Le iscrizioni sono aperte. Fa piacere che già qualcuno si sia unito a noi così, sulla fiducia, solo sentendo del progetto. Vuol dire che l’idea è buona e speriamo che anche dopo la penserete ancora allo stesso modo!!! Noi ce la metteremo, come sempre, davvero tutta.
Mese: agosto 2020
La poesia è morta e altri versi. Una recensione. Grazie a Toscanalibri
BARZHAZ…scuola per scrittori-cacciatori
Con Barzhaz si fa un corso di sopravvivenza letterario.
Per un pò, partiremo per un viaggio e vivremo di quello che leggeremo. (in senso metaforico, non moriremo di fame!!!)
Cresceremo con quello che scriveremo.
e poi …PUBBLICHEREMO!!!

A Settembre, in grande stile, si parte con il progetto . Piuttosto ambizioso e diverso dal solito direi. Insieme a me uno staff di persone in gamba ed entusiaste. Se volete fare qualcosa di diverso, aderite….
Questo è il regolamento (per aggiornamenti consultate la relativa pagina web)
‘Barzhaz’ è un termine di origine bretone che ha a che fare con il concetto di ‘bardo’, ma anche con quello di canto, narrazione e oralità.
Gli studi scientifici più eminenti confermano quello che ogni buon scrittore sa: prima esiste il suono, l’oralità; poi viene lettura, dove a quei suoni si associano indelebilmente dotate di forma e sostanza. Solo dopo, se ci sono le condizioni, la scrittura ‘accade’.
Nel contesto attuale, quello della scrittura, Barzhaz significa credere tre cose:
- Non si può forse insegnare a scrivere ma si può sicuramente insegnare a leggere. Le scuole di scrittura non vi servono, e la vera creatività viene dallo stimolare e accrescere il proprio registro espressivo attraverso la lettura.
- Leggere è come cacciare le parole e le loro tracce: non si improvvisa e serve tanto la teoria quanto la pratica.
Se si diventa cacciatori di parole si può diventare scrittori.
In sostanza, il nostro cervello attiva, durante la pratica della lettura, la regione cerebrale in precedenza utilizzata da nostri antenati cacciatori per riconoscere le tracce degli animali cacciati o ai quali sfuggire. Quale che sia il vostro scopo nella scrittura, ovvero comprenderla in profondità (seguire le tracce lasciate da altri) o fare di essa il vostro principale obiettivo (lasciare delle tracce del vostro passaggio) Barzhaz vi può aiutare a:
- capire come leggere criticamente ed analiticamente un testo;
- comprendere gli elementi e i metodi rilevanti della narrazione di una storia;
- padroneggiare stili e tecniche narrative;
- gestire i vostri ritmi di lettura e scrittura;
- sviluppare il vostro’ marchio di fabbrica’ in ambito letterario;
- comprendere come trasformare tutto questo in una comunicazione efficace verso lettori ed editori.
COME PARTECIPARE
Per accedere a Barzhaz è necessario:
- Un testo che stia tra le 6 e le 10 mila battute
- Lo stralcio o il progetto del suo progetto di scrittura (se c’è) che sia romanzo, silloge di racconti o opera di qualunque genere
- Un breve profilo personale
Da inviare a segreteria@italiabookfestival.it
Struttura del corso
Ogni incontro quindicinale:
- si basa su un video introduttivo di qualche minuto
- assegna una o più letture
- assegna dei lavori da fare e consegnare entro i successivi dieci giorni
Temi di massima
(l’ordine degli argomenti e l’estensione degli stessi dipenderà dagli interessi specifici dei partecipanti)
- Anatomia di una storia: il concetto di narrazione e gli amici di Kipling
- La narrazione come scenario
- Strategie e tattiche narrative
- La lettura critica di un testo
- La recensione come via maestra per la comprensione tecnica di un testo
- Le forme della narrazione: la forma breve
- Le forme della narrazione: romanzo e racconto lungo
- La scelta: partenza di un proprio ‘cantiere letterario’ che sarà condiviso con la scuola al fine di sviluppare una propria opera.
- I registri
- Le tecniche
- Il dialogo
- L’editing e la proposta di un testo
- La pubblicazione e la promozione
Riconoscimenti
Le migliori opere saranno raccolte e pubblicate in e-book.
Costi e modalità d’iscrizione
Per iscriversi al corso è sufficiente acquistare libri Edizioni del Loggione o Damster edizioni per un valore di almeno 50 euro.
