Filippo Nibbi, Polifemo e Rodari

Franco Loi, che ci ha lasciato di recente, teneva sul comodino una copia del suo poema, Parlando di mio nonno Polifemo pubblicato nel 1973.

Rodari lo considerava un prezioso collaboratore, tanto che curò il suo ultimo libro, uscito postumo.

Lui è uno scrittore insolito, imprevedibile, difficile da incasellare in un genere.

Stiamo parlando di Filippo Nibbi

Strana opera Parlando di mio nonno Polifemo. Scritta in decasillabi, un verso piuttosto raro. Ancora più raro è ascoltare qualcuno che ancora sa leggere (leggere, non declamare) una poesia. Siamo nel suo appartamento, nel centro di Arezzo, una casa ricca di memorie, libri, quadri e fotografie.

Filippo, in questo pomeriggio invernale, mi legge il Polifemo  a volte quasi sussurrando, a volte battendo il tempo con il piede sinistro.  Le parole corrono, si fermano, tornano a fluire e (come dovrebbe essere) il suo canto aggiunge alle loro frequenze timbri e significati che non sono sulla carta, ma tra le righe.  Dice che non c’è niente da fare, le mie poesie le devo leggere io.

Matematico e fisico di formazione, Nibbi è Poeta nel senso più autentico del termine, dice, rifacendosi a Dante, che ogni Poeta è una Sibilla (Così la neve al sol si disigilla, / così al vento nelle foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla”). La sua scrittura si potrebbe definire probabilistica, quantistica, nel senso che nasce, per certi versi come quella di Rodari, dallo scontro di parole che, come particelle elementari, da questa collisione liberano qualcosa di nuovo e sconosciuto.

È questo in breve Filippo Nibbi. Qualche anno più degli ottanta (non vogliamo subito dire quanti) portati con grandissima lucidità, creatività e vivacità intellettuale. Nella stanza che ospita la sua biblioteca, nel centro di Arezzo la letteratura si respira. Si tocca. Si sente.  La sua lettura galoppa e si riverbera sui muri, sulle finestre, sui tavoli ingombri di carte.

La mia terra conosce i bei volti

e i dolori coperti di vigne.

I paesi le stanno a ridosso

come tante pietruzze celesti:

la mia terra conosce quei sassi

che non hanno potuto riempirla.

Veglieremo su tutti una volta:

i cipressi ne sanno qualcosa.

La mia terra lo disse ai suoi morti,

e i suoi morti le danno ragione:

c’è chi vive imbiancando di dentro

catapecchie ridotte a presepi.

Chi avvicina i paesi di notte

può trovare le pietre al suo posto.

(…) Molte case finiscono in niente

perché l’alba non crede più a loro.

Le finestre rimangono chiuse

anche quando la luce ci batte.

Le parole per Nibbi sono importanti. Cita Vico e le sue picciole metafore. Vico che per primo affermò che la metafora è la forma originaria del linguaggio, ciò che è necessario ad afferrare e sedimentare la conoscenza, umanizzandola con immagini come il sole ride.

Vede, mi ricordo che una volta, con Rodari, un bambino osservando la pancia della mamma, in dolce attesa, disse ‘Toh, un panciullo’.  I bambini, dice, sono fantastici, perché possiedono innata questa capacità metaforica alla base del linguaggio, questa abilità di creare che poi col tempo viene sviata, repressa e a volte frustrata da una scuola e da una società che ci vuole ‘razionali’. Ma lui stesso è in questo senso ancora bambino, un ‘acceleratore di parole’ che fa scontrare di continuo. Mi esorta anche qui, ora a giocare con lui.

Del resto anche il termine che inconsapevolmente ho scelto, ‘bambini fantastici’ è anch’esso in qualche modo figlio della razionalità e dell’Illuminismo. Prima dell’Illuminismo avrei forse detto ‘bambini meravigliosi’, perché per gli uomini di quel tempo l’immaginario, l’irreale’ era o poteva essere a buon diritto parte della realtà. Solo dopo, con la parola ‘fantastico’, abbiamo imprigionato e relegato la nostra fantasia su di un altro piano, come si fa con un ospite tollerato ma imbarazzante, sottolineando con ciò che eravamo diventati ‘razionali’, e forse anche un po’ più tristi e disillusi.

