Donne arrabbiate e sfiduciate nei confronti della società: una rivalsa a colpi di carta e penna
Un’opera che alterna ironia al crudo realismo, con un genere ancora poco diffuso in Italia. Scritto da Valeria Gangemi
di Massimiliano Bellavista
Questo settembre Ruth Bader Ginsburg, giudice liberale e icona pop, seconda donna della storia americana a far parte della Corte Suprema, (dopo Sandra Day O’Connor) è morta all’età di 87 anni, per complicazioni legate al cancro al pancreas. Ginsburg è stata prima di tutto un’architetta legale capace di trasformare negli anni Settanta la lotta per l’emancipazione femminile in qualcosa di più strutturato e meno urlato di una rivendicazione. Diceva spesso che era diventata avvocata quando le donne non erano desiderate nella professione legale, riuscì nell’impresa di far equiparare a discriminazione razziale a quella sessuale, aprendo la strada a un lungo dibattito legale e prima ancora sociale. Ora il libro Le donne lo fanno meglio di Valeria Gangemi (Città del sole Edizioni, pp. 120, € 10,00), manager impegnata nel sociale, condivide questo spirito. Questa raccolta di racconti non è un libro urlato, ma nemmeno da leggere sottovoce. È qualcosa a metà tra un diario e una galleria di ritratti. Ci sono narrazioni declinate sull’attualità e l’immediatezza, dove il dialogo gioca una parte preponderante. L’uomo, gli uomini, è inutile dirlo, ne escono piuttosto malconci, a cominciare dalla Prefazione, che cita Simone de Beauvoir, e anche nei Ringraziamenti. Proprio la Prefazione di Mariateresa Marino e i Ringraziamenti finali svolgono un ruolo non secondario in questo libro di esordio letterario dell’autrice. La prima perché smarca il volume da ingombranti precedenti letterari, invocando per i ventidue racconti che compongono la raccolta una leggerezza da sketch teatrale e un gusto per il calembour (talvolta comunque un po’ troppo compiaciuto e fine a se stesso) che sono senza dubbio la cifra principale di quasi tutti i testi. I secondi perché finalizzano l’esistenza del volume a uno scopo assai importante e concreto in quanto il ricavato del libro verrà devoluto alla Fondazione “Marisa Bellisario”. E qui la carrellata di grandi figure femminili non può non considerare il profilo della stessa Bellisario, prima grande donna manager italiana, guarda caso della stessa identica generazione della Bader Ginsburg. Il volumetto infatti si presta a nostro giudizio anche ad un’altra chiave di lettura.
La cultura imprenditoriale e manageriale femminile contro il mismanagement La scrittrice, come già accennato, è anche un’affermata manager. Dettaglio certamente non trascurabile poiché, svolgendo tale professione da tempo, sa che alla fine non esistono molti tipi di management. Certo i nomi, gli stili e le sfumature cambiano nel tempo, ma fondamentalmente ne esistono solo due categorie: quello buono e quello cattivo. Ed è proprio quando si tocca questo ambito che con tutta probabilità, abbandonando per una volta il gioco di parole e le pennellate a volte monocordi nel definire l’inettitudine e la dabbenaggine maschile, il libro ci restituisce il meglio di sé. Come nel racconto Tagli: «Ecco come in cinque minuti si chiude una questione di extra revenue. Risolvo il problema della Commessa che va bene e produce utile tagliando i costi sempre e solo con una ricetta basata su un unico ingrediente. Il personale. Taglio tre dipendenti che costano tanto perché hanno un contratto a tempo indeterminato (…) Tu insisti e gli fai notare: 1. il problema, se esiste, non lo risolvi ma lo stai trasformando in qualcosa di diverso che però continua a sussistere. Le tre dipendenti entrano, si trattengono con dignità (…) A prescindere, tranne me e le interessate, sembra che nessuno si renda conto del dramma». In questo racconto il capo-uomo utilizza una trita ricetta antica quanto efficace ma solo nel breve termine, licenziare. Tuttavia egli non tiene adeguatamente conto di ciò che il libro sottende e forse avrebbe potuto esprimere anche più apertamente e spregiudicatamente; ovvero che oggi non si tratta più di affrontare i problemi che affrontava la generazione della Bader Ginsburg (dove la questione era che le donne non erano nemmeno ascoltate), ma piuttosto quelli più sottili connessi all’apprezzamento della ricchezza connessa alla diversità del loro approccio. Dalla lettura del volume in questo senso emerge che la leadership al femminile è spesso capace di dare un contributo decisivo e di lungo respiro al buon management aziendale, come accade anche nel mondo imprenditoriale dove si è ormai acclarata una particolare abilità da parte delle imprenditrici di gestire in modo creativo e condiviso le situazioni di crisi. Ma il volume mette opportunamente in luce anche dell’altro.
I lati inediti (e pericolosi) di un mondo spesso troppo declinato al maschile Un altro racconto di impatto, stilisticamente molto simile a quello citato precedentemente è Cuore, per certi versi il più riuscito e bilanciato della raccolta. «Ma se si infartua il cuore delle donne come lo curano? Come quello di un uomo? Non mi dire che la parità la applicano quando non devono. Ma la diversità di genere intesa come fisici diversi non merita cure diverse? Ora capisco che diverso può presagire scenari degenerati ma giuro son seria, i farmaci e le dosi sono uguali a chi è diverso fisicamente da noi?». L’inizio disorienta e invoglia a leggere. Così si scopre una insospettata e insospettabile miopia della capacità terapeutica della nostra medicina. «E dopo una vita di stenti e noia, l’infarto può arrivare lo stesso. La differenza è che non sanno come curarci. Già, perché – assurdo ma vero – studi recenti sul tema hanno aperto il “vaso di Pandora”, scoprendo che alcune branche della medicina sottovalutano o non tengono conto delle condizioni di vita delle donne nella determinazione della diagnosi e del protocollo di cura. Per l’ischemia cardiaca, per esempio, le radiografie e i test sotto stress usati per la diagnosi sono “tarati” sul modello maschile e sono meno efficaci per le diagnosi nelle donne. Ancora, gli strumenti chirurgici come by-pass e angioplastica coronaria sono gli stessi di quelli usati per gli uomini e si presta poca attenzione al fatto che le donne hanno coronarie e vasi sanguigni più piccoli». Vasi sanguigni più piccoli ma un grande cuore e una mente diversi ma di certo indispensabili e complementari, non sostituivi, a quelli maschili nella gestione di una realtà, quale quella odierna, di certo complessa e articolata. Alla fine, c’è da augurarsi, come in un certo senso fa l’autrice concludendo il suo volume con una spiazzante Ode agli uomini crediamo sentita e niente affatto ironica, che “il pensiero lungo rette parallele” che divide a volte i sessi alla fine converga. Se come dice la Gangemi, gli uomini migliori sono “i più”, non possiamo che augurarci di unire le forze “trovandoci” l’un l’altro, in un futuro che offra a tutti, uomini e donne, elementi di sinergia e intesa nella diversità per certi versi analoghi al vissuto personale della de Beauvoir, che pure ebbe il sodalizio intellettuale ed emotivo più forte della sua vita con un uomo così controverso come Jean-Paul Sartre e a quello della giudice Bader, la quale diceva che il marito e compagno di una vita Marty Ginsburg era l’unico uomo al quale importava davvero che lei avesse un cervello.
