Barzhaz!!!

A Settembre, in grande stile, parte un nuovo progetto. Piuttosto ambizioso e diverso dal solito direi. Dietro con me uno staff di persone in gamba ed entusiaste. Se volete fare qualcosa di diverso, aderite….

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Vanna Bianciardi Bastreghi o dell’umanesimo che manca all’Europa. Un ricordo.

Giovanni Battista Angioletti rientrerebbe piuttosto bene nella mia rubrica de ‘I sommersi’ che presto (a settembre) riprenderemo, ma stavolta non è per questo che lo cito.  Vinse lo Strega e il Viareggio, ma soprattutto propugnava un’idea di ‘Umanesimo europeo’. Fondò la comunità europea degli scrittori.

Sergio Zavoli ricorda come una volta si fosse unito a lui ‘a chiedere per la RAI, da Parigi a Dublino, da Berlino a Londra, da Vienna ad Oslo «Saranno europei i nostri figli?». Erano nientemeno che gli anni Cinquanta.

In questi giorni è venuta purtroppo a mancare Vanna Bastreghi Bianciardi, una grande donna protagonista della cultura locale.  E non solo. Il libro di Nistri-Lischi nella cui prefazione a cura di Zavoli è contenuto quel passo è il suo Eurocrati in classe-l’Europa in una classe d’Italiano, del 1978, poi ristampato nel 2007.

Ci mancherà Vanna. Oggi con la figlia Gaia guardavamo con nostalgia le ordinatissime minute e le diapositive dei bellissimi e assai originali interventi che teneva sull’arte e sulla figura della donna nel Medioevo che sarebbe bello rendere di nuovo fruibili. Si respirava la sua presenza, in quella dimora antica dove il Pontefice Leone X, nei suoi viaggi verso Roma, aveva l’abitudine di soggiornare.

È un libro di grandissima attualità, quello che citavo, dovrebbe essere ristampato ancora una volta perché se ai riferimenti all’Europa (allora) a nove si sostituisce il numero attuale di Stati aderenti, il resto funziona benissimo e fa capire di più su come è cambiata la nostra visione del mondo negli ultimi cinquanta anni che la lettura di cento dotti trattati.

Ciò che animava anche la sua ampia e instancabile attività di animazione della cultura locale, come docente, esperta apprezzata in Italia e all’estero (con cui anche una volta tornata in Toscana aveva mantenuto proficui contatti) e come Assessore era davvero un profondo senso di umanesimo e come diceva Zavoli gli umori di una remota socialità rinascimentale.  Proprio quello che cercava caparbiamente Angioletti. Ce ne sarebbe davvero bisogno oggi perché non è che vediamo una grande abbondanza di donne e uomini dotati di una tale ampiezza e profondità di visione.

Senza starci tanto a ragionare (a Lei, dotata di umorismo e spontaneità non sarebbe piaciuto) si potrebbe tradurre tutto questo con la parola entusiasmo e fede. Vanna che aveva conosciuto il vero significato della violenza della guerra, apparteneva alla generazione dei pionieri entusiasti, affamati d’Europa. La sua era una fede tutta laica in un umanesimo europeo tutto da creare, mattone dopo mattone, per quanto la riguardava insegnando per decenni l’italiano a Bruxelles, al Berlaymont, nell’ambito di quello che allora si chiamava Mercato Comune. Si potrebbe dire che credeva in una Europa dell’essere prima ancora che dell’avere (oggi sia va a Bruxelles solo a chiedere). Eurocrate che insegna ad eurocrati, come si definisce a più riprese nel libro, pertanto entusiasta portatrice e ambasciatrice, ad un alto livello di interlocuzione, della propria cultura italiana ma altrettanto entusiasta e curiosa investigatrice e amante di quella degli altri Paesi, con cui nelle pagine del suo libro trova spiazzanti e inedite assonanze.  A cominciare dalla cultura belga, che si sforzò di capire in profondità, oltre tutti i pregiudizi e gli stereotipi, scoprendo delle persone dolci, piene di sensibilità e di comprensione. Questo è precisamente il comportamento di un umanista. Personalmente, ho capito più del Belgio e in particolare di Bruxelles visitandola con Lei che in tutti quanti i miei studi precedenti.

