Narrazione ex machina: il museo dai mille volti

Questo è un articolo che non dovete perdervi. Pochi giorni fa, nel corso di un riuscitissimo seminario, mi sforzavo insieme ad altri conosciuti e assai competenti ospiti di capire (e far capire), che fine avrebbe fatto il turismo nel nostro Paese.  Gira e rigira, le parole ricorrenti, a parte quella scontata di ‘crisi’: erano ‘parola’, ‘narrazione’, ‘accoglienza‘, ‘ rispensare gli spazi‘, ‘turismo diffuso’.

Il concetto di come ripensare tutti assieme con originalità ed efficacia  lo spazio, forzati certo da questo momento di emergenza ma seguendo una linea di pensiero ed un’esigenza ben più antica, ci coinvolge tutti, e con grande, grandissima urgenza.

Provate a pensarci, non riuscirete a smentirci. E’ la gestione dello spazio la vera frontiera del mondo nel contesto attuale.

spazio vuoto

Lo spazio come cornice, setting, ambientazione, contesto, tutti da ripensare, praticamente in ogni ambito professionale e sociale.

Lo spazio sconvolto dall’emergenza che diventa un’allegoria e una figura dell’inversione, questa strana inversione di ruoli che viviamo tra quinte e personaggi, per cui quel mondo caotico che cercavamo di tenere a distanza avvolti nel nostro guscio adesso è precisamente ciò che rivogliamo indietro, e il guscio ci fa paura, perchè ci ricorda l’isolamento, quello passato e quello prossimo venturo. La comfort zone divenuta prigione, chi l’avrebbe mai detto?

Lo spazio di fruizione dei nostri territori, da ripensare perchè la grande bellezza non diventi una grande (e incolmabile) distanza.

wunderkammer

Stiamo affrontando e affronteremo questo tema da varie angolature, perchè lo riteniamo letterariamente e materialmente fondamentale. Nello spazio, il materiale e l’immaginario si saldano. La narrazione museale è un fantastico modo per entrare nel tema: pochi ne sanno davvero qualcosa, molti ne sottovalutano l’importanza.  Dopo il 18 Maggio, in compagnia di pochi guardinghi e mascherati temerari, mi sono recato in un noto Museo d’arte contemporanea, che riapriva dopo mesi: c’era la voglia di riappropriarsi della vita, anche di quella culturale, di ridare un senso a quei bellissimi luoghi da troppo tempo vuoti. Ma percorrendo le sale smisuratamente vuote, le installazioni concepite per folle di visitatori, gli spazi esterni concepiti come mere vie di deflusso e respiro tra un’orda di pullman, ho avuto come la sensazione di trovarmi a cavallo tra due epoche storiche, come se quegli  spazi mi parlassero una lingua sempre meno comprensibile, ma un’altra stentasse ancora a  farsi largo.

Ho condiviso queste mie sensazioni con Francesca Condò, che abbiamo già avuto la fortuna di conoscere e leggere su queste pagine e che ha avuto la bontà di starmi ad ascoltare, aggiungendo ai miei magri concetti la sua grande esperienza e capacità di sintesi e riflessione. Ne è nato qualcosa di inedito, interessante e molto significativo, che leggeremo in due parti. Merita il tempo che vorrete dedicarvi. 

Francesca Condò è architetto specialista in restauro dei monumenti con esperienze nel campo della pianificazione territoriale e conservazione del paesaggio, degli allestimenti museali e della divulgazione scientifica.
Dopo gli studi, presso l’Università Sapienza di Roma, e la libera professione (storia dell’architettura, rilievo, restauro, valorizzazione del paesaggio, editing e ricerche per realizzazione musei, illustrazione e grafica) e collaborazioni col MiBACT ha lavorato presso la Soprintendenza Archeologica per le Province di Sassari e Nuoro (2012-2015) svolgendo lavoro di progettista e direttore dei lavori per interventi di restauro e per la realizzazione di mostre. Da settembre 2015 è in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT con incarichi relativi a rapporti internazionali bilaterali, progettazione di mostre in Italia e all’estero. È attualmente coordinatore presso la stessa direzione dell’unità organizzativa che si occupa di allestimenti museali, ambito nel quale si sta occupando di attività per il miglioramento del racconto museale.

