi ed un corpo inarcato e pronto. Adesso capisco cosa cercavi. In quegli interni, belli e comodi ma comunque ristretti, il venditore li definiva l’anima dell’auto, tu già vedevi uno spazio che mi sfuggiva totalmente. Cambiò il tuo modo di guidare. Poi di camminare e, lentamente, di vivere. Non esagero e lo sai.
Mi dicevi spesso che dell’auto la cosa che ti piaceva di più era il rumore che faceva la portiera chiudendosi alla tue spalle. Ho sempre trovato buffa questa cosa, ma adesso mi è chiaro. Quel rumore era il ponte levatoio che si alzava, la porta magica che si mimetizzava rifondendosi nel metallo della macchina, impedendo a chiunque non fossi tu di condividere la tua esperienza con lei.
Tu già vedevi la possibilità di proiettarti a distanza da me. Di guardarmi da un’altra scala, da un altro sistema di riferimento. Insomma l’auto era la tua prova, sotterranea e riuscita, di fuga o meglio di anarchia.
Proprio come quando giocavamo a scacchi, stavi semplicemente rischierandoti tre mosse nel futuro rispetto a me. Del resto, per questo vincevi sempre.
Io, nato l’undicesimo giorno di questo malandato mese di marzo scalfito dalla pioggia mi sento ora come vissuto davanti ad uno specchio. Non ho che memoria e riflesso in questa casa e nella mia vita.
Se avessi un’auto, sarebbe come guidarla veloce fissando però costantemente lo sguardo nello specchietto retrovisore.
Mentre i tuoi spazi ora sono là, che si ampliano a dismisura sul mondo. Il tuo perfetto proiettile cavo è già esploso. La tua casa è una dimora digitale veloce e assetata di direzioni, la mia è una antica statica casa, analogica e imperfetta. Non abbiamo la stessa velocità. Certo che non l’abbiamo.
Eppure anche io ho saputo viaggiare. Noi abbiamo saputo viaggiare. Ma tu non vuoi viaggiare adesso, vuoi che lo faccia tutto il tuo mondo.
E per questo riconosco che un’auto è perfetta. Qualunque altro mezzo di trasporto è usato, contaminato, non questo che sembra nato per te, completando per anni la sua evoluzione.
Intanto, di una notte di domande insistenti, non resta che questo sole affiorante.
La mia mente è attraversata, trapassata da un pensiero: la tua anarchia meccanica ti porterà la felicità? Non so davvero nemmeno se augurartelo, tanto il fatto mi colto di sorpresa e mi risulta incomprensibile. Il fenomeno che non si comprende, o meglio non si riesce nemmeno ad osservare, non si può giudicare.
Si, so che questa non resterà probabilmente una verità assoluta. Letto a cose fatte nel futuro, tutto sembrerà logico, meccanico, inesorabile, cristallino come un teorema.
Certo, ho pensato che la mia rabbia in fondo possa essere solo invidia: il tuo proiettile possiede un motore silenzioso che ti farà attraversare le città più belle e invisibili, in un perfetto viaggio. Potrai sempre dire a te stessa e agli altri, finendo inevitabilmente per crederci, che il mio amore era divenuto fiacco, cadente. Che ho rallentato fino a fermarmi. Perché l’inerzia, si sa, è il primo nemico dell’amore.
Mi sporgo, la mia ombra si cala in questa frattura di roccia a picco sul mare. È, era un bella vecchia casa la nostra. Ma non ha ruote, non sa muoversi nel futuro. Però possiede il suo calore che ti raggiunge istantaneo, ovunque. Tu non hai davvero mai capito questo tipo di velocità. Istantanea.
Assicurato alle mie mani, mi sporgo in cerca di un riflesso, ma non vedo che oscurità ristagnante.
Rientro in casa, mi preparo un caffè: ascolto il bollitore ed il suo pianto strozzato salire in volute di fumo denso. Dalla mia tazza non proprio pulita, assaporo la forma della tua bocca.