Nel libro esistono passi che sembrano scritti, profeticamente, oggi e non quarantadue anni fa, a volte assai critici perché si intuisce, a ragione, che l’Europa va costruita a partire dalla cultura e non dalla moneta. Occorre insomma la fondazione di radici comuni, altrimenti l’esperimento non può realmente funzionare.

In questa epoca in cui, anche per tenere insieme una famiglia, occorrono prodezze da acrobati, mi domando come faranno a tenere insieme nove paesi così diversi, senza finire per cavarsi gli occhi. L’Europa non progredisce’; ‘…dalla riunione al vertice, è l’Europa che è uscita sconfitta’, scrivono i giornali dopo quasi ogni incontro importante, protrattosi magari tutta la notte.

E ancora si legge mi sono spesso domandata perché questa scuola, in teoria fucina di europeisti futuri, acuisca il nazionalismo in maniera esasperata, soprattutto quando sono piccoli.

Vanna bianciardi

E poi dopo trent’anni trascorsi a Bruxelles, Vanna Bianciardi Bastreghi anima con intelligenza la cultura locale chiantigiana, e lo fa con ruoli non solo istituzionali (quelle Assessore alla Cultura a Castellina in Chianti) ma anche e specificatamente, entrando nel merito dei contenuti culturali. Prova ne sia il fatto che non capita certo spesso di vedere cataloghi di mostre che ricordano il contributo degli amministratori locali non negli stantii e rituali ringraziamenti iniziali, ma nel vivo del volume. In uno di questi cataloghi di mostre vi è una bella intervista dove in poche frasi Vanna sintetizza la storia chiantigiana e anche i suoi ideali di apertura e disponibilità verso l’altro e l’altrove: dalla solidarietà della comunità contadina (per fuoco e acqua non si ringrazia mai) alla esplosione di queste stesse comunità nel dopoguerra ( i piccoli mondi chiusi e paghi del poco non esistevano più, le campagne si svuotavano) fino all’affermarsi di un modello di turismo colto e internazionale  (ora assai rimpianto) dove per primi gli Inglesi, che scoprono il Chianti,  comprano case, trascorrono vacanze, addirittura si dedicano alla terra. A quegli stessi inglesi la ‘Vanna di Bruxelles’ aveva dedicato delle divertenti pagine che al lettore di oggi potrebbero suonare addirittura distopiche, descrivendo l’importanza che per Lei aveva lo ‘YES’ all’Europa del 5 Giugno 1975, vissuto in presa diretta dalla scrivente. Arrivavano ai Consigli con la loro Sterlina vacillante, nelle loro solide Rolls nere, impressionanti e déemodées. Ma al contempo erano ter-ri-bil-men-te affascinanti!

Vanna in quella stessa intervista dimostra di essere attenta anche ai fenomeni più recenti idi immigrazione rimarcando a chiare lettere che la disponibilità ad accogliere culture rientra nelle tradizioni locali di tolleranza.

Ma non si vive di sole mostre e occasioni ufficiali e così, oltre al personale e dotto contributo ad opere italiane e in lingua francese, ecco iniziative originali da Lei favorite come ”Il segreto del Santo”, cortometraggio ambientato a Castellina e che vede protagonisti molti abitanti del comune chiantigiano, finalista al Giffoni Film Festival, in concorrenza con più di 1600 altri film, piazzandosi fra i primi sei nella sua categoria e che poi ha partecipato a molti festival nazionali e internazionali e ha ricevuto inviti per altrettante manifestazioni di fama mondiale.

Speriamo di aver contribuito in qualche modo a ricordarla, questa figura di donna colta, intelligente e garbata, che se ne è andata così, esattamente come concluse il suo libro e come recentemente, quasi con le stesse parole, ha fatto Ennio Morricone: in punta di piedi, per non disturbare. Contando sul suo esempio e sul nostro speculare ricordo.

Lucia Berlin, o della risurrezione

Se volete vedere le cose da altre angolazioni.

Se ritenete che la narrazione possa e debba essere un modo per vedere (capire) la vita propria e altrui, i suoi piaceri e i suoi dolori e sentire il suo motore in funzionamento da una pluralità, anzi da una polifonia di punti di vista.