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IL MUSEO DAI MILLE VOLTI

spunti di lavoro per una narrazione museale post covid-19

“We have only to follow the thread of the hero-path. And when we had thought to find an abomination, we shall find a god; where we had thought to slay another, we shall slay ourselves; where we had thought to travel outwards, we shall come to the center of our own existence; where we had thought to be alone, we shall be with all the world

Joseph Campbell, The hero with a thousand faces[1]

  1. Racconto museale / racconti museali.

Quale è il significato che diamo alla locuzione “narrazione museale”? Forse non a caso non se ne è data una definizione stretta, lasciando così la possibilità a ogni entità coinvolta dal tema di scegliere la direzione che più le si confacesse.  La definizione stessa di museo[2] si applica a  realtà anche molto diverse tra loro accomunate da uno scopo definito dall’ essere al servizio della società, dall’apertura, dalla ricerca, e non soltanto, come era in un passato non troppo remoto, dalla necessità di rappresentare un paese o conservare beni culturali mobili. Sulla definizione di museo l’estesa comunità dei membri di ICOM – International Council of Museums – costantemente discute, fino alle recenti e ancora controverse proposte emerse dal convegno di Kyoto[3].

Se partiamo quindi da un oggetto, il museo, di per sè difficilmente definibile in modo univoco, non si potrà pretendere di avere una definizione di “narrazione museale” stretta.   E forse, per il narratore, è meglio così.

wurmiani

  1. Museo come macchina.

Quando penso al museo non mi vengono in mente definizioni statiche. Quando penso a un museo penso a una macchina complessa, composta da elementi eterogenei che svolgono la loro mansione ai fini di un unico scopo: essere, appunto, al servizio della comunità umana e del suo sviluppo. Si entra nella macchina, si viene frullati o cullati, a seconda della natura della macchina, e si esce cambiati. 

La complessità della macchina fa si che la narrazione non possa essere affidata al solo linguaggio scritto: sono diverse le componenti che narrano, diversi per ognuna delle componenti i registri di lettura.

Distinguiamo le discipline per avere la possibilità di descriverle scientificamente, secondo un’attitudine classificatoria che aiuta la nostra memoria e la nostra tendenza a ordinare il caos del mondo; ma è davvero possibile separare gli ingranaggi di una macchina? Distinguere, come si è quasi sempre fatto finora, l’allestimento dall’ordinamento scientifico di un museo?

Nella macchina-museo la comunicazione del contenuto dovrebbe avvenire attingendo a tutti i mezzi espressivi a disposizione e scegliendo quale privilegiare a seconda del caso, e a più livelli:

– il linguaggio scritto e parlato (pannello e didascalia – in tutte le loro versioni – strumenti audio, teatro e lettura)

– lo spazio e gli arredi (organizzazione delle sale, morfologia di arredi e vetrine, organizzazione fisica dei percorsi)

– il linguaggio visuale (uso dei colori, uso dell’illuminazione)

– il linguaggio sonoro (musica, rumori)

– altri linguaggi sensoriali (tatto, olfatto, gusto)

– le installazioni complesse (fisiche o virtuali: installazioni interattive, realtà aumentata, ricostruzioni, gaming, performance in generale etc.)

La narrazione museale include tutte queste e magari altre forme espressive.

Una narrazione museale davvero efficace dovrebbe porsi l’obiettivo di attingere a queste forme senza pregiudizi selezionando, considerate anche le possiblità concrete di realizzarle, quello che di più si avvicina al contenuto da trasmettere, ossia a quel particolare museo, a quella particolare collezione.

  1. La narrazione scritta e parlata

I musei offrono infinite possibilità di racconto.  Partire da un oggetto è sempre un grandioso pretesto e i musei sono pieni di oggetti densi e quiescenti che aspettano di essere svegliati: è come avere in mano un mazzo di tarocchi con molte, molte più carte di quelle che ha utilizzato Calvino. Infinite alla infinito storie.