Sta bene sembra dirmi Nibbi, non c’è problema. Lui in fondo con le parole ci gioca da una vita. Rodari, nella primavera di quel lontano 1979, quando fece visita in una scuola di Arezzo per parlare della sua idea di scrittura, lo ha ‘infettato con la parola’. È proprio questo il termine che usa. La parola è un virus, ma di quelli buoni.

Nibbi dice di sé stesso di sentire nelle sue vene sangue contadino ma in lui c’è anche la fierezza della nobile bisnonna. Nasco in casa Angori, dove la capocasa è la bisnonna Emilia Ugurgieri, di Siena. Era giunta a Camucìa con un paggio, Generoso. La sua famiglia apparteneva a quella Magistratura di Siena che aveva costretto Carlo V a entrare in città appiedato

Gli piace parlare del suo passato, ma sempre in senso non retorico ma costruttivo, per pescarvi quanto serve ad illuminare un angolo di futuro.

Rodari quel 23 Marzo di molti anni fa incontrò e lavorò alacremente circondato dall’entusiasmo di quei bambini che ora sono cinquantenni, e allora formavano gli alunni di una classe quinta elementare e una prima media.

Rodari in quegli anni girava l’Italia, vedeva quel suo modo speciale di narrare e scrivere come una missione, la missione di divulgare la fantasia. Per quegli incontri poneva due sole condizioni: la prima era quella di non lavorare con nessun altro che i bambini e qualche insegnante, la seconda era quella di non registrare alcunché di quegli eventi. Condizioni rispettate senza eccezioni, almeno fino a quella primavera del ’79., quando invece si registrò tutto su nastro.  A me lo permise perché intuì che sapevo lavorare con le parole, mi dice Nibbi. Nibbi capisce che quella esperienza potrebbe diventare un progetto, un ideale complemento operativo della Grammatica della fantasia, A gennaio del 1980 in questo senso Rodari scrive a Nibbi ma sfortunatamente poco dopo, nell’Aprile 1980 lo scrittore muore. Ed ecco che quelle sbobinature diventano preziosissime, costituiscono quel contributo che confluisce nel libro Esercizi di Fantasia, che esce grazie al lavoro di Nibbi appena un anno dopo, nel 1981.

Mi trovo qui perché sono rimasto colpito dall’articolo comparso su un quotidiano qualche giorno prima, che a un certo punto recitava: Filippo Nibbi cambia casa e regala una buona parte della sua biblioteca. Una lunga lista di libri, di ogni genere, dalla quale scegliere per arricchire il proprio bagaglio, basta fare una telefonata. Una cosa inusuale, un atto di generosità e di fede nella lettura e nella cultura; mi chiedevo come gli fosse venuta l’idea, e se qualcuno avesse raccolto l’invito. Gli telefono e il giorno dopo sono da lui.

Ci sono tre giovani a piano terra. Aspettano con pazienza. A quanto pare non sono gli unici, i libri di Nibbi forse popoleranno molte e varie biblioteche, come scintille che si propagano di focolare in focolare. È una cosa confortante saperlo.

I libri del resto sono essi stessi una metafora. Secondo Nibbi, una metafora della propria ignoranza. Sulle prime non capisco, ma poi afferro tutta l’originalità di quel punto di vista. Più sono, dice Nibbi, più evidentemente c’era bisogno di colmare dei vuoti. È vero, non ci avevo pensato. Ma sono anche la prova di una incolmabile curiosità che mantiene tuttora Nibbi entusiasta e assetato ricercatore di tutto e su tutto.

La gente viene, e si ferma a parlare con lui, che gli legge brani delle sue opere alternandoli in modo inscindibile ad episodi della sua vita. Sembra lui la Sibilla di cui parlava e forse in quei libri che ora viaggeranno chissà dove c’è da qualche parte un suo personalissimo oracolo.