Massimiliano Bellavista
(direfarescrivere, anno XVI, n. 178, novembre 2020)
Chi come il sottoscritto tiene in piedi più vite e interessi diversi contemporaneamente, per poi constatare con sorpesa che tante volte non si tratta di compartimenti stagni ma solo di diverse modulazioni di un unico e convergente percorso di vita, non può che ricevere la mia incondizionata stima. Se poi si tratta di qualcuno che sa bene e ama applicare il suo talento a un progetto/i originali, allora il senso di stima si accresce ulteriormente. Credo sia questo il caso di Laura del Veneziano, che vive e lavora come psicologo psicanalista nel Valdarno aretino. Mamma di due bambini, impegnata in varie realtà sociali di volontariato, amante della lettura, svolge attività di ricerca sui temi della psicanalisi, del femminile e delle relazioni umane, è stata già autrice nei mesi scorsi di qualche bell’intervento su questo blog. In-fine è un libro-esperimento che fa parte di una serie coraggiosa, è la raccolta di racconti che conclude il ciclo triennale di sedute di psicanalisi ‘impossibili’ con personaggi più o meno famosi e conosciuti (vedi Lasciami parlare (2018) e Lasciami parlare…ancora (2019). Anche stavolta il format è più o meno lo stesso: si tratta di persone, tirate fuori dalle loro storie, a cui viene data la possibilità di raccontarsi ad un immaginario psicanalista. Il filo che lega questi ultimi sette personaggi li colloca non necessariamente al capitolo finale delle loro vita; non siamo più in attesa del tragico epilogo toccato loro in sorte, quanto piuttosto in un momento forse ancora più complesso. Siamo nel punto esatto in cui per ognuno di loro sta per iniziare un cambiamento. Il mutamento ha ancora da manifestarsi, e tutto dipende da come ognuno di loro, a modo suo, deciderà di agire e di segnare così la sua strada. Ci troveremo ancora una volta catapultati in mondi fantastici, strani ed oscuri grazie ad Alice, Medusa ed Alcesti, attraverseremo celebri periodi storici guardando ai fatti con occhi diversi in compagnia di Cleopatra e Rossella, ci lasceremo affascinare dai segreti delle scienze con Marie, per arrivare alla fine di questo meraviglioso viaggio in compagnia di Laura. Il taglio di questo lavoro è però, anche leggermente differente rispetto ai due lavori precedenti: non necessariamente le donne che vi si incontrano si trovano sul bilico del loro epilogo finale, ma sono colte un po’ più precisamente in un momento di snodo, in cui la loro vita ha mostrato la via giusta per reagire a qualcosa, per cambiare strada, per crescere e migliorare.
Ma torniamo a Alice, una delle protagoniste del libro. Piena di nevrosi e strane inquietudini, prova a spiegarsi durante la seduta, a ‘tradursi’, sentendosi in bilico tra due mondi che sembrano avere regole fisiche e parole diametralmente opposte ma di cui lei rappresenta allo stesso tempo le contraddizioni e il punto di congiunzione. E l’anticamera psicologica tra questi due mondi è il lettino dello psicanalista.
In effetti, una volta passata nell’altro mondo, oltre alle due case di passaggio che dicevo prima, ho avuto un sacco di strane avventure, e nessuna di quelle avrei mai potuto prevederla, quindi, anche se quando le ho vissute in effetti mi sono sentita dentro a un nonsenso, e per molto tempo ne ho parlato come di sogni, poi a forza di pensare e ri-pensare ho capito che si tratta semplicemente di un mondo parallelo a questo. Ho tentato di spiegarlo a mia sorella, ma lei evidentemente non riesce a capire, ma con Lei forse sarò più fortunata.