Il catalogo completo su cui scegliere è su www.librisumisura.it

Il curatore del corso
Massimiliano Bellavista, fondatore di thenakedpitcher.com e di Caffè Letterario 19 è consulente di direzione, scrittore, blogger e docente di Management strategico presso l’Università di Siena. Vincitore di premi letterari, suoi racconti e poesie sono pubblicati su riviste e antologie. Tiene laboratori di lettura e scrittura nelle scuole. È stato scelto tra i 120 global experts per il progetto europeo vision. Le sue opere più recenti di narrativa, poesia e saggistica sono pubblicate da Franco Angeli, Castelvecchi e Licosia.
Domino letterario 15 e 16
Nr 15. Prosegue la nostra staffetta di presentazioni a catena. Questa volta, per il Domino Letterario, Carlo Miccio, del cui libro aveva parlato Marco Ballestracci, propone la lettura di “Sette abbracci e tieni il resto” (Rizzoli) di Stefano Tofani, una storia che fa ridere e che commuove, con un protagonista irresistibile che ha coraggio da vendere, anche se non lo sa ancora. Clicca qui per il video
Stefano Tofani lavora come redattore web a Lucca. Nel 2013 ha pubblicato L’ombelico di Adamo (Giulio Perrone Editore), elogiato dalla critica e vincitore del Premio Villa Torlonia. È anche autore di racconti, quasi tutti pubblicati con lo pseudonimo Stof nella rivista Toilet, grazie ai quali ha vinto il Premio Città di Capannori 2016 e per due volte (2008 e 2017) il Premio letterario Fantastic Handicap, per il miglior racconto sulla tematica della disabilità.
Il libro – Ernesto ha dodici anni, occhiali spessi e una camminata sbilenca. È così dall’incidente d’auto che gli ha portato via la nonna, amatissima, la nonna dei proverbi e delle lezioni di vita, la nonna a cui in cambio di un abbraccio strappava quasi tutto. Ernesto ha un amico, Lucio, che come un grillo parlante gli fa venire mille dubbi e lo mette in guardia su tutto. Ma siamo sicuri che sia sincero? Ha poi anche un altro amico che si chiama Elien e viene da lontano. Ernesto ha una passione per una sua compagna di scuola, Martina, ma sa che lei non lo noterà mai. Finché un giorno Martina non sparisce di colpo, gettando nel panico la comunità. Per Ernesto è l’occasione per ritrovarla, componendo il puzzle di un mistero che gli adulti, neanche quelli che dovrebbero saperlo fare per mestiere, riescono a risolvere. Ed è l’occasione per trasformarsi di colpo da sfigato Quattrocchio a magnifico eroe salvatore.
Nr 16 Stefano Tofani, del cui libro aveva parlato Carlo Miccio, propone la lettura di “Il cielo per ultimo” (Bollati Borlinghieri) di Michele Cecchini, una nuova rappresentazione della paternità. Clicca qui per il video
Michele Cecchini, nato a Lucca nel 1972. Insegna materie letterarie in una scuola superiore di Livorno, dove risiede. Nel 2010 ha pubblicato il suo primo romanzo, nel 2017 ha collaborato alla realizzazione dei testi per l’album di Bobo Rondelli Anime storte.
Il libro – Si chiama Emilio Cacini ma tutti lo conoscono come Soldo di Cacio perché è basso e goffo. La sua vita è sempre stata una storia semplice, di quelle senza aneddoti. Cacio è un uomo mite, insegna educazione artistica alle scuole medie e vive a Livorno, nel rione di Ardenza Mare. Da sempre coltiva la passione per le immagini, tanto che spesso associa le situazioni che vive ai dipinti dei suoi pittori preferiti. Vorrebbe tanto rivelare il suo segreto, che riguarda la relazione clandestina con Ilaria, una donna con un passato da brigatista, ma nessuno glielo chiede. Cacio ha un figlio, Pitore, un bambino che parla una lingua tutta sua, fatta di parole incomprensibili, inventate: folmedina, parassonio, golbetico… Cacio sembra non farne un dramma e anzi si impegna a trovare forme di comunicazione alternative alle parole, nel tentativo di stringere un legame sempre più forte con suo figlio. Seppure disorientato, Cacio ha un mondo dentro di sé e va per la sua strada, ed è una strada gentile e allo stesso tempo forte nel passare attraverso la solitudine e nel creare armonia dalla disarmonia da cui si sente circondato. Nel tentativo di trovare una autenticità che vada al di là delle parole, Cacio sembra dire che il mondo può essere in tanti modi differenti, basta sapere inventarlo. Michele Cecchini ha un immaginario tutto suo. È un realismo magico, fatto di delicatezza, tenerezza e stupore per le cose. Scrive usando una lente speciale per guardare e raccontare il mondo, che vola leggero come in una bolla di sapone.