Anni prima, anche Rodari come Loi aveva letto quel suo poema, Parlando di mio nonno Polifemo. Per cui tutto il gioco ad Arezzo fu strutturato come nonsense, iniziò con “Ho conosciuto un tale/un tale di Arezzo/ che mangiava sua nonna/ e provava ribrezzo

Ma sono molti e assai diversi gli scritti di Nibbi, figli di varie epoche, ma sommamente di un’Italia in cui ogni libro nasceva tra la gente e svolgeva una precisa funzione portando valore nel contesto sociale. E tutti sono particolari, interessanti e leggibili i suoi testi, su più piani sensoriali e temporali. Come del resto le sue letture e riletture, ad esempio quella dell’Alice di Carrol ne Il Cappellaio matto.  Tanto materiale è disponibile online, ad esempio sul suo sito personale, http://filipponibbi.altervista.org/

Gli auguriamo di proseguire il suo lavoro e di continuare a spiazzarci, continuando a cavare storie originalissime e parole nuove dove gli altri vedono solo linguaggio comune routine, come scintille dalle pietre focaie.

Pubblicità

Festival dello scrittore 19-20-21 Marzo (quarta edizione) : torna il laboratorio ‘Vie Brevi’

Evviva le vie brevi della scrittura al Festival dello Scrittore!!!

http://www.festivaldelloscrittore.it/

Visto il successo delle precedenti edizioni, vi proponiamo una nuova/diversa sfida all’interno del Festival dello Scrittore che si terra nei giorni 19–20-21 marzo 2021. (Per informazioni e iscrizioni scrivere a redazione@festivaldelloscrittore.it).

Scrivere breve non è affatto facile! Mai come in questi tempi le forme espressive brevi (racconti, articoli, commenti e recensioni) sono state per tanti lettori la piccola porta di ingresso alle opere di scrittori cui ora non rinuncerebbero per niente al mondo.
Il laboratorio e scuola di scrittura “Barzhaz ” , nelle sue espressioni Base e Avanzato è ormai una realtà (a breve ripartiranno i corsi online) e scrivendo un racconto in questa forma espressiva, sulla distanza delle 250 parole (parola più, parola meno, non siamo fiscali!) potrete farne parte almeno una volta a pieno titolo, sperimentando il nostro approccio alla scrittura. Come sempre forniremo infatti un feedback personale tecnico e di merito a tutti i partecipanti che servirà a condividere idee, affinare le tecniche e i mezzi espressivi e perché no a far da base per futuri contatti e collaborazioni. I migliori racconti saranno poi premiati durante il Festival dello Scrittore.

La partecipazione è gratuita. I racconti vanno inviati a barzhaz@loggione.it entro il 15 marzo 2020.
I migliori racconti saranno pubblicati sul sito www.festivaldelloscrittore.it e su http://www.thenakedpitcher.com

Questa volta Vi proponiamo le seguenti semplicissime  due ‘regole’ per la stesura dei Vostri racconti:

-Distanza: 250 parole (come prima)

-Tema: l’amore (nelle sue varie e infinite forme e sfumature). 

Le rose di Kathryn. Su Toscanalibri una mia recensione che è anche un racconto sul tempo.

Paolo Cesarini in un racconto a me particolarmente caro, La ragazza in Verde, narra con il suo bello stile che mescola ironia caustica, memoria minuziosa e tragicità una vicenda sospesa tra amore e Palio. Una storia d’amore nasce e finisce durante il Palio del ’33, e il racconto si conclude così: Fu l’ultimo Palio che godei da senese intero. Dopo ne ho visti molti altri, ma da senese all’estero, voglio dire fuori dal confine dell’antico Stato: che è una cosa diversa, intensa e incompleta, sempre un poco amara, con l’orario delle ferrovie che appare dietro al gioco delle bandiere. Quando ho letto d’un fiato Le rose di Kathryn di Luigi Oliveto, e non si tratta del solito trito cliché di circostanza (ho ‘profetizzato’ il successo che il libro sta avendo in tempi non sospetti!), mi è subito venuto in mente questo frammento. Sarà perché le Avventure ritrovate di Cesarini quasi quarant’anni dopo si potrebbero ben commentare come il libro di Luigi, che racchiude racconti che sottolineano il passare del tempo e tratteggiano la vita per induzione e mai per deduzione, avventure ordinarie che racchiudono sentimenti universali.