In questo caso Lucia Berlin fa per Voi e non vi potete perdere questo quarto numero di Anatomia di un racconto, una rubrica tutta particolare condotta da Mirko Tondi ( QUI I PRECEDENTI NUMERI Nr 1, Nr 2, Nr 3)

Per non disturbare (come faccio spesso) il bel lavoro di Mirko aggiungero solo due concetti e una domanda delle cento pistole ( per Mirko, sennò come faccio a disturbarlo? Ma rivolta a tutti in realtà…)

Di Lucia Berlin si sa troppo poco, perchè troppo poco è stata apprezzata in vita tanto da essere un’autentica scrittrice ‘sommersa’ , fino a quando qualcuno si è degnato, giustamente, di ripubblicarla e renderla nota al grande pubblico. Ma raramente mi è capitato di leggere una intervista ad uno scrittore così divertente come questa da lei rilasciata nel 1996. Proprio del racconto che Mirko approfondisce dice che è stato  La cosa più sperimentale che ho fatto.

Altrettando raramente capita di leggere racconti così ben fatti (cfr La donna che scriveva racconti (traduzione di Federica Aceto, Bollati Boringhieri)

Domanda: ma può esistere un racconto perfetto? O è proprio un impercettibile margine di imperfezione a rendere un racconto ‘realmente perfetto’?

Ora gustiamoci questa nuova Anatomia…

anatomia

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Anatomia di un racconto Nr. 4 – Punto di vista

Diciamo la verità: l’ambizione dello scrittore di racconti è quella di sfiorare – se non proprio raggiungere – la perfezione, che sia per struttura, per tecnica o per stile, o nel migliore dei casi tutte e tre queste cose assieme.

Magari intende dar vita a qualcosa che possa inscriversi nel campo dell’universale, qualcosa che non deve per forza piacere ma colpire, quello sì, lasciare il segno, incidere un’emozione sulla pelle di chi legge. Del resto non sono moltissimi i racconti che possono annoverarsi in questa ristretta categoria, forse Un giorno ideale per i pescibanana di Salinger (ne parleremo sicuramente in uno dei prossimi appuntamenti) o Il nuotatore di John Cheever (idem) e qualche altro, scegliete in base ai vostri gusti. Ma credo che Lucia Berlin, abilissima scrittrice di short stories mai fin troppo celebrata, sia riuscita a creare un piccolo capolavoro con Punto di vista, il racconto di cui parliamo oggi (“piccolo” per dimensioni, non certo per intenzioni, sia chiaro).

Non è assolutamente prerogativa di molti riuscire a scrivere un racconto che sia allo stesso tempo una lezione di letteratura e una lezione di scrittura, una lezione che non troverete in nessuno dei tanti corsi che si tengono oggi ma solo in queste poche pagine che ci ha regalato l’autrice americana.

Lucia Berlin

La prima riga recita così: “Immaginate il racconto di Cechov Angoscia narrato in prima persona.” Il racconto è appena cominciato e già noi siamo catturati da un gorgo metanarrativo che ci trascina nell’immaginario cechoviano, coi suoi personaggi disperati e commoventi, di cui il vetturino Jona Potàpov – che ha appena perso un figlio – è un esempio eccellente. Le righe che seguono – una decina in tutto – ci dicono che quel racconto di Cechov non è affatto in prima ma è in terza persona, ed è propria quella “voce imparziale” (per usare le parole della Berlin) che ci fa entrare nel dolore del personaggio. Certo dipende dall’intensità della voce che si usa, e ciò non significa che la scelta della terza persona sia migliore della prima (d’altra parte alcuni autori, come Dostoevskij, attraverso un io narrante intimo e profondo sono riusciti a toccare vette altissime), ma semplicemente che Cechov, nella sua ricerca dell’oggettività, riusciva attraverso il narratore onnisciente a riferire i sentimenti dei personaggi in maniera nitida e a farci empatizzare con loro. Ecco dunque la breve e utilissima lezione di letteratura che apre Punto di vista.

Poi la Berlin ci presenta la sua protagonista, dicendoci la sua età, la sua professione, le sue abitudini, tutto attraverso la prima persona. No, non funziona, ci dice subito dopo. In questo caso, meglio usare la terza persona e andare dritti all’aspetto abitudinario: «Ogni domenica, dopo essere passata in lavanderia e al supermercato, comprava l’edizione domenicale del “Chronicle”». Ora siete disposti ad ascoltare tutti i dettagli, perché “Pensereste, diavolo, se la narratrice ritiene che ci sia qualcosa da scrivere a proposito di questa creatura scialba dev’essere così. Continuiamo a leggere, vediamo cosa succede.”