La scelta di Zhong, gli studi classici e il metabolismo dell’orso bruno.
Si dice che mentre veniva preparata la sua cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. Per tutta risposta, fece spallucce. “A sapere quest’aria prima di morire” ripose.
Un mio professore al Liceo sosteneva che la bellezza degli studi classici era la libertà che sottendevano. La libertà, diceva per paradosso con espressione ironica, di potersi dottamente soffermare, se solo lo si voleva e non si sapeva fare di meglio, sullo studio del metabolismo dell’orso bruno. Se dovessi passare la vita /a cercare il fiore perfetto/ non sarebbe una vita sprecata dice il Samurai Katsumoto, componendo una specie di haiku nel film L’ultimo samurai.
Attenzione, non si tratta di cazzeggio. Se lo sostenete siete in malafede. Non vi è di per sè alcuna forma di procrastinazione dell’utile e del necessario né tantomeno di ozio in questo approccio. O almeno, non di più di quanto possa esserci in altri tipi di studi.
Calvino definiva classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona.
L’attualità della Cina pare davvero incompatibile con la scelta di Zhong Fangrong. Lei è la quarta diplomata più brava dello Hunan, una liushou, ovvero una dei milioni di bambini cresciuti senza genitori, andati a lavorare chissà dove in città distanti migliaia di chilometri. Come studente modello, le si sono aperte le porte di Università prestigiose, e quindi il sicuro ascensore sociale verso denaro, successo, prestigio sociale. Lei invece ha deciso di diventare archeologa, di dedicarsi proprio a quel rumore di fondo cui si riferiva Calvino.
La sua scelta, una decisione personale e privata si direbbe, ha invece diviso l’opinione pubblica cinese e ha presto fatto il giro del mondo. Ma l’aspetto significativo di questa vicenda non è tanto questo e nemmeno il fatto che molti, i più invero, l’abbiano criticata, il che sarebbe in fondo anche legittimo, in un Paese che ancora ambisce e misura con la ricchezza un riscatto dalla povertà che ha vissuto per tanto tempo. Il fatto sconcertante è che semplicemente molti non hanno nemmeno compreso la sua decisione. Vivere bene è più importante che inseguire i sogni è stato detto e scritto. Ora se questo è il mantra delle nuove generazioni siamo messi maluccio: a Ovest lo diciamo perché dobbiamo preservare il nostro benessere, nei Paesi emergenti perché lo si deve raggiungere. Tutti più che giustificati dunque. Questo è invece il segno più evidente della regressione e dell’imbarbarimento culturale che si sta vivendo in questa era, tanto a Oriente quanto a Occidente. Anche da noi con regolarità, escono dalle loro tane i soliti unghiuti e ottusi campioni che dicono che gli studi classici non servono a niente. Che bisogna studiare economia e informatica quando si è ancora nel grembo materno. Anche prima se si può. Se Zhong avesse scelto studi scientifici o economici, nessuno avrebbe avuto niente da dire. Applausi, applausi, applausi. E questo è molto allarmante. Economia e scienze esatte non sono che una parte delle espressioni umane, e soprattutto sono niente senza l’uomo. Anzi, rischiano di farlo diventare ottuso, di soffocarlo. E l’uomo è, per sua natura, inesatto, imperfetto, indeterminato, bisognoso di libertà, di studio e approfondimento del suo passato e, di quando in quando in quando, anche di lasciar vagare la mente su ambiti e concetti apparentemente inutili. Libero di concentrarsi sul rumore di fondo. Solo da questa iniziale divergenza del pensiero nasce la vera convergenza (e la capacità di sintesi) propria del pensiero umano e della sua insostituibile visione strategica.
Ma quel che consola è che questa sorta di ‘non allineamento’ culturale è contagioso. Non si ferma nemmeno in Cina.
C’è infatti un libro, che si intitola Dunhuang is Where My Heart Belongs: Biology of Fan Shijin, che parla di Fan Jinshi, archeologa e ormai ottantenne direttrice onoraria della Dunhuang Academy. Ha passato tutta una vita nella Provincia di Gansu, nel Nordovest della Cina, a studiare le Grotte di Mogao che si trovano lungo la Via della seta. Si tratta di un sistema di 492 templi scavati nella roccia. La pubblicazione di compiuti studi archeologici sulle Grotte di Dunhuang è stato un sogno a lungo tenuto caro da generazioni di ricercatori. Si parla di un progetto nato in Cina negli anni ’50. Se non era una sfida quella. Altro che rumore di fondo. È stata proprio Fann Jinshi a rendere quella poderosa pubblicazione una realtà negli anni 90. Uno studio elitario, si potrebbe dire, e un libro che probabilmente hanno letto pochi addetti ai lavori. Sì.Forse.