Sarà perché alla fine quel libretto del 1983 evocava magistralmente fatti e periodi storici in parte sovrapponibili, ma in larga parte precedenti e complementari a quelli ripercorsi nel volume di Oliveto, che invece ha, anche per ovvie ragioni anagrafiche, il suo fulcro temporale dagli anni Sessanta in poi. Sarà perché si tratta di storie che abbracciano tutta Italia, con uno sguardo e un’attenzione lessicale anche al dialetto (non toscano) da senese all’estero. Sarà perché l’amore, in tutte le sue forme, ma certamente l’archetipo femminile, talvolta ironico, talvolta malizioso, più spesso materno e insondabile gioca in questi racconti brevi un ruolo importante. Sarà per via delle ferrovie. Fateci caso, a Siena gli scrittori arrivano sempre a piedi, a cavallo o, come nel caso di un noto racconto dedicatole da Saramago, Terra di Siena bruciata, in macchina. Non si associa facilmente Siena coi treni, perché la ferrovia per come è disposta la città, sembra un corpo estraneo. Che ci sia tutti lo sanno, ma dove sia rimane un po’ vago, come la Diana, il fiume sotterraneo che la leggenda vuole scorra nelle viscere della città. Eppure o forse proprio per questo, quel racconto, Maso che sentiva i treni ti colpisce eccome. Maso il folle, Maso il pazzo con licenza di essere angelo e demone, è davvero uno dei ritratti più riusciti della raccolta. E Maso, rinchiuso all’ospedale psichiatrico di Siena, il San Niccolò, dall’età di otto anni è un personaggio che piacerebbe a Simone Cristicchi, un personaggio da conoscere. Maso sente il treno, ripete in continuazione oggi si sente il treno. Quel treno ha una valenza metaforica molteplice e potente: ve lo ricordate il Belluga de Il treno ha fischiato di Pirandello? Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capoufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capoufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo: – Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato… È così anche per Maso, il treno gli fischia in testa e un bel giorno se lo porterà anche via.

Tutti i personaggi di questa raccolta sono trascinati dal destino individuale e dalla storia, fuori dalla Guerra e dentro la pace. Ma anche la pace sa essere subdola, lo sanno bene Paoletto e Irma di Seconde nozze i quali sopravvissuti alla guerra, non sopravvissero alla pace. Poi si va oltre, si abbandona questi protagonisti morti sulla soglia del boom e se ne trovano altri per i quali cominciano i mali del benessere. Ci si può permettere di tutto, divorzi, tradimenti, depressione, eccessi finanziari. Con uno strano e costante retrogusto agrumato, amarognolo in bocca però: nella vita di questi personaggi non manca mai l’insolito, l’inspiegabile e anche il fantastico.  In L’orologio di Colzana, racconto notevole specialmente nella sua parte iniziale, dove una specie di bolla magnetica avvolgeva l’intero paese e tutti gli orologi si fermavano sembra che Buzzati si sia temporaneamente impadronito del libro. Lo stesso si potrebbe dire anche per Black Christmas che gira attorno alle dimissioni di un Babbo Natale sfiduciato nel genere umano. Ma tutti i protagonisti della raccolta vorrebbero alla fin fine fermare il tempo come Fausto Pavanti, se non altro per vederci chiaro nelle loro vite che perdono continuamente entusiasmo e ingenuità e invecchiano e diventano più ciniche e subdole esattamente come fa la beneamata Repubblica italica.

Lo si dice benissimo in un passo veramente notevole del libro ai piedi del faro non c’è luce. (…). Se non riusciamo a vedere la luce, non è detto che non ci sia e soprattutto non è detto che non ci riesca la nostra coscienza. E inoltre, ancora più importante, se si inizia la nostra esistenza nel buio, non è detto che non si possa terminarla in piena luce. I santi si sa, come diceva Giovanni Maria Vainney, non tutti hanno cominciato bene, ma tutti hanno finito bene.  Lo sa benissimo il Don Liborio di Santo subito, racconto veramente azzeccato anche dal punto di vista tecnico vista la vividezza delle immagini e delle descrizioni. Ma c’è anche chi nel buio rimane senza riuscire a frenare minimamente l’emorragia del tempo, ed è in questo senso molto forte e realistica l’atmosfera de Gli anni di piombo, anche per quella bellissima virata che Luigi ha saputo impartire alla narrazione, una strambata alle vele con vento forte, e perciò assai difficile, impressa dopo appena un paio di pagine a una storia che parte un po’ alla De Sica di Matrimonio all’italiana, con le prodezze erotiche e le acrobazie (bi) familiari dell’Onorevole Ciro Imbiancato per poi incattivirsi fino all’estremo. In quella vicenda, le colpe dei padri ricadono sui figli, anche quelli avuti fuori dal matrimonio, nel Delitto Perfetto apparentemente, parrebbe di no, ma siccome si tratta di una storia a tinte gialle, non va rivelato il finale. Va detto solo che merita di essere letta.