A questo punto l’autrice ci rivela che il racconto non è ancora stato scritto, ma è in divenire nel momento stesso in cui leggiamo.

Aggiunge qualche altro dettaglio per renderci più credibile Henrietta, il suo personaggio, per esempio dicendoci che per mangiare si serve di “finissime posate italiane in massiccio acciaio inossidabile”, per confessarci poco dopo che lei stessa utilizza quel tipo di posate. Compie ora una rapida digressione e ci racconta un episodio divertente che le è accaduto, un banale equivoco, cosicché ci ritroviamo a familiarizzare – oltre che con Henrietta – pure con lei. Torna al suo personaggio e affastella altri dettagli, finché scopriamo che è innamorata del dottor B., per cui lavora come infermiera. Giunti fin qui sarà necessario sdoppiare l’attenzione, poiché esistono due diversi piani: da una parte quello sui cui si materializza a poco a poco Henrietta, il personaggio di fantasia, e dall’altra quello si cui si muove Lucia Berlin, la scrittrice. Il nefrologo su cui ha ricalcato il personaggio è lo stesso per cui lavorava lei un tempo, ma l’autrice ci fa sapere che in realtà non ne è mai stata innamorata; però Shirley, la ragazza che lavorava lì prima di lei, oh lei sì che ne era innamorata, al punto da fargli numerosi regali. Gli scrittori, si sa, rubano qua e là dalla vita degli altri.

VOLONTE

Quando ci ripenso, mi fa sempre ridere quella battuta del film Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio, dove Bizanti, il cinico capo redattore di un giornale (uno splendido Gian Maria Volonté) pronuncia questa battuta subito dopo aver licenziato Roveda, un giornalista dall’anima pura che vorrebbe raccontare una verità senza compromessi: “Finiremo tutti nel suo primo libro”. Proprio così.

L’autrice utilizza uno di quei regali (veri) – “un sedile da bicicletta peloso in pelle di montone” – per farne il climax del racconto (inventato), tracciando il momento in cui Henrietta viene schermita dal dottor B., “il momento in cui lei si rende conto di quanto il dottore la disprezzi, di quanto sia penoso l’amore che prova per lui”. Ci sono poi altre caratteristiche di Shirley che la Berlin attribuisce a Henrietta e che diventano le sue abitudini, soprattutto domenicali: Cosa mangia? Cosa guarda in televisione? Cosa farà in quel lunedì tanto atteso, quando il dottore che non la degna della minima considerazione arriverà a esserne persino infastidito? Dopo aver visto La signora in giallo, si fa un bagno rilassante, poi sorseggia una tazza di camomilla, infine sente dei rumori fuori dalla finestra: un’auto che sgomma, una portiera che sbatte, qualcuno che si avvicina alla cabina telefonica. “Henrietta spegne la luce, alza le veneziane vicino al letto, solo di poco. Il vetro della finestra è appannato”. La musica di Lester Young che arriva dall’autoradio. Nella cabina c’è un uomo che sta telefonando e si asciuga la fronte con un fazzoletto.

CONDENSA VETRO

E ora il vero colpo di genio, il gioco sul punto di vista del tutto inatteso eppure annunciato già dal titolo: la narrazione smette di essere in terza per far posto alla prima persona; d’improvviso l’autrice coincide con Henrietta, vi si sovrappone in maniera magistrale. “Mi appoggio contro il davanzale freddo e lo guardo”. Ascolta il sassofono di Lester Young e scrive una parola nel vapore del vetro. Quale? Non lo sapremo mai, perché la cancella “prima che qualcuno possa vederla”.

Laboratorio Vie Brevi e Festival dello scrittore…che bel lavoro!!!

festival scrittore final poster

Nessuno dice che il virtuale sia sostitutivo dell’incontro fisico tra gli scrittori, gli editori e il loro pubblico…ma le cose si possono fare in tanti modi. E questo lavoro, per cui ringrazio Katia Brentani di avermi reso partecipe, è veramente ben studiato.

