Appena due giorni fa, a conferma del fatto che non è andato affatto tutto bene, e che in tanti siamo usciti dal guscio più stanchi e stressati che mai, e per di più con le solite vecchie idee in testa, (perchè le idee le cambi se apri le finestre e fai entrare aria fresca, ovvero fuor di metafora se incontri gente e viaggi, non se stai chiuso nell’ovattato ombelico domestico, mummificato davanti a un pc o in gabbia come i cardellini in terrazzo a cantare) mi son sentito ancora dire da addetti ai lavori che i racconti hanno un pubblico esiguo. Certo, può succedere, specialmente se non li leggiamo o se pubblichiamo solo quelli tradotti, magari di qualche decennio fa. E’ una delle più lampanti dimostrazioni del nostro provincialismo letterario. Ma lasciamo stare.
Nelle due puntate precedenti abbiamo parlato di varie cose. L ‘altra volta di che cos’è un racconto, la volta successiva, usando come apripista Thomas Bernhard, di come a volte basti una scena, una frase, un contrasto a ‘fare’ un racconto. Questa volta il discorso si fa più sottile, e lo introduce Buzzati. Questa rubrica, che Mirko Tondi ci sta regalando con una cadenza fissa, si chiama come ormai sapete Anatomia di un racconto. Grazie di nuovo, Mirko, per gli spunti che ci dai!
Da parte mia e da disturbatore qual sono aggiungo che da questo testo di Buzzati emerge come ogni Editore dovrebbe pubblicare racconti di qualità, perchè chi li scrive deve possedere non solo talento, ma un bagaglio tecnico completo e fine, e non si può permettere errori (forse invece a pensar male scrivendo 500 o mille pagine, sì). Non si tratta solo di pennellare, nè di accostare colori sgargianti, come si potrebbe pensare, ma di prospettiva: soffermatevi su quel che dice Mirko e vi accorgerete che il testo è una ablissima, fantastica sequela di vedute prospettiche, di punti di fuga che si inanellano e di susseguono, prima dalla villa, poi verso il parco, dal parco verso la discarica, dalla discarica al ventre del lettore (quel bellissimo ‘qui’ di cui Mirko parla magistramente) e infine…verso un punto irraggiungibile…
…e poi scusare, ma oggi anche se qualcuno graziosamente legge, chi ‘rilegge’? un racconto invece da modo di farlo, e anche tante volte, dai punti di vista e dall’alto degli stati d’animo più disparati.
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Anatomia di un racconto –I giorni perduti
In questo brevissimo, microscopico (per dimensioni ma non certo per temi e significati) racconto di Dino Buzzati, tratto dalla raccolta Le notti difficili (1971), abbiamo un protagonista dal nome insolito, Ernst Kazirra, e sappiamo che da poco si è trasferito in una “sontuosa villa”. Il racconto comincia così, con l’avvistamento di un uomo misterioso, il quale porta sulle spalle una cassa uscendo da una porticina secondaria e la carica sul camion. Kazirra lo insegue a piedi, e non riuscendo a raggiungerlo lo segue in auto. Il camion giunge alla periferia della città, fermandosi al bordo di un fosso. “Lo sconosciuto”, come viene definito da Buzzati, scarica la cassa e la getta nel dirupo, cosicché questa vada a fare compagnia a migliaia di altre. A questo punto Kazirra si avvicina e rivolge la parola all’uomo, chiedendogli cosa ci sia in quelle casse. L’uomo, con un sorriso che stride con la situazione, risponde che là dentro ci sono i giorni. I dialoghi sono pochi e tutti serrati, e da questi si rivela che i giorni contenuti nelle casse non siano
giorni qualsiasi, ma i suoi giorni, quelli di Kazirra. Non solo: si tratta dei suoi giorni perduti. Siamo a metà di questo piccolo racconto (una paginetta in tutto) e siamo nel cuore della storia, laddove si scopre il mistero che ha condotto il protagonista a seguire uno sconosciuto. Kazirra guarda le casse ammucchiate laggiù nella scarpata, questo disordine fisico che ne riflette uno interiore, scende e ne apre una. Ecco che spunta “una strada d’autunno”, ma soprattutto Graziella, “la sua fidanzata che se n’andava per sempre”, e lui non riesce nemmeno a chiamarla.