Nelle nostre stanze, adesso pare non esistere più niente, i vetri registrano qualche bagliore di auto. Ma non è il tuo tornare. Mi scopro a desiderare non questa primavera di vertigini, ma una pioggia invernale calma e continua, rassicurante. Solo le piante già volte al sole sembrano non essere d’accordo.
Anche quelle, pure tue, sono rimaste indietro. Questo tuo improvviso partire per certi versi assomiglia più che ad una fuga, ad uno slancio positivistico. Adesso credi nel metallo, nelle macchine e lasci indietro la carne e tutte le forme di vita che ti sono state legate in questa casa.
Nel tuo proiettile la tua pelle sarà già divenuta una struttura elettrica, sarete un tutt’uno in comunicazione con il cielo tra l’andare e il venire di paesaggi in una terra ciclica.
È una crisalide di metallo la tua auto. Saranno solo necessari un po’ di pazienza e di calore e certo nascerai nuovamente, viva e presente a qualcuno. Arriverai a destinazione come un’onda.
Forse avrai già comprato oggetti, piccoli oggetti senza nesso, valore e memoria, solo per ricordare al tuo cuore che stai viaggiando, come facevi con me. Per poi abbandonarli dietro di te o gettarli.
Vorrei tanto condurti per mano tra gli applausi, ad ascoltare un’orchestra capace di riprodurre la meccanica complessa della tua voce. Il tuo suono mi manca più della tua carne.
Penso che il mio cuore avrebbe potuto essere la tua macchina fedele, ma non è stato mai capace di condurti nei tuoi spazi. Adesso è una pelle sgonfia di vita e il futuro è venuto e ti ha portato via in un’arca di metallo. Non sono stato capace di trasmetterti alcuna energia.
Non abbiamo più la stessa velocità. L’abbiamo mai raggiunta?. Esco di nuovo ad osservare il mare. La scogliera che sostiene la nostra casa adesso è in piena luce e sembra riflettere i bagliori e il suono del mare. Ormai anche io sono solo una tua eco.
Quale è il tuo stile di guida? Non ti ho mai osservato veramente guidare. Nell’ostinarmi a vedere la tua auto come un semplice mezzo di trasporto e non come uno spazio di fuga l’ho sempre considerata come la più breve e razionale distanza tra due punti.
Ma so che accelererai, per poi probabilmente livellare l’andatura della tua crociera terrestre e concentrarti prudentemente sulla musica, sul fluire degli spazi, cercando e contattando meticolosamente le vecchie e nuove voci delle tua vita.
Allora si potrebbe dire che non sarà infinita la tua velocità come mi induce a credere la mia disperazione, e forse nemmeno il tuo viaggio, ma solo i tuoi spazi.
Poi penso: un corpo è in caduta libera quando, sotto l’azione del suo peso, si muove con accelerazione costante. Quante volte ne ho discusso con i miei studenti.
Si, ma purché si ignori la resistenza dell’aria. Bisogna tenerlo presente. In realtà ogni corpo raggiunge dopo un certo tempo una velocità limite costante. E l’aria che incontri muovendoti veloce nella tua auto non è diversa da quella che mi getta freneticamente contro il vento.
Dopotutto sono, siamo, relativamente uguali. E su questo non influisce se ormai ci guardiamo da scale diverse. Se l’aria scivola delicatamente sulla tua auto chiusa dentro le sue linee di flusso in un gioco di resistenza, portanza e devianza e se invece su questa terrazza a picco sul mare si impiglia brusca tra le mie membra.
Le nostre quantità di vita, forse ancora solo per un pò, resteranno grossomodo uguali anche se contate con diverse unità di misura come quelle di moto. Il futuro invece, le renderà inevitabilmente incomparabili, ne sono certo. E questo non mi lascerà scampo.
Respiro a pieni polmoni il mare. La terrazza è magnifica adesso. Sembra un giardino sospeso nel vuoto.
Posso avere anche io la mia sfida. E la mia fuga. Forse anche più ambiziosa della tua. Certo più definitiva.
Possiamo, in un attimo e di nuovo, riprendere ad avere la stessa velocità. Capisco che dipende finalmente solo da me. La direzione, poi, sarà il mare a deciderla.
E per renderlo possibile non mi resta che imparare a cadere.