Detto questo, ecco i partecipanti. I risultati di ‘Vie Brevi’ ci sono già e a breve verranno comunicati. Io mi sono molto divertito a leggere e interagire con i racconti inviati. Adesso viene il bello, con il Festival!!Buona lettura gente!

festival video

Video: https://www.facebook.com/groups/festivalscrittori/permalink/1827185437422426/

Partiti i lavori per la sesta edizione del Premio Asimov 2020-2021: intervista a Sandra Leone

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Ho scritto e ho detto più volte che la partecipazione in giuria e nelle scuole all’organizzazione del Premio Asimov è stata un onore e una piacevolissima esperienza. Idem come sopra per la bella cerimonia finale. Per chi crede nella importanza della recensione come mezzo per entrare creativamente e costruttivamemnte nel mondo della lettura (e da lì in quello della scrittura) non poteva essere diversamente.

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Dopo i successi dell’ultima edizione, conclusasi lo scorso Maggio superando brillantemente i notevolissimi problemi organizzativi imposti dall’emergenza COVID (https://massimilianobellavista.wordpress.com/2020/05/14/domani-maxi-evento-con-la-finale-in-diretta-nazionale-del-premio-asimov/) con ben 18 studenti Toscani premiati, il premio Asimov (https://www.premio-asimov.it/ ) pensa già alla sua sesta edizione. Ho intervistato al riguardo Sandra Leone, infaticabile referente e coordinatore della Commissione Scientifica Regionale Toscana, con cui abbiamo avviato una proficua collaborazione a partire dal 2019. Esortiamo altre scuole toscane ad unirsi per tempo a questo magnifico progetto, completamente gratuito, di certo uno dei più lungimiranti e interessanti in Italia!

D- Cosa è il premio Asimov, cosa si propone?

R. Il premio Asimov, nato in Abruzzo nel 2015, istituito originariamente presso il GSSI e giunto alla sesta edizione, è un riconoscimento riservato ad opere di divulgazione e di saggistica scientifica. Il Premio si avvale della collaborazione di studenti e studentesse del triennio della scuola superiore, che agiscono nel ruolo di giurati. I giurati hanno l’incarico di leggere, discutere, valutare e recensire le opere in lizza, al fine di individuare la migliore tra di esse.  Il Premio intende avvicinare le giovani generazioni alla cultura scientifica, attraverso la valutazione e la lettura critica delle opere in gara.

D.Dopo i numeri di tutto rispetto della scorsa edizione, cosa si propone il Premio Asimov per il prossimo anno?

R-Il premio Asimov si propone l’allargamento della platea di regioni, scuole e quindi studenti coinvolti, al fine di confermare la propria rilevanza, a livello nazionale, come premio letterario nell’ambito della divulgazione scientifica. Infatti altre regioni stanno aderendo, che si aggiungeranno quest’anno alle 14 che hanno preso parte all’edizione  2019-2020.


D-Vogliamo ricordare  i numeri relativi alla Toscana? Come si fa a partecipare?

R-Alla quinta edizione del Premio Asimov hanno partecipato in Toscana 12 scuole in 9 città, situate in 7 diverse province. In tutto 416 studenti hanno sottomesso la loro recensione. La commissione scientifica regionale è formata da circa 50 docenti, ricercatori, scrittori e giornalisti provenienti dagli Istituti Superiori coinvolti nel progetto e da importanti realtà scientifiche e culturali nazionali tra cui INFN, CNR, Radio3Scienza, ALI e CICAP. Tutte le scuole secondarie di secondo grado interessate possono partecipare. Basta contattare i coordinatori regionali della commissione scientifica, cioè Valerio Biancalana oppure la sottoscritta.

Il Domino letterario fa 13

 

Gastone Nencini

Nuovo appuntamento con il nostro Domino Letterario, che per ora resta in ambito sportivo. Giancarlo Brocci, chiamato in causa la scorsa volta da Riccardo Lorenzetti, passa la palla a Giovanni Nencini e presenta il suo libro “Sulla cresta dell’onda. Gastone Nencini e quel 1960” (Sarnus), in cui restituisce il ritratto commovente del padre, vincitore del Tour de France nel 1960. Clicca qui per il video

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Il libro – Il 1960 è un anno fondamentale per il grande ciclista Gastone Nencini, che vince il Tour de France dopo aver sfiorato il trionfo al Giro d’Italia che perse per solo 28 secondi dopo aver duellato a lungo con Jacques Anquetil che si aggiudicò quell’edizione.. In un dialogo immaginario col giornalista Armand, il campione racconta sforzi, passioni, imprese, fortune e sfortune di quel Tour. Parallelamente è ricostruita la storia d’amore ‘clandestina’ tra Nencini e Maria Pia, ragazza fiorentina che poi riuscirà a sposare e che diverrà madre di suo figlio. Il libro restituisce un ritratto commovente del ciclista e dell’uomo, raccontandoci allo stesso tempo un’epoca che, con l’avvento degli sponsor, segnò il passaggio dal ciclismo “eroico” a quello moderno.