Forse non vuole chiamarla. Preso da questa smania di scoprire quali altri giorni perduti contengano le casse, ne apre una seconda e ne esce una camera d’ospedale: questa volta l’immagine è dedicata al fratello morente e in sua attesa, ma lui è troppo concentrato sui suoi affari per recarsi a trovarlo. Terza cassa: c’è una “vecchia misera casa” – simbolo di un passato lontano, le umili origini abbandonate in virtù di agi e ricchezze – e davanti a un cancelletto Duk, il cane che lo attende da due anni, ormai rinseccolito e malandato.
Ed ecco la frase che cambia le carte in tavola, anzi la parola, una parola talvolta striminzita e insignificante e invece ora potente perché utilizzata nel posto giusto al momento giusto, e per questo in grado di fare la differenza: “Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco”. La parola è “qui”, perché d’improvviso avvicina incredibilmente chi legge al narratore, fino a rendere universale quella sensazione, che in fondo abbiamo provato tutti almeno una volta nella vita, di aver perso un’occasione importante o magari più d’una, un rimpianto che comincia a circolare dentro di noi ed esplode nello stomaco. È come se il narratore si spogliasse dei suoi panni di cronista distaccato e ci indicasse sul suo corpo il punto esatto in cui si materializza quella “certa cosa”. Buzzati avrebbe potuto dire “lì”, oppure avrebbe potuto dire “Si sentì prendere da una certa cosa alla bocca dello stomaco”. Invece no: la frase rimane semplicissima nella sua costruzione e nel linguaggio, eppure quella parola piazzata in quel punto la rende decisiva.
La figura dello scaricatore di casse adesso viene descritta “come un giustiziere”. Chi incarna allora lo sconosciuto? La sua coscienza, la voce della ragione, una giustizia terrena, il suo doppio, la morte, il tempo scaduto? Kazirra ora inizia a supplicarlo, chiedendo di lasciargli almeno quei giorni, solo quei tre. Crediamo che il protagonista abbia realizzato ormai i suoi errori e speriamo in una svolta dettata dai suoi sentimenti, ma ecco che invece propone in cambio dei soldi dicendo di essere ricco, di essere disposto a dare tutto quello che serve per ottenere quei giorni.
Vorrebbe contrattare con lo scaricatore, vorrebbe comprarlo così come ha comprato tutte le altre cose materiali, compresa la sua sontuosa villa. Ma no, non è possibile. Poi il finale: un gesto dell’uomo a indicare che è ormai troppo tardi, tutto ciò che è stato ha assunto il carattere dell’irreparabile, e dopo avviene la sua scomparsa insieme alle casse. Tutto svanisce, come in un racconto di fantasmi o in una scena immaginaria. Infine c’è un’ultima, eloquente frase: “E l’ombra della notte scendeva”. Kazirra, non c’è nessuna speranza per te in questa notte impietosa.
Numerose sono le domande alla fine della lettura nonostante la brevità del racconto, ma una necessaria selezione mi impone di privilegiarne alcune più di altre, e allora eccone un paio: visto che Buzzati sognava molto e da quanto riferisce in delle interviste scriveva anche dei suoi sogni, può darsi che queste atmosfere angosciose e rarefatte siano state proprio ispirate da un sogno? Considerato l’impianto kafkiano del racconto e l’adorazione di Buzzati per il genio praghese, sarà mica un caso che il nome del protagonista cominci con la lettera K?
I giorni perduti è un racconto fantastico e allegorico, ma anche capace di lanciare messaggi precisi, indiscutibili. Il protagonista ha passato la sua vita ad accumulare soldi e in preda all’avidità del possesso, e questo lo sappiamo da pochi ed efficaci elementi. I giorni che ha vissuto rappresentano il simbolo di tutti quelli che al contrario non è riuscito a vivere, perché troppo impegnato su sé stesso. Vien da dire che oltre ai suoi giorni, Kazirra abbia perso per sempre anche la felicità. O che, magari, non l’abbia mai trovata.