Ma quei libri adesso esistono e chi vuole può leggerli.
Ma la Cina così facendo ha salvato un pezzo del suo passato e quello è ormai un sito conosciutissimo dal turismo a livello internazionale.
E proprio lei, donna non allineata, caparbia e ‘divergente’ che adesso guida una vasta equipe internazionale di archeologi e ricercatori e che, proprio grazie al turismo, ha creato nella zona molti posti di lavoro dimostrando che la cultura non solo è indispensabile, ma anzi ‘rende’, è stata il modello dichiarato che ha ispirato la scelta di Zhong.
Lasciamo dunque Zhong libera dal mono-pensiero, libera di inseguire la sua poesia, il suo rumore di fondo. Chissà che non ne venga fuori qualcosa di buono, e non solo per lei.
Se non sa proprio fare di meglio….
CAPIREI…
se un’elegia ti pagasse la cena
se un’ode ti scaldasse la casa
se un inno ti curasse la pressione
se un idillio ti consentisse un salario
se un madrigale ti garantisse la pensione
se una rima facesse da gentil ramo a un piviere
se la poesia insomma servisse a qualcosa
fosse un mestiere che rende…
Chi sa fare di meglio
non perda tempo dietro i versi
NELO RISI
Domino letterario 13 …e 14
Siccome per i supestiziosi il 13 non è di buon auspicio, ecco due numeri del Domino insieme. Scherzi a parte la congestione di attività varie di queste settimane non ci ha permesso di fare altrimenti quindi eccoci qua con due puntate in una. Prosegue in esse il filone che abbina narrativa e sport.
Nel Nr 13 Giovanni Nencini raccoglie il testimone di Giancarlo Brocci e propone “I guardiani” di Marco Ballestracci (66th and 2nd). Clicca qui per il video
Marco Ballestracci è nato in Svizzera ma vive da sempre a Castelfranco Veneto. È stato musicista di blues e giornalista musicale. Il suo primo libro – Il compagno di viaggio. 9 racconti in blues (Il Foglio Letterario) – è uscito nel 2005. Nel 2009 e nel 2012 ha vinto il Premio Selezione Bancarella Sport con A pedate. 11 eroi e 11 leggendarie partite di calcio (Mattioli 1885) e con La storia balorda (Instar Libri). Ha pubblicato, sempre con Instar Libri, L’ombra del Cannibale (2009), Imerio. Romanzo di dannate fatiche (2012) e Il dio della bicicletta (2014). Nel 2016 ha vinto il Premio CONI-Memo Geremia con I guardiani (66thand2nd).
Il libro – Wembley, ottobre 1973. Inghilterra e Polonia si giocano l’accesso alla Coppa del Mondo. Quella notte un “clown vestito di giallo”, Jan Tomaszewski – un metro e novantatré, capelli lunghi trattenuti da un cordino -, inanella una serie di parate spettacolari, regalando ai polacchi la qualificazione alle fasi finali. Diciassette anni prima, nel maggio del 1956, lo stadio dell’Impero era stato il teatro di un’altra prestazione memorabile. L’acrobata inatteso, quella volta, si chiamava Bert Trautmann, numero uno del Manchester City – un ex soldato della Wehrmacht catturato dagli inglesi durante la Seconda guerra mondiale. Solo grazie al coraggio mostrato nella finale di FA Cup contro il Birmingham City, quel “mangiacrauti schifoso”, l’uomo più fischiato della Prima Divisione, potrà riscattare il proprio passato e sarà acclamato come un eroe nel paese che lo ha adottato. Le storie di Tomaszewski e Trautmann si intrecciano a quelle di altri formidabili portieri – Toni Turek, William Vecchi e Giuseppe Perucchetti – nel sesto romanzo di Marco Ballestracci. Un viaggio imprevedibile per le pianure dell’Ucraina, le Langhe e la Val Trompia, tra divisioni di fanteria, staffette partigiane e squadrette giovanili, dove le gesta dei cinque “guardiani” – cinque interpreti stravaganti del ruolo più eccentrico del calcio – rivivono nelle giocate di un bambino, diventato ragazzo e poi uomo, che comincia terzino prima di scoprirsi un talento tra i pali. Anzi, nelle uscite.