Vede Dottore, nello stesso momento in cui noi adesso viviamo tutto questo, anche nel Regno delle Meraviglie e dello Specchio si svolgono dei fatti, quelli però sono liberi dalle regole che governano questa nostra vita. Le faccio un esempio: per restare fermi in un posto, là dobbiamo correre. Oppure: per raggiungere un certo altro luogo prima dobbiamo per forza averlo superato. Io stessa ho dovuto fare proprio così, per ritrovarmi sulla collinetta insieme alla Regina Rossa. Dopo aver provato più volte a raggiungerla camminando verso di lei come sono abituata a fare, ho deciso di camminare all’indietro e Lei non ci crederà ma, in pochissimi minuti mi sono ritrovata sulla collinetta con Sua Maestà. Non lo trova meraviglioso? Io sì lo adoro quel mondo parallelo al nostro, è come se aprisse a infinite possibilità ogni volta. Non sai mai cosa aspettarti, ma stai pur certo che qualcosa accadrà. Qui nella nostra realtà, siamo inevitabilmente legati a infinite regole, sono interminabili, e si intrecciano tra loro. Di là invece tutto è imprevedibile, tutto può succedere perché ogni possibilità è lasciata libera di esprimersi. Io lo trovo fantasioso oltre che fantastico. Ecco, le faccio un altro esempio, stavolta con il linguaggio. Pensi per un attimo a tutto quello che ci circonda: sono le cose e per ognuna di loro noi usiamo al contempo i nomi delle cose e i nomi dei nomi delle cose. Forse un esempio concreto mi aiuterà a spiegarmi: noi abbiamo il libro (cosa), la parola libro (nome della cosa) e il sostantivo che usiamo per indicare la parola libro (nome del nome della cosa), che poi è sempre libro. È come se si trattasse di una matrioska, ogni oggetto lo è nel linguaggio. Mi sono messa a fare delle ricerche ultimamente, ovviamente esiste una parola che spiega esattamente questo fenomeno: metalinguaggio. Ora non vorrei sembrarle impertinente, ma oramai il mio modo di ragionare funziona allo stesso tempo sia con le regole del nostro mondo che con quelle del Regno delle Meraviglie e dello Specchio, perciò mi scusi, ma non riesco proprio a trattenermi dal farle notare che se la parola metalinguaggio per noi ha il significato che ho poco fa provato a spiegarle, nell’altro mondo questa semplicemente potrebbe indicare allo stesso tempo un linguaggio a metà o una meta nel linguaggio. Non le sembra incredibile? Trovo davvero affascinante questa particolarità della lingua: essa è tremendamente arbitraria, non trova? Ogni cosa di per sé è, nel senso che sta, si manifesta, ma diventa una nostra esigenza il fatto di darle un nome, solo per poterne parlare con un’altra persona ancora. Se non avessimo l’esigenza di dire il nome della cosa all’altro, non avremmo bisogno di dare nomi alle cose, è semplice! Perché mia sorella non comprende queste banali regole, invece di dirmi sempre che sto soltanto farneticando o sognando?
Faccio io miei migliori auguri a In-fine, sapendo che ogni scrittore è al contempo un pellegrino della parola e all’occorrenza ( in senso buono) anche un mentitore. La fine di questa storia è l’equivalente di una doverosa sosta ristoratrice dopo un lungo cammino. E’ importante capire quando fermarsi. Ma la mattina dopo sicuramente ci si risveglierà con ancora più voglia di camminare ancora, magari verso altre direzioni. Ma se anche poi volessimo tornare sui nostri passi, saremmo liberi di fare anche questo. Nell’interesse del lettore.
..stanno arrivando racconti brevi di ottima qualità. In modo anche superiore alle nostre aspettative. Non posso che essere contento ed esortare chi vuole e partecipare (siete ancora in tempo) a questa edizione davvero speciale di Giallo Festival. La cosa continuerà poi, in altra forma, per la successiva rassegna di Italia Book Festival.
Mentre Punto Triplo ha ufficialmente iniziato il 21 Ottobre la sua avventura ed è ora disponibile online e fisicamente, voglio ringraziare Toscanalibri per la presentazione di oggi.
Di Francesca Condò, architetto specialista in restauro dei monumenti in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT, abbiamo pubblicato storie e articoli di grande interesse. E’ con piacere che ora pubblichiamo questa storia.
“Le rovine dei terremoti somigliano a quelle delle guerre”
“Le rovine sono rovine. E poi non lo sa che la natura ce l’ha con noi?” Sladjo si voltò. Credeva di essere solo. Doveva toglierselo quel vizio di pensare a voce alta. L’uomo si avvicinò e gli tese la mano.
“Piacere, Giovanni. È qui per la ricostruzione?”.
L’uomo fece un ultimo tiro, spense la sigaretta contro un pilastro di cemento rimasto in piedi ma non la buttò a terra. La passò nella mano sinistra e rispose al saluto. Portava a tracolla un borsone di tela blu che faceva rumore di ferraglia.
“Non so” rispose “in qualche modo, si”.
Due occhi azzurro intenso disegnati come se avessero attorno una linea di matita lo studiarono.
“C’è ancora parecchio da fare, qui. Il problema è che Campotosto è un paese quasi tutto di seconde case. I romani ci vengono d’estate, quando giù l’asfalto diventa appiccicoso. Ci venivano, anzi. C’è l’aria del lago e poi da Roma non ci si mette tanto”.
L’uomo incrociò le braccia. La camicia di lino era un po’ consumata ma pulita e in ordine. I pantaloni da lavoro pieni di polvere. Non portava un cappello anche se il sole a quell’ora non era piacevole.
“Lei non è di Roma?” chiese Sladjo, che aveva riconosciuto l’inflessione dell’uomo. Giovanni sorrise. Era difficile, evidentemente, camuffare la cadenza pigra e disillusa del romano, anche se si usavano parole e sintassi perfettamente italiane.
“Venga, le offro un caffè”. Sedettero su due panche, una di plastica e una di legno, nel bar arrangiato, sotto a un ombrellone di tela gialla che faceva pensare al mare degli anni sessanta più che alle montagne che li circondavano silenziose. Una piccola tendopoli di prefabbricati era da qualche anno la piazza. Un paio di bandiere al vento. Due alimentari, per i panini, la frutta e prodotti del posto più o meno autentici, a seconda della confezione: quelli che erano abituati a vendere agli escursionisti.
“A quest’ora veramente sarebbe meglio un panino e una birra. Li conosce i coglioni di mulo?”
L’uomo scosse la testa sollevando un sopracciglio. “no, non pensi male, niente di strano. È una specie di salame: lo chiamano così per la forma. In effetti sembra un sacchetto di pelle spiegazzata. C’è dentro, in mezzo, un pezzo di lardo. È buono. Un po’ grasso forse per chi fa ormai una vita da scrivania come me. Ma lei è giovane”.
Doveva avere poco più di una trentina d’anni. Lo guardò, sperando che gli raccontasse qualcosa. Si trovava bene coi suoi libri ma da qualche giorno si annoiava perchè gli ex colleghi, dopo il terremoto, non erano più saliti. Aveva voglia di parlare.
“Un caffè va benissimo” disse. “devo fare alcune cose e poi rimettermi in macchina”
“E’ con qualche ditta per la ricostruzione?”.
“No. Faccio l’architetto per uno studio a Roma. Ma in realtà oggi non sono qui per lavoro”. Fece un cenno verso la grande casa quadrata che era rimasta isolata, su una collinetta di macerie.