Un discorso a parte, a mio giudizio, merita Amore di lontano.  È un racconto veramente insolito, dove questo elogio dell’amore lontano alla Jaufré Rudel sconfina nel masochismo e un pochettino anche nella follia. La protagonista, Dolores, sopporta tutto il calvario di un divorzio in una famiglia ipertradizionalista in un piccolo paese ma, con il suo nuovo amore, tutto sommato le va bene così, vicini nel cuore ma distanti chilometri con ancora il treno, il maledetto treno, che torna nel mezzo. Ci sono dei passi del racconto, come l’incontro con la suora in treno, che valgono il libro. C’è in certi passi anche un uso del dialetto, milanese in questo caso brianzolo ne Un’ordinaria storia di provincia che ricorda l’Hans Tuzzi del ciclo del Commissario Melis.
Luigi, lo si percepisce da quasi ogni pagina di questo volume e lo sa bene chi collabora con lui o lo legge abitualmente su Toscanalibri.it, è un lettore attento, curioso, esigente, meticoloso. Non sfuggirà agli amanti della letteratura italiana del secondo novecento che il libro ne è animato e vitalizzato come nei casi più felici succede tra un film e la sua colonna sonora. Per esempio: accarezzò la schiena di Alessandro come un rendimento di grazie, si addormentò pure lei. Sul limitare di questo paradiso li ritrovò la luce novembrina del giorno. La Milano del sabato mattina poltriva ancora sotto piumoni e nebbia. Lui alle dieci aveva la prova in teatro… Se a Milano sostituite Venezia, quella città nebbiosa e indefinita descritta nel bellissimo racconto già citato, complice anche l’ambientazione ‘musicale’ della storia, ricorda da vicino il Berto di Anonimo Veneziano. Comunque l’amore o ciò che gli assomiglia cerca sempre di gettare un ponte, anche oltre la storia, anche oltre l’esistenza. Per tutte queste ragioni, ‘le poste di bilancio della vita’ cui Luigi Oliveto si riferisce nella poesia che costituisce il desinit del volume, saranno anche scombinate dal tempo ma la loro somma è sempre in attivo e produce un sicuro profitto per il lettore.

Vanna Bastreghi Bianciardi, biografia di una donna speciale

Il libro è in dirittura di arrivo. Uscirà più o meno a Marzo. Oggi ho consegnato all’Editore il manoscritto definitivo. Devo ringraziare i tanti che hanno aiutato con le ricerche, le interviste e le testimonianze, in Italia e in Belgio. E’ la biografia ( o forse il romanzo) di una donna che ha attraversato da protagonista il secolo scorso e ha vissuto l’epoca pionieristica di nascita e sviluppo dell’Europa cos’ come la conosciamo oggi. Sono venuti fuori fatti molto curiosi e spunti di grande interesse e attualità . Qui sotto una foto con Giorgio Bassani

Bentornato, Romeo

Mi fa piacere di quando in quando leggere qualcosa di Romeo Lucchi, genovese, uomo di teatro, affabulatore che da trent’anni si dedica ad attività legate al palcoscenico e al movimento espressivo. Suoi racconti sono stati premiati e antologizzati (La farinata, Se tornassi indietro), alcuni li trovate in rete e sulle principali piattaforme di podcasting. Ci sono diversi suoi microracconti in questo blog, tutti assai particolari e interessanti (ad esempio La tazza del vate ; Sex Tree; Glitter Eyes) . Questo è decisamente uno dei suoi!

Il sogno Matrioska

Il morello stava facendo un sogno strano. Sognava di essere di legno, un cavallo di legno, ma vivo e pensante. Come cavallo di legno sognò di essere un burattino di legno che al suo risveglio era un bambino in carne e ossa. Come cavallo di legno si svegliò di soprassalto per il dolore. Stava partorendo e dando alla luce un manipolo di soldati che subito dopo incendiarono e distrussero la città circostante. Il morello si svegliò. Era agitato. Scosse la testa e nitrì. Mangiò un po’ di biada. Tra poco sarebbe arrivato il fantino e il Palio avrebbe avuto inizio.