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Invece nella putata nr 14 Marco Ballestracci, chiamato in causa da Giovanni Nencini, propone la lettura de “La trappola del fuorigioco” (Edizioni Alpha Beta Verlag) di Carlo Miccio, un romanzo che ci accompagna all’interno delle dinamiche di un ambiente familiare in cui si annida ed esplode un disagio mentale. Clicca qui per il video
Il libro – Giugno 1975: la travolgente avanzata elettorale del PCI di Berlinguer minaccia di sconvolgere l’ordine politico e sociale dell’intero paese. Per Sebastiano La Rosa, 40 anni e una diagnosi di Depressione Bipolare Schizoaffettiva, si profila il peggiore degli incubi: un paese in mano a barbari che bruciano chiese e sequestrano case. Una paura capace di spingerlo nel baratro psicotico sotto gli occhi di suo figlio Marcello, dieci anni, che la realtà la decifra solo attraverso il gioco del calcio. E che al significato della parola comunismo, e al senso vero delle paure di suo padre, ci arriverà scoprendo le meraviglie del calcio totale: un modulo perfetto praticato dalla nazionale olandese sotto la guida del suo rivoluzionario condottiero, il compagno Johan Cruyff. Inizia sul campo di calcio un cammino di trasformazione che porterà negli anni quel ragazzino a trovare la maniera per gestire l’ingombrante presenza della malattia paterna e le sue stesse reazioni emotive davanti alla paura e al pericolo.
Carlo Miccio vive a Latina dove lavora come mediatore culturale con profughi e richiedenti asilo politico. Ha pubblicato racconti per la collana Toilet, della 80144edizioni, di cui è stato uno dei fondatori. Appassionato di creatività digitale, ha al suo attivo mostre personali e collettive (Roma, Torino, Londra, Latina, Paola) e nel 2014 è stato incluso in un’antologia della Taschen tra i 150 più interessanti illustratori al mondo. Il suo sito è microcolica.it
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Monili, trame e rivoluzione: su Dire Fare e Scrivere ho scritto qualcosa su Roberto Gervaso
Seppur consapevole dell’impersonalità che conviene a un articolo giornalistico, mi sembra doverosa una premessa personale in cui a parlare saranno i ricordi e le impressioni: Roberto Gervaso era una persona speciale che non si prendeva mai troppo sul serio. Fu giurato in un premio di poesia che vinsi, ricordo con piacere quel momento e l’incoraggiamento che ne ebbi. È quindi rivolto a questo pensiero che ho letto la sua ultima opera, La regina, l’alchimista, il cardinale (Rubbettino, pp. 282, € 14,00), romanzo storico ambientato nella Francia di Luigi XVI: una lettura piacevole, con un ritmo e uno stile che tanti autori hanno smarrito, in favore di narrazioni assai più muscolari e invasive che fanno spesso sembrare questo genere piatto e monocorde con la scusa di modernizzarlo.
Eppure questo libro narra di uno dei periodi più esplosivi della storia, quando «dietro la sontuosa facciata, la miseria, la rovina, l’imminente sfacelo, il sovversivo caos. La Francia del superbo Luigi XIV non era che un ricordo. Il suo corrusco dispotismo s’era stemperato nell’assolutismo crepuscolare dei successori. La corona perdeva ogni giorno una gemma e il trono non era ormai che una fragile e vulnerabile scranna. La monarchia, la gloriosa monarchia capetingia, aveva i giorni contati».
Il libro si può ben leggere come un’opera di prosa. In effetti la prima parte introduce uno a uno i protagonisti dell’opera, i cui percorsi di vita sono destinati a intricarsi in un nodo di grande complessità e drammaticità. Vite contorte le loro, a due facce, come ancora oggi accade a certi vip. Molte occasioni pubbliche e poi una intrinseca e a volte indecifrabile fragilità e oscurità. Per ognuno di essi magistrali pennellate, quasi percorressimo l’austero corridoio di una prestigiosa quadreria.
Maria Antonietta Giovanna di Lorena, arciduchessa d’Austria, «regina, frivola, spensierata, impulsiva, pur se conscia della propria regalità, cercò e trovò, almeno in apparenza, sfogo e sollievo nei divertimenti: pranzi, balli, feste mascherate, partite a carte, teatro, escursioni. Ai doveri di sovrana antepose i piaceri di donna, pur se di donna votata, suo malgrado, a una mortificante castità».