“Era sua?”.
Sladjo scosse la testa. Un ragazzo, poco più di un bambino, con un grembiule bianco che arrivava sotto alle ginocchia, si era accostato e aveva preso le ordinazioni. Si spicciò perchè la madre lo chiamava dal bancone dove erano appoggiati due vassoi pronti per gli altri tavoli.
“Mia sorella è venuta qui a fare una camminata in montagna con un gruppo di amici, tanti anni fa, e ha visto che quella la vendevano. Ha fatto di tutto per comprarla, perchè le ricordava casa di nostra madre vicino a Blagaj. ”.
“Dove?”.
“In Bosnia. Era in un posto in mezzo alla campagna non lontano da Blagaj. Ma io penso che le piacesse anche guardare il lago laggiù. Magari era quello che le ricordava il fiume e la sorgente”.
Le nuvole proiettavano ombre alla base della montagna. La parte di sopra però continuava a riflettere la luce.
“Da quando siete qui?”.
“Dalla fine del 1992. Abitavamo a Mostar, coi nostri genitori. Sembra una vita fa. Forse è una vita fa”.
“Mi ricordo le cronache. Quando hanno minato il ponte”.
“Lo Stari Most”
Una nuvola velò per qualche istante il sole. Sladjo guardò verso le montagne.
Il ragazzo appoggiò sul tavolo i caffè e un piattino con quattro ciambelline al vino pallide e irregolari. Giovanni versò mezza bustina di zucchero nel caffè. “All’inizio ero addolorato. E impaurito. Non riuscivo a pensare che non avrei più avuto attorno mio padre e mia madre, che erano morti veramente. Poi è venuta la rabbia. Avrei voluto poter sparare infaccia a quegli assassini. Ma non ai cecchini. Ai padroni dei cecchini. A quelli che giocano con la vita degli altri. Stati Uniti, Italia. Perchè lasciarci in un bagno di sangue? Poi dopo ci mandano i patroni per la ricostruzione, quelli che ci insegnano il restauro e ci scrivono le linee guida per la conservazione del patrimonio architettonico. Dopo aver lasciato che lo bombardassero”
Pensò al ponte che aveva rivisto solo nei servizi alla tv. Una copia tutta nuova. Una copia ipocrita. Gli venne improvvisamente voglia di baklava. Gli era tornato alla mente, quel sapore di miele fresco e nocciole, assieme all’odore della polvere e del metallo di quando erano scappati. Spezzò una ciambellina e ne mangiò un frammento.
“Le guerre seguono logiche loro. Se ne sbattono della buona architettura. Se ne sbattono della storia. E poi che avete fatto?”.
“Poi ho conosciuto Emilio, che stava con un gruppo di medici italiani. Quando i miei sono stati portati in ospedale l’ho visto al pronto soccorso che armeggiava con fili e guanti in mezzo a una pozza di sangue per salvare una bambina. La bambina è morta. Lui è sparito. Sono uscito per far prendere aria a mia sorella e l’ho visto in un angolo, nell’intercapedine tra due pareti alte, dove stavano le caldaie e le prese d’aria dell’ospedale. Stava appoggiato a un muro e piangeva. Piangeva come se fosse la figlia. Mi sa che non aveva ancora tanta esperienza come medico”.
Accese una sigaretta e fece un tiro, guardando la casa smezzata all’orizzonte. “E’ lui che ci ha portati qua. Non so ancora bene come c’è riuscito ma lo ha fatto. Io avevo diciassette anni e lei venti”.
“Anche sua sorella è venuta a vivere a Roma?” Scosse la testa. “Ana abitava a L’Aquila”
Giovanni si morse l’interno della guancia.
“Deve scusarmi. Questo modo di chiedere cose può dare fastidio. È un mio difetto. Mi viene voglia di scoprire, di sapere cose che sono difficili da scoprire e da raccontare. Penso che per quello ho scelto di fare l’archeologo quando ero giovane. Avevo la ricerca del detective ma non l’assillo del dover mettere in galera un colpevole. E adesso che sono in pensione mi manca la terra. Posso stare tante ore in archivio, e lo faccio. Ma l’odore della terra. Lo sporco della terra. Sentirsi sfiancati la sera, al tramonto, anche solo per il gusto di farsi una doccia. Veder venire fuori le cose. E imbastirci sopra un racconto, perchè, alla fine, molte sono congetture, prove o non prove”
“Viene con me a vedere?”.
Giovanni sorrise. Sladjo prese il portafogli ma Giovanni lo fermò con un cenno e lasciò cinque euro sul tavolo salutando da lontano i gestori.
“Quindi viene da Mostar…aspetti, le mostro una cosa buffa. Venga, tanto è qua dietro” Lo portò nella direzione opposta a quella della casa di Ana e si infilò in un vicolo. Si vedevano puntelli di legno. I puntelli salivano lungo la facciata e si piegavano a sostenere il balcone di un caseggiato degli anni venti del Novecento ingabbiandolo in un telaio di legno che ne trasformava la percezione. Da diverse angolazioni quella puntellatura trasformava una casa abruzzese in una casa ottomana.
Sladjo si mise a ridere. “Assurdo no? Uno fa una puntellatura contro il crollo e una casa abruzzese, un blocco parallelepipedo con un balconcino appena accennato, diventa una casa tradizionale balcanica”
Sladjo incrociò le braccia. “E’ stato all’est?”,
“Solo in Turchia. Quando viaggiavo ancora con mia moglie. Ma so che da voi la tradizione costruttiva è simile”.
Sladjo si fermò a guardare un’altro edificio, più grande, all’angolo della via principale, con un porticato a grandi arcate. Doveva avere una sua dignità, in origine. Si chiese se avesse abbastanza tempo per avvicinarsi e guardare meglio la pietra, un calcare marnoso con una sfumatura nocciola. Ora, a parte le lesioni a “x” portate dalle scosse forti, mostrava i segni di un riuso a ribasso, indifferente a qualunque forma di coerenza e di armonia: intonaco di cattiva qualità, rinzaffi di cemento tra le pietre, tirate fuori senza motivo nella parte bassa, le solette di cemento dei balconcini e infissi che il porticato non riusciva a nascondere – se fosse stato più profondo almeno li avrebbe accolti in un’ombra pietosa- messi forse negli anni Settanta, probabilmente al posto dei grandi portoni in legno da rimessa che proteggevano gli ambienti al piano terra. Si accarezzò la barba di un giorno.