Pensiamo a una statua antica. Il primo soggetto che viene in mente al narratore è la storia del personaggio raffigurato o la storia del mito di cui quello rappresentato è uno dei personaggi. Si potrebbe invece attingere in via più diretta all’essenza di ciò che abbiamo di fronte, all’inconscio collettivo, ossia a un’invariante, a ciò che quel reperto rappresenta per il nostro essere umani a dispetto del tempo, come nelle poesie di Gabriele Tinti[4] o ancora a qualcosa che allude a un significato simbolico nascosto  – e che per noi è diventato incomprensibile, o a un elemento concreto che connetta l’opera alla regione di provenienza: il materiale – e da qui le cave, il paesaggio delle cave, la lavorazione, il paese dove quella lavorazione venne fatta per la prima volta, perchè venne adottata, l’operaio che morì in quella cava, la statua rimasta nella cava perchè era troppo grande e si ruppe durante la lavorazione, quella che mai raggiunse il posto a cui era destinata perchè la nave fece naufragio o perchè i pirati se la portarono per venderla altrove, come erano stivati questi pezzi nella nave perchè non venissero danneggiati. Può essere una descrizione ecfrastica esauriente e puntigliosa oppure una descrizione vaga e fluttuante che riflette analogie e differenze spezzandole in mille frammenti di specchio.

chiavi

E così, accanto alle classificazioni scientifiche, pullulano le classificazioni di un Linneo a nostro uso e consumo, come in un caleidoscopico manuale di zoologia fantastica. In fondo nulla ha impedito al chimico Levi, scrittore di cose tanto reali e concrete da ricordarci con dolore di che pasta è fatto l’uomo, di nuotare nella pura fantascienza di un parimenti inventato Damiano Malabaila. L’importante è che sussista un’intesa, un patto di sangue alla base, tra chi racconta e chi ascolta, un’intesa che permetta sempre, in fondo alla narrazione, di distinguere ciò che è racconto e ciò che è ipotesi da ciò che è invece il frutto di un’indagine scientifica: perchè non tutti quei peculiari viaggiatori che chiamiamo visitatori hanno bisogno della stessa cosa. E per questa ragione non è affatto detto che tutti bramino il videogioco: tra i visitatori ci sono anche quelli che in un’occhiata sono soddisfatti e passano a sedersi in caffetteria a fantasticare in assenza dell’oggetto, quelli che cercano ciò che conoscono per il piacere di ri-raccontarsi una storia mitologica, quelli che stanno tanto tempo a guardare solo la stessa opera (e per i motivi più diversi, dall’attrazione sessuale per il bel torace di un eroe all’estasi estetico-materica del marmo polito), o quelli che la guardano con la lente per vedere che forma hanno i cristalli o l’inclinazione della pennellata.

Così, come in un bar della mente, nel museo entrano pubblici diversi: qualcuno vorrà un caffè senza zucchero, qualcuno un bicchiere di vino strutturato di cui coglierà i profumi complessi, qualcun altro non saprà nulla di enologia ma entrerà ad annusare perchè va di moda e resterà prigioniero del gusto della scoperta. Prodotti diversi ci sono, possono convivere sullo stesso scaffale: possiamo berli nello stesso luogo – ognuno il suo, secondo le sue preferenze, oppure assaggiarle tutte noi, quelle bevande, in diversi momenti della nostra vita non necessariamente lontani nel tempo.

 

  1. A che serve il racconto museale? Dalla cittadella fortificata alla capanna delle riunioni

Il racconto museale è uno degli strumenti con cui il museo può parlare a più persone. Scrivere per più pubblici non vuol dire instupidire il linguaggio ma al contrario affrontare il difficile compito di veicolare contenuti anche complessi senza tradirne la scientificità per renderne palpabile l’importanza per tutte le persone che formano la comunità.