Franco Loi

Un esordio tardivo, tra i quaranta e i cinquanta, un grande poeta.

Si è spento Franco Loi. Una voce intensa e forte della poesia italiana.  Un talento che viene dal teatro (collaborò con Fo e Rame). Inizia a scrivere negli anni Settanta, a Milano, solo, d’estate davanti alla vita, che gli sembra in quel momento priva di valori e di ideali. Scrive in quel ricco e personalissimo dialetto che, negli anni settanta, è ‘quasi una lingua’, aperta ai contributi esterni, stranieri, degli immigrati.

E mì, che ‘l pass dansàss/ slargàss de l’aria,/ e là, ‘me’n inventàm, par aqua ferma/….

E io, certo che il mio passo danzasse/ e s’allargasse e s’addolcisse l’aria negli spazi/là come se io me l’inventassi, vedevo come l’acqua ferma ….

Una poesia fattasi, di anno in anno, più metafisica e più lirica.

Quajcoss gh’è stà…Ma cosa? Quan’, giò ‘ telun/ resta dumà ‘l record, squasi nient, un sogn/ scunfüs de parol e de fatti, el sens/ che, forsi, ‘ n altra volta turnarèm, / per mej vardà, capì, tegnì, per semper/ ‘me ‘ bigliètt in sacoccia, la verità…

Qualcosa c’è stato… Ma cosa? Quando, giù la tela,/resta soltanto il ricordo, quasi nulla, un sogno/confuso di parole e di fatti, il senso/che forse, un’altra volta torneremo/per meglio guardare, capire, tenere per sempre/come il biglietto in tasca, la verità

Una voce che ha meritato, merita e meriterà la nostra memoria e la nostra lettura.

La chimera della fiducia

Fidarsi è bene o meglio sospettare?
Quando la diffidenza può essere
il vero virus che mina la società
Un libro dall’approccio originale a un problema non recente:
la presenza incessante di fake news sempre più capziose
di Massimiliano Bellavista
Vivere in una bolla. È questo che fanno molti nostri concittadini, di ogni età e provenienza sociale, sottoponendo la loro razionalità ad un volontario e rigorosissimo lockdown intellettuale. Non si fidano di nessuno, a cominciare dai media mainstream, a meno che, a mezzo social e blog, qualcuno non scriva esattamente quello che loro sostengono. Non c’è spazio per il contradditorio, né per il cambiamento di opinione, principio su cui si reggono tutti i sistemi democratici.
Il libro La società della fiducia. Da Whatsapp a Platone di Antonio Sgobba (il Saggiatore, pp. 264, € 19,00), giornalista tra i conduttori di Tgr Petrarca, si prefigge di affrontare di petto, ma con pacatezza e accurata argomentazione, un problema tra i più gravi che affliggono la nostra società.
Cerchiamo notizie o conferme alle nostre credenze? Siamo ancora capaci di fidarci dei nostri concittadini?
Ho avuto il piacere di presentare il suo libro ad Ascoli, lo scorso settembre, e Antonio Sgobba mi è sembrato sin da subito una persona molto chiara e diretta. Questo si intuisce a chiare lettere in esergo al suo volume, quando scrive «Nella prima metà del libro mi occuperò della fiducia attraverso la sua negazione: la diffidenza. Nella seconda metà attraverso il suo riflesso: l’affidabilità». Ora, questa chiarezza non è così frequente nei saggi nostrani. Ma torniamo al punto, perché, come sostiene l’autore, sulla fiducia si gioca una partita di capitale importanza per il nostro futuro.