 

Tayla

 

Tigre 1

Tayla è lì. Si muove a scatti attorno alla bara con l’imprevedibile dinamica dei sogni, metà corpo e metà vento. E non mi perde di vista neanche un momento. Tuttavia io so che per lei non rappresento una preda, infatti non è così che mi guarda, piuttosto come una rivale che insidia il suo territorio. Tutto questo è inconcepibile ma succede, e non è lei a sentirsi a disagio in quella chiesa, ma io, e certo questo lei lo percepisce benissimo.

Nessuno oltre me la vede perché siamo sole, io e lei, due femmine in quel silenzio. Le sole ad aver messo radici proprio in questo sogno. Sole nella chiesa. Sole con la morte che per ora è silenziosa e confinata nella bara. La bara è chiusa e tuttavia a tratti riesco a vederci attraverso. Il volto di Malcom non sembra sofferente, ma neanche sereno. Inquieto direi. Mi domando se anche lei riesce a vederlo.

Siamo sole. Ma se anche vi fosse qualcun altro ho il sospetto che nessuno oltre me potrebbe mai vedere Tayla. E viceversa.

So bene che è lì perché nella semioscurità della chiesa vedo la luce dei ceri scintillarle negli occhi, biancheggiare a tratti sulle orecchie che scattano nervose e sui lunghi canini, cercare perfino di abbozzare un sommario profilo sgocciolando incerta dal muso al collo.

Tayla si muove quasi danzando tra la navata esterna e quella centrale, sfiorando gli ostacoli di uno spazio relativamente piccolo e pieno di panche, fiori e candelabri, sottotraccia al silenzio, senza urtare niente, nemmeno l’aria, come sotto la spinta di un ritmo musicale.

A tratti, come arriva in prossimità di uno di quei grandi ceri, si distingue bene tutto il suo corpo, l’arancio acceso sferzato di nero del mantello sotto cui guizzano rigonfiandosi indelebili i muscoli possenti. Poi a un tratto quel corpo statuario si sgonfia, i muscoli si distendono e si contraggono a casaccio distorcendone le fattezze, e Tayla diviene una sorta di bozzolo color ocra che si contorce a terra come un bruco di gomma dentro cui in rapida successione spariscono le zampe, la testa e la coda. Ma fino a quando anche la testa non sparisce del tutto nella morbidezza del bozzolo, i suoi occhi continuano a fissarmi, senza cambiare espressione.

Questa gonfia crisalide gommosa si contorce davanti a me senza che io possa muovere un passo. Poi completa l’ultima fase di quella repentina gestazione e si fa immobile come un cristallo. Il tetto della chiesa brucia in un attimo come carta velina e subito tutto attorno è un susseguirsi di stagioni in un cielo rigato dal veloce passaggio di mille soli e mille lune che si inseguono. I capitelli delle colonne diventano gangli nervosi da cui si espande una matassa di rami. Il travertino si trasforma tutto in una corteccia cerebrale, rugosa e irregolare.

Finché, con un tremito profondo, il bozzolo si schiude con il rumore di un uovo. Dal bozzolo esce una enorme farfalla le cui ali per un attimo si frappongono tra me e il sole, tende iridescenti, rendendo la mia vista un vertiginoso e abbacinato caleidoscopio. L’aria che spostano profuma in modo indefinibile e vola decisa verso la linea dell’orizzonte, dipingendovi miraggi spiraleggianti. La farfalla è già lontana diretta verso quell’ondivaga meta quando vinco i miei timori e tendo le mani per sfiorarla. Non so come pretenda di riuscirvi, ma sento che non è lontana.