“Secondo lei ha fatto più danni il terremoto o l’alluminio anodizzato?” “Touché” rispose Giovanni ridendo.
Ripresero a camminare lungo il marciapiede, diretti verso la casa di Ana. Passarono di nuovo davanti alla piazza provvisoria. Sladjo si mise a guardare la parete massiccia di un edificio in pietra di fattura nuova, rimasta in piedi assieme alla scala. Solo un pezzo di facciata con la scala. Il resto era raso a terra. Da lì, almeno, le macerie le avevano tolte.
“Non era una casa, era un hotel. Bello nuovo, sistemato da poco. Guardi là. Graniti” indicò una sala di cui restava intatto il pavimento. Un rivestimento diverso saliva lungo le pareti, mozzate a cinquanta centimetri dal piano di calpestio. “aspetti, ce ne ho un altro, di confronto interessante” Si mise a cercare sul telefono. “spero di non averla cancellata. Ecco”
Gli mostrò lo schermo. C’era un buco, in mezzo a palazzi nuovi, di cemento. Cinque o sei piani. E nel buco muri rasati, pile di mattoni. Un apparente disordine.
“Cos’è?”
“Aspetti” allargò la foto coi polpastrelli. “È Beirut, ma non un posto bombardato e neanche crollato per il terremoto. Sono le terme romane. Guardi questa parete…” indicò i resti di un muro alto meno di un metro da terra. Un rivestimento in marmo chiaro venato correva su pavimento e parete. “Non è il risultato di una guerra, è uno scavo archeologico. Ce ne sono tanti, così, dappertutto: il pavimento resta intatto, magari spaccato ma è tutto là, perchè il crollo lo ricopre e andarsi a prendere i materiali per riusarli e difficile e faticoso. Allora chi viene dopo che il posto è stato abbandonato stacca fino dove può staccare, se restano in piedi le pareti, oppure cerca in superficie.
Invece quando si fa uno scavo archeologico succede come qua: arriva qualcuno con un camion e la pala meccanica e tira su le macerie, e lo scavo rimane vuoto. Di crolli e di persone”.
Sladjo si mise a ridere “Non mi fraintenda: ovviamente la tecnica è diversa, nello scavo si va più lenti per ricostruire la storia del posto, strato per strato, senza le pale meccaniche. Qui il terremoto c’è stato appena adesso, sono due anni, e non c’è molta storia da ricostruire. E per fortuna in questo caso neanche gente da tirare fuori. Però stanno tardando a intervenire. I ragazzini si sono abituati a giocare in mezzo alle macerie. Per loro è normale come fare i castelli di sabbia in riva al mare”.
“Che strano. Anche il Libano è un posto dove convivevano diverse genti con diverse religioni. E anche là a loro è venuto facile innescare una guerra. Disse Sladjo, quasi a sè stesso. “C’è da ricostruire le case” aggiunse ad alta voce, come a dare a sè stesso una spinta verso l’ottimismo. Poi gli venne in mente che anche la ricostruzione era un business. “Beh, in qualche caso a dire la verità è successo che le bombe tirassero fuori i resti antichi. Come a Palestrina. C’è stato?”.
“No. Mi piacerebbe”.
“Le bombe hanno distrutto le case moderne e sotto sono venuti fuori i resti del santuario. Uno dei più importanti dell’antichità”.
“Si, il Santuario della Fortuna. Questo lo so”.
“A quel punto hanno deciso di non ricostruire”.
Guardarono da lontano la casa, alta sul suo mucchio di macerie, pareva un piccolo castello su una collina. Dietro la montagna, coperta di boschi e ombre.
“Qui però non sono venuti fuori santuari”.
Girarono a destra, dopo il bar. Scesero lungo una stradina fino alla via parallela. Da là in giù la via ricoperta da un asfalto svogliato che si sfaldava in buche diventava un viottolo di campagna coperto di ciottoli calcarei e bordato da campi incolti. In fondo alla stradina c’era il lago. La luce calda faceva i verdi più verdi e l’azzurro denso contro le montagne sovrapposte all’infinito nella prospettiva aerea perfetta di un quadro quattrocentesco senza protagonisti. Si fermarono di fronte al cancello. Era in piedi, tra due colonnette di tufelli. A fianco c’era una finestra col telaio reso sbilenco dal peso. Dietro al vetro crepato e spaccato nel mezzo c’erano pezzi di pareti e solai, le frattaglie, le budella dell’edificio, assieme alle membra scomposte del crollo.
“Mi sa tanto che la chiave non serve” disse Sladjo. Giovanni scosse la testa. “Non è facile avere attorno queste cose. Però alla fine uno rimane ipnotizzato”. Fissò il quadro elettrico, intatto, appoggiato su pietre e pezzi di pavimento. Su uno di quei pezzi si leggevano gli strati: l’allettamento di cemento, le vecchie piastrelle, poi uno strato di colla recente e un parquet di quelli economici fatti da tanti listelli incollati assieme. “Pensa di poterla rimettere su?”
Silenzio. “Tutto, si può rimettere su. Sono ancora vivo, no? L’unica cosa..”
“L’unica cosa?”.
“Non so se sarà già a posto per quando mia sorella uscirà dall’ospedale. Mi piacerebbe farle unasorpresa. Ma ci vuole tempo. E soldi”. Giovanni rise. “Se ha bisogno di un operaio per scavare via queste macerie non faccia complimenti:mi fa piacere darle una mano. Così faccio un po’ di movimento”
“Le hanno dovuto ingessare tutte e due le gambe dopo il terremoto a l’Aquila. Però poi qualcosa è andato storto e adesso l’hanno dovuta operare di nuovo per sistemare un pezzo che si era saldato male. Ana non era contenta, di rientrare in ospedale. E ancora meno di dover stare di nuovo immobile. Sono felice che non sia mai venuta a vedere questo posto nè dopo il 2009 nè dopo il 2017. L’Aquila era già abbastanza”.