Le fake news e la post-verità
Cos’è una fake-news? Che cosa si intende per post-verità? Pochi ne sanno dare una definizione corretta. Nell’Otello verdiano, e nello specifico il secondo atto, quello in cui di fatto inizia la vicenda della gelosia, Otello dice «Mi trova / una prova secura / che Desdemona è impura… Vo’ una secura, una visibil prova…La prova io voglio! Voglio la certezza!». E Jago, implacabile, risponde: «E qual certezza v’abbisogna? Avvinti / vederli forse? E qual certezza sognate voi se quell’immondo fatto / sempre vi sfuggirà?… Ma pur se guida / è la ragione al vero, una sì forte / congettura riserbo che per poco / alla certezza vi conduce».
Ecco, il libro ci spiega con accuratezza e semplicità l’origine di queste «sì forti congetture» che hanno lo scopo di ingannarci, manipolarci, suscitare una nostra reazione preordinata come si trattasse di un stimolo chimico ai recettori del nostro cervello. L’epoca che viviamo, quella della post-verità, è dunque un’epoca dove la verità ha perso peso, è fluttuante in un orizzonte dove alla forza di gravità si è sostituito il desiderio di plasmare la realtà a nostra immagine e somiglianza. Il volume è importante anche perché ci fa intravedere anche cosa c’era prima della nostra epoca, un mondo pervaso da una grande inquietudine perché «Dalla Riforma fino al XX secolo la nota dominante della cultura occidentale era stata la fiducia. Ma la perdita della fiducia aveva travolto il ventesimo secolo. La scienza, un tempo principale sostegno della fiducia, ci ha insegnato a diffidare si sé stessa». Quindi il male è antico e l’autore ce lo dimostra con storie ed aneddoti di grande interesse e curiosità. Ma se questa è la diagnosi, qual è il decorso della malattia e soprattutto, c’è una cura?

Una speranza: un nuovo contratto sociale al confine tra calcolo e virtù
La progressione della malattia, se non si interviene, come Sgobba delinea nelle sue conclusioni, non è buona, anzi al contrario, ci induce a pensare a scenari distopici, dove alla fiducia si sostituisce un suo mostruoso e illusorio surrogato: il Grande Fratello tecnologico, l’orecchio e l’occhio digitale che tutto e tutti controlla. Il capitalismo della sorveglianza, che si nutre di dati.
L’autore su questo miraggio ci ammonisce chiaramente: «il controllo potrà anche garantirci la sopravvivenza, ma per vivere abbiamo bisogno della fiducia».
L’alternativa alla fiducia insomma è un totalitarismo che finisce per divorare se stesso: colpisce in questo senso nel libro il racconto dell’epoca del terrore staliniano dove «tutti dovevano guardarsi da tutti, chiunque poteva essere una spia o un informatore». E non stupisce quindi che Chruščëv a un certo punto, nell’estate del 1951 senta lo stesso Stalin mormorare tra sé e sé: «Sono finito, non mi fido di nessuno, neanche di me stesso».
Annoso problema dunque quello della fiducia: da Eraclito e dai dialoghi platonici, ha sempre fornito grandi spunti alla riflessione di filosofi e intellettuali, come il volume non manca di illustrare. Ma qual è la strategia per vincere la sfiducia, se la stessa ci è indispensabile come l’aria? Forse, per dirla con Dante, la ricetta è a metà tra calcolo e virtù, in quella fidanza di dantesca memoria, che è sostanzialmente un contratto, una convenienza, basato con giusti contrappesi, tra l’avversione al rischio tipica dell’uomo, e la sua ricerca di socialità, scritta nel suo stesso Dna. In altre parole, si potrebbe dire, l’autore sembra suggerirci la necessità di leggere dentro la parola fiducia, giù fino alla sua radice greca che significa “prestare fede”, e che, a ben vedere, è una forma medio-passiva del verbo “persuadere”. Questo vuol dire che la fiducia non è monodirezionale, non si può solo prendere o dare, ma è frutto di un contratto sociale giusto a metà tra ragione e istinto.
O, per dirla con parole più semplici, visto che sulla copertina del volume di Sgobba campeggia il naso di Pinocchio, questo non può non ricordarci che da quel libro potremmo sulla fiducia imparare assai. In fondo, basterebbe possedere la fiducia incrollabile di Geppetto o almeno non chiudere tutte le porte e fare come Mangiafuoco che a un certo punto dice «E bada Pinocchio, non fidarti mai troppo di chi sembra buono e ricordati che c’è sempre qualcosa di buono in chi ti sembra cattivo».
Come si intuisce si tratta di un libro la cui lettura è impossibile non consigliare. Consideratelo se volete un manuale di autodifesa dai pensieri più ottusi e oscurantisti che ogni tanto provano a saltarci addosso.

Massimiliano Bellavista

(direfarescrivere, anno XVII, n. 180, gennaio 2021)