Luigi Renato Edoardo de Rohan, elegante e raffinato principe della Chiesa il quale «non aveva bisogno di presentazioni. Il suo nome era dovunque pronunciato con rispetto; la famiglia era tra le più ricche e influenti, a Parigi come in provincia». Il principe cade in disgrazia con la corte e la regina per i molti errori nel gestire gli ambiti incarichi ricevuti e le sue folli spese, necessarie a soddisfare non la ragion di Stato o le relazioni diplomatiche ma solo e soltanto le sue tre passioni: i giochi, le feste e l’alchimia.
E poi Giovanna de Saint-Rémy de Valois de la Motte, la grande orchestratrice, seduttrice e truffatrice, il primo motore di tutta la storia, colei che era favorita più da «Minerva e da Mercurio che da Venere».
Per ultimo citiamo Cagliostro, il principe dell’occulto, già protagonista della penna di Gervaso, venerato da Rohan al punto da considerarlo il faro e l’ispiratore di ogni sua azione, nella speranza che questi lo potesse anche concretamente aiutare, con la sua magia e la sua saggezza, a rientrare nelle grazie della regina. Ma per quello, come si vedrà leggendo il libro, non sarebbe bastata nemmeno la pietra filosofale.
Un preziosissimo monile al centro della storia diventa metafora di tutta un’epoca
E sì che la vicenda ruota intorno a qualcosa di affatto oscuro, anzi assai splendente, chiarissimo, sfavillante. Un monile. E che monile, fatto da uno dei gioiellieri più famosi e stimati dell’epoca, Boehmer. «Il monile, infatti, consisteva in tre fili di magnifiche pietre (575 secondo alcuni, 593 secondo altri, 647 per altri ancora) ornati di quattro pendenti, in ognuno dei quali erano incastonati cinque giri di diamanti. Duemilaottocento carati, per l’astronomico costo di un milione e seicentomila lire (oltre venticinque milioni di euro di oggi) rateabili».
L’arte di Gervaso e la bellezza del libro sta tutta in questa parola: incastonare. Infatti la storia si dipana sotto le nostre dita con fine cesello tecnico allo stesso modo di quei giri di diamanti perché l’autore è un gioielliere della parola. Non c’è passo del racconto che non sia ornato dalla luce di una fine e pungente ironia, che poi nasconde invece un più vasto ragionamento sulle vanità umane e un sostanziale stupore nel palesarsi di come tutti, ognuno vittima della propria ambizione e delle proprie bramosie, uomini e donne in gioco nella storia, indossino dei paraocchi che fanno loro vedere soltanto ciò che vogliono vedere, conducendoli a dolorose conseguenze. Umano, molto umano dunque il comportamento di colui che «ha voluto, e vuole, autoingannarsi» perché alla fine il mondo inesistente creato da un raggiro, da una truffa, può essere assai più seducente di quello reale.
Una manipolatrice subdola ma di corte vedute
Certo, la capacità manipolatoria di Giovanna è eccezionale: la si vede giocare a scacchi con le vite altrui, soprattutto con quella di Rohan («Di lei, lui non aveva capito niente; di lui, lei, tutto») ma anche (e perfino) con quella della regina. Ma detto così, sembrerebbe trattarsi di una storia scontata, dove il cattivo è cattivo e i raggirati sono degli ingenui e benpensanti poveracci: i personaggi invece si animano nella storia di tutte le sfaccettature che ce li restituiscono autenticamente umani. Giovanna alla fine fa ciò che fa cercando una compensazione per una vita e una giovinezza non facili; allo stesso modo si è portati a credere che Rohan, così bramoso di una vita irreale dove, offrendo la preziosa collana alla regina ne sarebbe divenuto il Primo ministro e l’indispensabile consigliere, non avrebbe potuto che cadere in qualche raggiro, se non prima, sicuramente poi.
Ma a ben vedere per tutte le parti in causa in questi accadimenti vale quello che l’autore, superbamente, scrive per Giovanna «Tattica geniale, fu una pessima stratega». Fa lo stesso effetto di un epitaffio, giusto? Insomma, quel che vogliamo dire è che non sempre un romanzo funziona perché vi è un personaggio che spicca e primeggia, forgiando la storia; a volte è vero l’opposto, come in questo caso, dove la storia appassiona e si legge in un soffio proprio perché tutti gli attori del racconto sono in fondo in fondo meschini, di corte prospettive, concentrati a vincere una battaglia e mai la guerra. O forse è il momento storico, schiacciato tra i tempi che furono e l’ascesa prepotente della borghesia, che proprio non consentiva una visione di lungo periodo, ma solo un gretto carpe diem.