Se mi guardo attorno, ora non c’è più niente intorno a me. Svanita la chiesa, svanita Tayla, con tutte le sue molteplici incarnazioni. I miei piedi camminano tra sabbia e cenere lasciandovi impresse impronte liquide, attorno c’è una magnifica desolazione, deserta a ogni forma o dimensione, tutta dipinta dei colori di un cielo autunnale. Può essere aria di mare quella che ogni tanto inumidisce nelle mie narici l’odore acre e secco di bruciato che vi predomina, ma il mare di cui ho sete resta una leggera promessa che non impegna a niente l’orizzonte.  Allora il mio cervello deluso ripone bruscamente il sogno dentro una brutta scatola di cartone, interrompe la corsa del sonno e mi sveglia ancora ansimante.

Piove sui vetri del taxi. Non è la prima volta che mi capita di dormire in auto. Chi svolge un lavoro dagli orari così irregolari impara a rubare la sua libbra di sonno in ogni circostanza. Il tassista che mi ha pazientemente accompagnato alla polizia e in obitorio guida in modo molto regolare, sembra essere in grado di anticipare ogni manovra delle auto che le precedono, per quanto brusca, e la stessa nostra vettura pare farsi piccola e serpeggiare via da un pertugio ogni volta che davanti a noi si forma una fila o si profila un ostacolo. Ogni tanto getta un occhio su di me dallo specchietto retrovisore, e ha quello sguardo tra il curioso e il preoccupato che aveva mio padre le rare volte che mi portava a scuola, di solito in corrispondenza degli esami o quando c’erano interrogazioni importanti. Con il tassista comunque non abbiamo scambiato che poche parole, ma ormai ci comportiamo come un’affiatata coppia di amici, quasi che nell’arco del giorno ci fossimo raccontati tutto l’uno dell’altra.

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Malcom dopo l’incidente non l’ho voluto vedere. Dopo una vita passata assieme preferisco ricordarmelo come è stato, nel fiore degli anni, o anche solo come appariva quella sera. Non ci saranno foto sulla sua tomba, nessun oggetto, solo ricordi visibili a chi gli voleva bene. Sapeva concentrare la vecchiaia in pochi punti del suo corpo, in poche rughe ben profonde dove la seppelliva senza che nessuno se ne accorgesse. I ragazzi dello staff giù al circo da quella brutta sera sembrano addirittura più vecchi di lui, quasi che il tempo si sia accorto di loro e gli stia grandinando addosso tutti gli anni che non è riuscito a scaricare su Malcom. Come me, anche loro hanno perso la sincronia con la vita. Malcom era il nostro meridiano, il nostro tempo standard in base al quale tutto si organizzava.

Sono certa che il passare tempo nella mia mente sarà in grado di suturare quella gola spaccata come una mela. Per il resto niente, mi sforzerò di ricordare il suo bel corpo, la pelle tirata del viso, quella leggermente ruvida ma abbronzata del collo e delle braccia. Il fisico asciutto, la dentatura perfetta e le spalle da nuotatore, insolite in uno che odiava profondamente il mare e le piscine. Gli anni si sono accaniti assai di meno su di lui che su di me, che lo guardavo ogni sera e ogni mattina, mentre lavorava nella grande gabbia. Ora quella gola recisa di netto, l’ha svuotato. Quella sera, avevo visto il suo sangue morire via, allontanarsi a fiotti impetuosi come fa l’acqua dalle sorgenti nei giorni di pioggia. Il resto del corpo non si muoveva nemmeno, solo le braccia, solo la testa, con piccoli scatti. Gli occhi erano chiusi, ma anche scavando con le dita oltre le palpebre, le pupille non c’erano più, erano dilatate e sfocate, come perle sepolte sotto la sabbia. La sua mano destra fissa e contratta sul mio avambraccio era pesante, conoscevo quella stretta, ma quella sinistra era rilasciata su un fianco, rossa di sangue, abbandonata da ogni forza. Domata dalla morte. Inconsistente. Il sangue è strano, su di me ha un potere ipnotico. Il primo sangue, poi, non è rosso ma nero, ha lo stesso colore della notte. Ne ero già coperta, quando sono arrivati gridando i ragazzi dello staff. Roberto, Kevin, Javicia. Forse pensavano che avessi usato le mie mani per tentare di tamponare la ferita, ma non l’avevo fatto. Mi ero lasciata semplicemente coprire dai fiotti di sangue tenendo Malcom in braccio. Lui non c’era già più in quel corpo. L’anima era già fuggita da tempo con un lungo brivido che aveva frustato il suo corpo attraverso le sbarre di quell’ arena. Per la prima volta ne avvertivo l’odore acuto e sulla lingua mi sembrava di sentire contemporaneamente il sale del suo sudore e la dolcezza del suo sangue. E sentivo anche l’odore di Tayla, un penetrante odore di muffa. Tayla lo aveva quasi decapitato con una sola zampata. La tigre è così, è come al centro di due invisibili sfere. Quella più esterna, è quella in cui può entrare l’uomo, sempre ammesso che sia abbastanza abile da riuscirci. E Malcom lo era. La tigre può darti la sua vita, il suo territorio, dentro quella sfera è pronta a rinunciare a tutto per un uomo, anche alla dignità: ma la sfera più interna rimane sua, è la sua foresta invisibile che non può tradire. Là Malcom, come tutti, in quella seconda sfera era nulla più che un ospite, e non sempre gradito. Non sapremo mai cosa ha fatto di sbagliato. Forse proprio nulla, forse ha solo subito gli effetti di una reazione opposta e contraria all’azione inconsapevole di qualcun altro, cui era invisibilmente legato. E Tayla ne è stata solo l’altrettanto incolpevole meccanismo attuatore, il tramite fisico, e quindi è responsabile della sua morte tanto quanto la lama di una ghigliottina o l’elettrodo di una sedia elettrica lo sono per quella di un condannato.