Camminarono per qualche metro senza parlare. Sladjo prese il pacchetto e offrì una sigaretta a Giovanni che la rifiutò. Si fermò ad accenderla e rimise il pacchetto nella tasca della camicia. Giovanni pensò alle cronache sulla guerra in Bosnia Tanti anni fa. Una vita fa. Cecchini appostati sui tetti. Macerie.
“I terremoti, il tempo. Non sono già abbastanza? Perchè pure la guerra?”
“Perchè ci hanno progettati male” rispose Sladjo, guardando il cielo in mezzo a due pareti in rovina dove era rimasta sospesa una nuvola bianca come un pezzo di cotone idrofilo.
Guardò verso il mucchio di macerie della casa. I tondini stavano nudi, sospesi nell’aria come bastoncini di liquirizia. Qualcuno penzolava in basso, frammenti di forati attaccati a distanza, come perline di una gigantesca collana. Giovanni pensò a certe opere di Kounellis.
“Mi sa che qui non c’è rimasto più niente” disse Sladjo.
“A volte le cose non sono quelle che sembrano”rispose Giovanni, alzando le spalle. Si arrampicò sulle macerie, nella parte in cui il muro era più basso, si chinò a raccogliere. Gli tese una cornice col vetro spaccato e dentro una fotografia con due bambini davanti al ponte di Mostar.
Lo Stari Most, ponte che attraversa la Neretva e che da il nome alla città di Mostar nell’attuale Bosnia, era stato costruito a metà Cinquecento per volere di Solimano I. Simbolo della città e della convivenza pacifica di culture diverse fu fatto saltare nel 1993 durante il corso della guerra della Bosnia-Erzegovina. La ricostruzione, finanziata dall’UNESCO, ha restituito alla città un simbolo ma non il vero monumento. Campotosto (AQ) sorge presso il lago artificiale omonimo. L’area è attraversata dalla faglia di Gorzano. Ad oggi non sono stati avviati lavori di ricostruzione dopo il sisma del 2017 che ha raso al suolo gran parte del paese.
Adesso è tempo di riprendere con un altro gigante e teorizzatore del racconto breve, Julio Cortázar.
Nel 1962 Julio Cortázar tenne un ciclo di conferenze pubbliche a l’Avana. Ne uscì un saggio, intitolato Algunos Aspectos del cuento. C’è un passaggio che ben si sposta,credo, a quanto segue e che dice più sulle dinamiche del racconto di tanti corposi saggi. ‘e’ necessario arrivare ad avere un’idea viva di ciò che è il racconto, e questo è sempre difficile nella misura in cui le idee tendono all’astratto, a devitalizzare il loro contenuto, mentre a sua volta la vita rifiuta angosciata quel guinzaglio che vuole metterle la concettualizzzione per fissarla e categorizzarla. Ma se non abbiamo un’idea viva di ciò che è il racconto, avremo perso tempo, perchè un racconto, in ultima istanza, si muove su quel piano dell’uomo dove la vita e l’espressione scritta di quella vita ingaggiano una lotta fraterna, se mi si concede il termine; e il risultato di tale lotta è il racconto stesso, una sintesi vivente e insieme una vita sintetizzata, qualcosa come un’incresparsi d’acqua dentro un bicchiere, una fugacità in una permanenza. Solo con immagini si può trasmettere quell’alchimia che è all’origine della profonda risonanza che un grande racconto ha in noi, e che spiega anche perchè ci siano pochissimi racconti veramente grandi.’
Anatomia di un racconto – La notte supina di Mirko Tondi
L’ultima volta ci eravamo lasciati con il racconto Le rovine circolari, così oggi riprendo la rubrica con quella che penso sia la continuazione naturale dell’opera di Borges, ovvero quella del suo connazionale Julio Cortazar (anche se possiamo considerarlo un vero autore giramondo: nato a Bruxelles, vissuto a Buenos Aires, poi trasferitosi in Francia, a Parigi, dov’è morto nel 1984). Del resto i punti di contatto tra i due autori sono molteplici, e due temi tra i più ricorrenti sono quelli che riguardano il doppio e il sogno. In particolare, nel racconto di cui parliamo oggi, La notte supina(qualche volta tradotto La notte, supino), si ritrovano entrambi le tematiche, nelle quali echeggiano il mondo segreto dell’inconscio e certe pellicole dalle atmosfere alla David Lynch, facendoci camminare in bilico sul filo dell’ambiguità. La fusione tra sogno e realtà genera un territorio altro, una dimensione intermedia che è possibile esplorare solo grazie all’ingegno di poche e geniali menti.
“E in certe epoche andavano a cacciare nemici, la chiamavano la guerra dei fiori.” Questa è la frase di partenza del racconto, nelle cui prime righe incontriamo il protagonista, intento a prendere la sua moto dallo scantinato di un hotel. Lo vediamo salire a bordo e avviare il mezzo (“La moto ruggiva tra le sue gambe”), poi seguiamo il suo tragitto attraverso la città: i negozi con le loro vetrine, i viali alberati, le grandi ville. Ma subito – per distrazione o per eccessivo rilassamento – accade un incidente. Ogni volta che mi accingo a cominciare un racconto non posso che ripensare a uno dei preziosi consigli di Kurt Vonnegut sulla scrittura delle storie brevi, che recita così: “Inizia il più vicino possibile alla fine”. Ecco dunque che l’incidente (ciò che aziona la storia, che le permette subito di prendere una deviazione rispetto alla normalità) compare senza tanta suspense, ma con l’obiettivo di accorciare le distanze proprio rispetto alle narrazioni più lunghe. In questo trovo che l’approccio di Cortazar abbia una certa impostazione cinematografica: d’altra parte, in un film c’è un fatto più o meno importante che accade nei primi dieci minuti, e quel fatto sarà solo il primo anello di una catena che si svilupperà per la sua intera durata. Per scansare una donna che si è gettata in mezzo alla strada nonostante il semaforo non glielo consenta, sbanda e finisce a terra perdendo conoscenza. Quando ritorna in sé, quattro o cinque persone lo stanno estraendo da sotto la moto. Seppur stordito e con diverse ferite sul corpo, trova sollievo nell’idea che l’incidente non sia avvenuto a causa sua; la donna poi ha solo qualche graffio alle gambe, ma niente di più. L’uomo viene trasportato in una vicina farmacia, dopodiché arriva un’ambulanza; il braccio è sicuramente rotto ma non gli fa male, intanto il sangue gli scende da un taglio al sopracciglio e lui se lo lecca dalle labbra. In ospedale lo spogliano e gli mettono un camice. “Lo portarono alla sala di radiologia, e venti minuti dopo, con la lastra ancora umida appoggiata sul petto come una lapide nera, passò in sala operatoria. Qualcuno vestito di bianco, alto e magro, gli si avvicinò e si mise a guardare la radiografia”. In questo passaggio, compare quella “lapide nera” che – oltre a costituire una notevole similitudine – porta con sé anche un presagio di morte; inoltre, spicca il contrasto di colori tra la lastra scura e il camice bianco del medico.