La necessità di scrivere per comunicare il proprio sapere – le proprie scoperte scientifiche, storiche, archeologiche, et c. a chi non conosce il linguaggio specialistico di una disciplina presuppone al contrario una capacità in più. Fino a qualche anno fa questa esigenza è stata nel nostro paese ignorata per diverse ragioni legate probabilmente a un particolare modo di considerare il ruolo della cultura. A questo modo era associata una concezione del museo come luogo riservato agli esperti in cui si concedeva di entrare ai non iniziati purchè restassero in rispettoso silenzio, senza chiedere nulla dei misteri: non comprendere un oggetto esposto, una didascalia, era considerato motivo di vergogna. Il visitatore è stato così non solo abituato a non chiedere ma anche, dopo i primi frustranti tentativi, indotto a disertare luoghi di cui non vedeva la necessità visto che conservavano oggetti di cui non riusciva a comprendere l’importanza.

Non è un caso se l’avvicinamento al pubblico dei non esperti è iniziato da musei legati alle scienze e ai valori naturalistici del territorio: in quel frangente, infatti, non si esponeva il bel quadro, che comunque si considerava suscettibile di apprezzamento anche in assenza di informazioni, ma ci si trovava a dover porgere oggetti – o a parlare di fenomeni in assenza di oggetti- di non immediata apparente comprensione. Musei scientifici, musei antropologici e centri visita-musei del territorio così hanno sviluppato una maggiore attitudine alla didattica e una capacità di raccontare che è rimasta a lungo esclusa dai nostri musei celebri e ricchi di opere d’arte.

Altro fattore  che per i musei scientifici risultava vitale e che è sembrato a torto inutile per quelli artistici o archeologici era la connessione diretta col territorio, la spinta a condurre il visitatore anche fuori dell’edificio-museo per ritrovare contesti di cui nel museo si faceva menzione: in un museo geologico posso esporre un campione di calcare a rudiste ma non – se non in foto – l’intera parete alta duecento metri contenente la fascia alta 5 metri del livello che contiene quei fossili, parete che però il visitatore, investito del ruolo attivo di esploratore, può andare a vedere di persona con una mappa su cui è tracciato un itinerario.

Col mutare del concetto di museo, di cui si è finalmente sottolineato il ruolo di servizio pubblico, e con uno sforzo, da noi recente, per arrivare al cuore dei visitatori di ogni tipo, ci si è cominciati a interrogare sulla necessità di porgere in modo diverso anche i contenuti dei musei artistici e archeologici, e più in generale di tutti i musei rimasti fermi a una concezione iniziatica.

Non si tratta di sminuire il ruolo del curatore scientifico: si tratta di affiancare all’esperto di una certa materia che magari non ha approfondito aspetti legati alla divulgazione e al racconto, un professionista in grado di comprendere, masticare e riformulare il contenuto in modo nuovo. Qui entra in gioco il narratore il cui ruolo – che può andare da quello dell’editor/comunicatore a quello dello scrittore vero e proprio, ossia di chi dà vita a un’opera indipendente che però, grazie al legame col museo, aggiunge valore al dato scientifico.

Lo scrittore può avere da ognuno dei soggetti che partecipano alla creazione di un museo (storico, antropologo, architetto, scenografo, archeologo, storico dell’arte, illuminotecnico, impiantista et c.)  oltre che dalla visione diretta delle opere e dei luoghi, le diverse chiavi di lettura, ossia ciò ognuno di quei soggetti ritenga importante comunicare, e lavorare il testo in modo che esse siano presenti e vitali.

(fine parte I)

[1]Joseph Campbell, The hero with a thousand faces, 1949; cit. Da ed.New World Library -2008, p.18

[2] art.1 DM 2014: 1. “Il museo è una istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. è aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone a fini di studio, educazione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica.”

[3]Nel corso del convegno è stata proposta una nuova definizione di museo non accettata da tutti i comitati nazionali partecipanti perchè spinta verso una funzione meno ancorata al patrimonio da trasmettere e più legata a funzioni per le quali esistono già altri luoghi deputati rispetto al museo, che perderebbe così la sua identità tipologica specifica.

[4]https://www.raicultura.it/arte/articoli/2019/09/Poesia-e-Arte—3d975ccc-fbd7-402f-a89d-3e2ed0004350.html; http://www.raiscuola.rai.it/articoli/rovine-di-gabriele-tinti-legge-alessandro-haber/38484/default.aspx