Il libro è prezioso perché si presta a varie chiavi di lettura e questo non stupisce, viste le vette raggiunte da Gervaso nella narrazione di fatti storici. Ma vi è anche una gradevolissima lettura sociologica, che ben mette in evidenza quanto fatti apparentemente minori siano in grado di scatenare, o di contribuire a innescare, grandi cambiamenti. L’affare della collana, mal gestito dai regnanti, infatti non resta confinato tra le mura dei tribunali, ma diventando di pubblico dominio, mette in luce le debolezze di tutto un sistema di potere e di una monarchia divenuta debole e insipiente. Non solo, spacca l’opinione pubblica tra innocentisti e colpevolisti, fornisce una fonte di lavoro pressoché inesauribile a legali, scrittori, moralisti.
E alla fine, in un sistema in piena criticità e incapace di punire, sarà la vita (e la storia) a metterci una pezza. Naturalmente in un modo tutto suo, che lasciamo al lettore scoprire. Al destino d’altronde, come a Gervaso, non manca il senso dell’ironia.
Massimiliano Bellavista
(direfarescrivere, anno XVI, n. 175, agosto 2020)
Circolarità, geometria, eleganza: l’anatomia di Borges narratore.
Come giustamente dice Mirko Tondi, prima a poi in questa anatomia di un racconto, rubrica nel frattempo gloriosamente giunta alla sua quinta puntata, dovevamo fare rotta su Borges.
E questo accostamento era ben difficile, come è difficile essere originali su di uno scrittore tanto citato, a volte anche a sproposito. A mio parere, più che un modello Borges rappresenta un canone, una fonte di ispirazione. Rimanendo nella metafora marinaresca non è che ci si orienta con la stella polare perchè la si vuole raggiungere, ma semplicemente perchè con la sua sola presenza ci indica una direzione, ci apre gli occhi sulla nostra posizione. E così Borges non è nè deve essere imitabile, perchè esteticamente è in qualche modo un canone chiuso in sè, ma indica meglio di tutti gli altri la direzione da seguire per rendere ancora più nobile ed efficace l’arte del racconto. Perchè in letteratura vige una proporzionalità inversa tra distanza e possibilità di perdersi, tutta opposta a quella intuitiva del senso comune. E’insomma ben più facile, a parere di chi scrive, che un narratore si perda nello spazio di poiche pagine che in molte. Troppo da dire, molto da esprimere, ancora di più da sottointedere e, sotto pressione, la tubazione da qualche parte può cedere.
Mirko è riuscito ancora una volta a farci riflettere….
( QUI I PRECEDENTI NUMERI Nr 1, Nr 2, Nr 3, Nr 4)
Ora gustiamoci questa nuova Anatomia…
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Anatomia di un racconto Nr. 5 – Le rovine circolari
Prima o poi doveva arrivare il momento in cui si parla di Borges, giacché lo scrittore argentino è senza dubbio – tutt’oggi e a maggior ragione oggi, nell’odierno panorama editoriale sempre meno incline alla pubblicazione di storie brevi – una delle massime autorità in tema di letteratura (in generale) e di racconti (in particolare).
È più che mai difficile scegliere un racconto su tutti nella sua eccellente e vasta produzione, motivo per il quale non sarà certo questo l’unico richiamo a Borges nella rubrica che state leggendo. Ma da qualche parte di deve pur cominciare, così la mia scelta è ricaduta su Le rovine circolari, testo che racchiude quell’universo immaginifico e l’atmosfera cosiddetta “onirica” che lo contraddistingue, tanto da aver contribuito massicciamente a creare – con la narrativa incentrata sul sogno – se non proprio un genere a parte sicuramente la parte fondamentale di un genere.
O forse sarà meglio parlare di forma, cosicché la distinzione appaia chiara una volta per tutte: sempre più spesso sento parlare dei racconti come “genere letterario”, assimilandoli a, che ne so, il genere fantasy, il rosa o il giallo, ma è chiaro che invece si debba parlare di una questione strutturale (e non solo di lunghezza dell’opera). Il romanzo ha una forma e il racconto ne ha un’altra, ma entrambi possono appartenere allo stesso genere. Detto ciò, mi sento libero di tornare al caro Borges e di tuffarmi nel sogno con lui, un sogno che a ogni lettura mi appare sempre più suggestivo e ricco di dettagli.
“Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime”. Basta questo attacco per farci rimanere incollati lì, basta un fatto non visto a introdurci in un mistero da svelare e bastano un sostantivo e un aggettivo associati in maniera originalissima a darci qualche indizio sullo stile dell’autore (casomai uno non avesse mai letto niente di Borges). Poi ci sono alcune parole che descrivono il protagonista: “taciturno”, “grigio”, “stravolto e insanguinato”. Lo vediamo, siamo con lui e lo seguiamo, finché non arriva in un antico tempio circolare di cui rimangono macerie. Si sdraia e dorme, “non per debolezza della carne, ma per determinazione della volontà”. Ma chi è? Cosa vuole fare? È un uomo, un mago, e ha un proposito: sognare un altro uomo, “sognarlo con minuziosa completezza e imporlo alla realtà”. Non ha altri progetti che questo, tramutare la vita in sogno poiché il sogno crei la vita stessa. All’inizio è puro caos, ma a poco a poco i sogni prendono la forma desiderata (“Il sogno è la soddisfazione di un desiderio” diceva Freud, anche se qui appaiono più forti i riferimenti agli archetipi junghiani, con il concetto di Ombra come proiezione inconscia di sé). L’uomo sogna sé stesso al centro di un anfiteatro circolare come quello in cui si trova, mentre impartisce lezioni a una platea silenziosa, e dopo una decina di notti passate così si trova da solo con un “ragazzo taciturno, malinconico, a volte ribelle, dai tratti affilati che ripetevano quelli del suo sognatore”. Poi un giorno la rivelazione: non era un sogno. Sopraggiunge l’insonnia, un costante e improduttivo stato di veglia, e la notte non riesce più a dare i suoi frutti. A questo punto, ecco una delle frasi più belle del racconto: “Comprese che l’impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui sono composti i sogni è il più arduo che un uomo possa intraprendere”. L’uomo deve accettare di aver fallito. E lo fa, ricominciando da capo, riposandosi per un mese e provando con un nuovo metodo, lasciandosi andare al sogno senza alcuna premeditazione. Ora i sogni ricominciano a sgorgare liberi dalla sua mente. Dapprima compone un cuore, per settimane, con minuziosa precisione e pazienza.
L’uomo domina i suoi sogni e li unisce tra loro come una tela. Ci vuole un anno perché si aggiungano gli altri organi, uno scheletro, i capelli, fino a che il sognato è completo. Certo da principio non cammina e non parla. L’uomo si pente ed è tentato di distruggere la sua opera, ma resiste. Dopo aver invocato i pianeti, si rivolge adesso alla statua del dio Fuoco (sognata anch’essa), che lo aiuta nel suo intento. Siamo al climax del racconto: “Nel sogno dell’uomo che sognava, colui che era sognato si svegliò”.
Per due anni continua nella sua opera e istruisce il sognato sui misteri dell’universo. L’obiettivo ora, se dapprima era quello di comporre una creatura nel sonno, è quello di comporre una creatura perfetta, tanto che ne ricrea le parti giudicate difettose. Dunque si insinua il dubbio: “A volte lo inquietava l’impressione che tutto ciò fosse già accaduto…”
L’uomo considera il sognato come un figlio – un figlio fantasma certo, ma pur sempre un figlio – e capisce che è finalmente pronto per nascere. E nascerà. Lo scopo è raggiunto, l’uomo è in estasi.
Anni dopo, svegliato da due rematori, l’uomo ha un presagio: teme che suo figlio scopra di non essere reale ma soltanto “un mero simulacro.
Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un altro uomo”. La natura qui esprime tutta la sua bellezza attraverso le descrizioni sopraffine dell’autore: “una remota nuvola su una collina, leggera come un uccello; poi, verso il Sud, il cielo che aveva il colore rosa delle gengive dei leopardi”. Infine la ciclicità degli eventi, attraverso un incendio circolare che – in “un’alba senza uccelli” (quante albe con gli uccelli si ricordano invece nella letteratura, uccelli che per esempio diventano pensieri nella poesia Prima luce di Giorgio Caproni) – segue il perimetro delle rovine del tempio del dio Fuoco. Finale poderoso e imprevisto, con l’uomo ormai stanco e vecchio, che si getta nelle fiamme; ma è un fuoco candido, innocuo, che non brucia. Solo adesso, l’uomo capisce che anche lui non è altro che un sogno.
In questo stupendo racconto di Borges, l’immateriale si fa materia, per poi tornare al suo stato iniziale in una circolarità geometrica.
Nel sogno a puntate (quante volte anche noi avremmo voluto riprendere un sogno dalla notte precedente?) si concretizza un’impresa assimilabile alla creazione di Frankenstein o a quella di un Golem d’argilla – o, se preferite, a quella di un biblico Adamo – fino alla scoperta della verità. Il sogno e il doppio, tematiche care all’autore di Finzioni e L’Aleph, infittiscono l’intreccio e lo caricano di simbolismi. Chapeau.