Tuttavia ho dovuto, abbiamo dovuto, dire il contrario, perché non uccidessero Tayla: ufficialmente Malcom ha fatto un movimento sbagliato, come è riportato nel file dell’inchiesta. Con mio profondo stupore, tutti hanno dato per buona questa versione e nessuno ha chiesto quale fosse mai stato questo movimento sbagliato che aveva innescato la reazione della bestia. A tutti è bastato guardare gli occhi di Tayla per crederci. Erano occhi inespressivi, chiusi, quasi grigi come l’asfalto. Occhi non da animale ma da fantasma. Ci vedevi dentro intricarsi la matassa del dolore, Ma io so che era tutta una finta e che Tayla stava solo recitando una parte.

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Del resto, fate le circostanze, è la miglior cosa che poteva succedere e che un domatore può lasciare in eredità, anzi in dono, al proprio mondo. Dopo aver domato tigri per decenni con apparente facilità ecco che di colpo il suo lavoro torna pericoloso, rischioso, imprevedibile. E Malcom con la sua morte restituisce tutto ciò che ha preso in vita: il mistero si rinsalda, il pericolo si riafferma, lasciando sulla scena un fatto che nessuno saprà spiegarsi e il mito di una bellissima tigre che nessuno vedrà più esibirsi.

Dopo molte notti ho raggiunto a fatica un sonno malfermo, non lungo ma continuo. Senza le intermittenze e i continui risvegli riesco anche a sognare. Ma non sogno Malcom, nè il profondo taglio ricurvo sulla sua gola. Me lo aspettavo, senza una ragione precisa. Sogno l’occhio di un ciclone. L’occhio del ciclone è l’arena. Intorno ci sono soltanto nuvole nere e cariche di pioggia. Ne sento l’odore avvicinarsi. Tayla è lì. Si muove a scatti attorno a me con movimenti circolari e continui, metà corpo e metà voluta di fumo. Poi si ferma di colpo. A un cenno dei suoi occhi sento il mio corpo prodursi in salti e contorsioni indipendenti dalla mia volontà. Poi a un certo punto la fisso e anche le sue pupille smettono di muoversi: le corro incontro e un istante dopo Tayla fa lo stesso con me. Copriamo in un respiro la breve distanza che ci separa. Al momento del contatto provo un dolore intenso che sbianca la mia mente seguito da un fremito che percorre come un lampo nero il mio cervello sconnesso dal corpo e abbacinato. Ma questa sensazione dura pochissimo. Subito un piacere inumano mi riempie inesauribile la bocca come la polpa succosa di un frutto dopo che i denti ne hanno intaccato la superficie ruvida e secca. Per un secondo perdo la vista.

Poi con un rumore a metà tra il fragore di un applauso e lo schiocco di una frusta l’alba spacca la notte svegliandomi in Tayla.