Sopraggiunge ora un sogno pieno di odori, “e lui non sognava mai odori”. Si tratta di una sorta di indizio, un’anomalia che sottintende la realtà delle cose. “Dapprima un odore di pantano […] Ma l’odore cessò, e al suo posto venne una fragranza composta e scura come la notte in cui si muoveva fuggendo dagli aztechi.” Si nasconde nella selva, ma gli odori tornano a perseguitarlo: “odore di guerra”, pensa toccando un pugnale di pietra. Un’altra abilità dei grandi scrittori è quella di far confluire i sensi nella scrittura, riuscire a farli percepire al lettore, e qui Cortazar li usa tutti quanti o poco ci manca, in una combinazione tipica del suo stile: abbiamo il colore del fuoco (“Molto lontano, probabilmente dall’altro lato del grande lago, dovevano ardere fuochi di bivacchi; uno splendore rossiccio riempiva quella parte del cielo”), un suono improvviso (“Era stato come un ramo spezzato. Forse un animale che fuggiva come lui dall’odore della guerra”), un odore foriero di paura (“questo incenso dolciastro della guerra dei fiori”) e infine una sensazione tattile (“acquattandosi a ogni istante per toccare il suolo più duro del sentiero”). Siamo di nuovo nella stanza d’ospedale, il protagonista è febbricitante e assetato, col gesso al braccio. Il racconto adesso oscilla come un pendolo tra il sogno e il risveglio, tra la staticità del letto e la fuga disperata nella selva. Ma i guerrieri riescono a trovarlo e lo catturano. E quando torniamo per l’ennesima volta nell’ospedale, l’uomo ripensa al suo incidente e si accorge di avere un vuoto, che va dallo scontro al momento in cui lo hanno sollevano dal suolo.
Nell’ultima parte del racconto tutto comincia a girare più velocemente, ed è magistrale la gestione dei due universi, quello reale e quello onirico, come Cortazar avesse in mano uno specchio e ci mostrasse l’una o l’altra dimensione a seconda dell’inclinazione scelta. Fino alla rivelazione conclusiva, che stavolta non anticiperò, per non sciupare la sorpresa delle ultime righe. Oppure accorgersi che è stato tutto un sogno.
Grazie alla benevolenza di Mirko Tondi, eccellente scrittore (“Era l’11 settembre” -Toutcourt Edizioni), docente e amico di questo blog per cui scrive la Rubrica ‘Anatomia di un racconto‘ (https://massimilianobellavista.wordpress.com/2020/04/24/anatomia-di-un-racconto-per-caffe-19-una-nuova-rubrica-a-difesa-del-panda-della-narrativa/) il prossimo 27 Ottobre a Firenze, con la ‘scusa’ di Punto Triplo parleremo di letteratura, parola e racconto breve. Purtroppo le misure di sicurezza anti COVID 19 non consentono di aprirci ad ospiti esterni che non siano già partecipanti al corso, e quindi questo non vuol essere un invito, ma certamente dal mio punto di vista è invece un’ottima occasione per ringraziarlo (come faccio, lo sapete, con tutti coloro che in questi tempi difficili portano avanti eventi, festival o nel suo caso, una ben collaudata ed efficace Scuola di scrittura).
Il suo corso di scrittura creativa a Firenze si pone l’obiettivo di creare un punto di approdo per aspiranti scrittori del territorio fiorentino e dei suoi dintorni, persone che vogliano cimentarsi con la scrittura in senso generale, anche per puro divertimento, non tanto chi voglia provare a intraprendere una professione legata a questo campo artistico particolare. Quello che interessa è fornire strumenti per cominciare a scrivere con metodo oppure per affinare le proprie capacità, ma anche offrire il pretesto per un esercizio di scrittura continuo e duraturo.
Vie brevi e Barzhaz si fondono. Se mi devo basare su quello che abbiamo fatto a Luglio di questo anno credo proprio che sia una bella occasione per tutti. A luglio la soddisfazione dei partecipanti è stata massima e adesso torna il laboratorio “Le vie brevi” . Sarà un laboratorio gratuito con sfumature giallo e noir. Se avete seguito il blog, sapete che in questo perido non è facile organizzare iniziative originali e di qualità. Ebbene questa è una di quelle, viste le tracce che ha lasciato.
Scrivere breve non è affatto facile! Mai come in questi tempi le forme espressive brevi (racconti, articoli, commenti e recensioni) sono state per tanti lettori la piccola porta di ingresso alle opere di scrittori cui ora non rinuncerebbero per niente al mondo. Il laboratorio di scrittura breve “Barzhaz – racconti brevi giallo noir” è una realtà e scrivendo un racconto in questa forma espressiva, sulla distanza delle 250 parole (parola più, parola meno, non siamo fiscali!) potrete farne parte a pieno titolo. Forniremo un feedback personale tecnico e di merito a tutti i partecipanti che servirà a condividere idee, affinare le tecniche e i mezzi espressivi e perché no a far da base per futuri contatti e collaborazioni. I migliori racconti saranno poi premiati durante Giallo Festival. I racconti vanno inviati a barzhaz@loggione.itentro il 4 novembre 2020. Animerò l’iniziativa fornendo come sempre un feedback personale tecnico e di merito a tutti i partecipanti. I migliori racconti saranno premiati durante la seconda edizione di Giallo Festival e pubblicati sul sito www.giallofestival.it
Ringrazio Max Arcangeli per la bella introduzione a ‘Punto triplo‘.
COMUNICATO STAMPA 09-10-2020 PRIMA GIORNATA
ANTICOntemporaneo la prima giornata di una Rassegna unica e speciale: il messaggio del Presidente del Consiglio Conte
«Voglio augurare a tutti voi di vivere nel migliore dei modi il momento di confronto, scambio e arricchimento culturale offerto dall’iniziativa del Festival AntiContemporaneo, “La cultura contro il Covid”. È significativo che tante idee, proposte e opinioni sulla battaglia che l’Italia sta combattendo contro il Covid trovino spazio in un contesto unico come l’Abbazia di Montecassino, tante volte distrutta e tante volte ricostruita. Occasioni come questa amplificano lo spirito di coesione della nostra comunità, indicano spunti e suggerimenti utili per riflettere, con linguaggi innovativi e da angolature diverse, sul momento che stiamo attraversando con senso di responsabilità, resilienza e fiducia».
È con queste parole che Il Presidente del Consiglio GiuseppeConte si è rivolto agli organizzatori del Festival ANTICOntemporaneo: LA CU(LTU)RA CONTRO IL COVID’ che questa mattina è iniziato con alcuni significativi interventi.
La rassegna ha visto succedersi ospiti importanti quali Vincenzo Lipari che ha discusso il tema L’esercito in prima linea contro il COVID, Giacomo Marramao, professore di Filosofia teoretica e Filosofia politica presso l’Università di Roma Tre che ha intrattenuto il pubblico sul tema della ‘sindrome populista’ e della delegittimazione nel contesto politico che caratterizza e il suo ultimo libro (‘Sulla sindrome populista’), Massimiliano Bellavista scrittore, docente all’Università di Siena che ha parlato del potere della parola come anticorpo allo smarrimento dei nostri tempi in una carrellata sui personaggi della sua raccolta ‘Punto Triplo’Noemi Urso redattrice editoriale, social media manager ha parlato del tema delle fake news fornendo utili e inediti accorgimenti ‘antibufala’ utili ad accrescere l’indipensabile bagaglio digitale che ci permette di ‘sopravvivere’ alla Rete e di usarla nel modo migliore.
Nel pomeriggio a partire dalle 18 e domani 10 Ottobre a partire dalle 9.30 molti altri ospiti si avvicenderanno, da Giovanni Rezza a David Riondino, da Roberto Battiston a Roberto Bellotti e molti altri. Il tutto in piena sicurezza e nel rispetto delle norme anti-COVID. L’ingresso ai panel è limitato per permettere il distanziamento sociale.
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COMUNICATO INTEGRALE GIUSEPPE CONTE
Voglio augurare a tutti voi di vivere nel migliore dei modi il momento di confronto, scambio e arricchimento culturale offerto dall’iniziativa del Festival AntiContemporaneo, “La cultura contro il Covid”. Ringrazio per l’invito Sua Eccellenza Reverendissima Donato Ogliari e l’associazione “La parola che non muore”.
È significativo che tante idee, proposte e opinioni sulla battaglia che l’Italia sta combattendo contro il Covid trovino spazio in un contesto unico come l’Abbazia di Montecassino, tante volte distrutta e tante volte ricostruita. Occasioni come questa amplificano lo spirito di coesione della nostra comunità, indicano spunti e suggerimenti utili per riflettere, con linguaggi innovativi e da angolature diverse, sul momento che stiamo attraversando con senso di responsabilità, resilienza e fiducia. Sono proprio queste ultime le risorse che ci hanno permesso, attraverso i comportamenti dei cittadini, di affrontare l’emergenza sanitaria e di contenere il virus nel momento più duro della nostra storia recente. Questo stesso spirito, che antepone a ogni cosa la difesa della vita e la solidarietà verso i più fragili, ci impone oggi di non abbassare la guardia per non vanificare i grandi sforzi economici e sociali compiuti. La battaglia non è stata ancora vinta, il nostro nemico comune non è stato ancora sconfitto, il momento è delicato. Vi assicuro che il Governo sarà vicino ai territori, che continuerà a seguire il metodo della massima precauzione e a lavorare senza sosta per la ripartenza.
Ai giovani della Terra di San Benedetto, della provincia di Frosinone e di tutta Italia voglio dire che abbiamo bisogno di voi per ricostruire, dobbiamo pensare a voi per essere più ambiziosi. Possiamo uscire da questa pandemia rigenerando la nostra comunità, a partire dall’esempio dei piccoli e grandi gesti che ci hanno permesso e che si stanno permettendo di resistere. Nei sacrifici e negli atti di responsabilità compiuti in questo periodo c’è già una nuova e ritrovata coscienza sociale, che permette al singolo di tornare a sentirsi parte di un tutto. Da qui, dalla lezione che abbiamo appreso da questa pandemia, può nascere lo sforzo di ognuno per contribuire a una rinascita, che passi per un nuovo modello di sviluppo più giusto, sostenibile, all’altezza delle ambizioni delle nuove generazioni. Dopo questa esperienza l’Italia non può accontentarsi, non può rimettersi in piedi per tornare a camminare nella “normalità” delle strade già esplorate. Siamo un Paese capace di correre su nuovi sentieri, anche grazie alle ingenti risorse del Recovery Fund, ottenute in sede europea.
Con questa consapevolezza, l’Italia “rigenerata” deve puntare su scuole nuove e digitali; sul potenziamento del sistema sanitario nelle tante periferie del Paese; sulla transizione green delle imprese e delle abitudini, a difesa dell’ambiente; sulla velocità dei collegamenti; sulla spinta alle aree depresse ma ricche di potenzialità, che sono alla ricerca da troppo tempo di riscatto e valorizzazione. Questo Paese “nuovo” deve poter contare anche su un nuovo welfare, su un’inclusività che non lasci indietro nessuno, a partire dalle famiglie e dalle giovani coppie.
Con le idee, l’entusiasmo e la voglia di rinascere che testimoniate in questa due giorni si può cogliere il senso più profondo di quello che stiamo vivendo e della sfida che abbiamo davanti: bisogna proteggere le cose essenziali; bisogna ricostruire per rinascere più forti, migliori.