Le mie recensioni

DICONO delle mie recensioni

Ringrazio gli autori che in così breve tempo non mi hanno fatto mancare il loro sostegno e le loro critiche costruttive. Senza fare torto a nessuno ecco alcuni dei loro messaggi:

 

Grazie per il messaggio e per la recensione, che ho appena letto. La ringrazio anche da parte della coautrice, Maria Giulia Andretta. La sua recensione è davvero molto bella, e ha colto molti punti che a noi stanno a cuore…. Sulle recensioni, anche in questo caso sono totalmente d’accordo con lei. Un tempo la recensione era considerata un lavoro saggistico…. Ho visto anche il sito, e non posso che condividere il vostro manifestoMarco Ciardi e Maria Giulia Andretta Autori di “Stregati dalla Luna” Marsilio http://www.carocci.it/index.php?option=com_carocci&task=schedalibro&Itemid=72&isbn=9788843094967

 

La ringrazio molto per la sua recensione che ho letto con la dovuta attenzione, naturalmente, come lei immagina, apprezzandone il contenuto positivo . Lei, se posso dirlo io  che ne sono l’autore , ha perfettamente colto il senso del mio  libro e l’intenzione con cui è stato scritto. “Ernesto Galli della Loggia Autore di “L’aula Vuota”

 

“Grazie davvero per la bella recensione, la cui lettura ho trovato piacevole al di là del mero interesse per promozione del libro.” Natalino Russo Autore di “L’Italia è un sentiero ” Laterza https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858127865

 

Non conoscevo “Stroncature” e vi faccio i complimenti per la bella iniziativa.” Alessandra Carleo Curatrice di “La decisione robotica” Il Mulino

 

“Grazie per le belle parole, intelligenti e profonde, del recensore del mio “Il celeste confineAlberto Folin

 

Ringrazio inoltre Francesco Palmieri de “Il Foglio” per il suo sostegno e per questo bellissimo articolo e(cfr ” Che fine ha fatto la critica? Lo stroncatore letterario rischia di scomparire come la tigre della Tasmaniahttps://www.ilfoglio.it/cultura/2019/08/16/news/che-fine-ha-fatto-la-critica-269654/

 

Dizionario del cinema immaginario

 

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Dizionario del cinema immaginario


Autore: Alberto Anile; editore: Lindau; pagine: 325

I repertori dell’inesistente sono la spezia esotica e rara da somministrare con parsimonia alla nostra mente. Sono sempre esistiti, nell’antichità avevano una finalità per lo più didattica e morale.

Poi arriva l’Encyclopédie e presentando la sua opera lo stesso Diderot ebbe a dire “è ugualmente nostro dovere indicare le verità scoperte, e le vie che potrebbero condurre a quelle ancora sconosciute”. A quel punto, si aprivano a pieno titolo le porte agli almagesti dell’immaginario, del fantastico. Vi sono bellissime opere, sotto forma di dizionario o di enciclopedia, che tentano di classificare i molti, mutevoli, multiversi del fantastico. Citiamo Adam Zzywwurath e la sua Enciclopedia del Fantastico in Letteratura, per esempio.

Stranamente però in queste opere, cinema e arti figurative sono spesso, anzi quasi sempre, assenti. Per ciò che concerne il cinema, rimedia assai bene questo volume che fa affiorare, diremmo finalmente, la potenza combinatoria del cinema. Una potenza combinatoria affatto inferiore a quella della letteratura.

Vi si susseguono 390 titoli totalmente, meravigliosamente, follemente inesistenti, tra cui “America” di Fellini, la pellicola sul romanzo (incompiuto) di Kafka che nel film (vero) “Intervista” del 1987 si prepara a lungo ma non si farà mai. Del resto quella per Fellini è un’epoca di sperimentalismo e se l’Intervista è il film «che cresce su sé stesso come per partenogenesi», come fu definito, non sorprende che in questo humus crescano anche le spore dell’immaginario.

C’è Blow out di De Palma, opera che già si muove per definizione in un reale molto ambiguo, e che partorisce “Sesso sfrenato”, la pellicola inesistente che John Travolta sta finendo di sonorizzare. Questo, in un film che si caratterizza come tributo all’Antonioni di Blow-up, è l’efficace espediente narrativo che definisce il timbro dell’opera in modo insostituibile, introducendoci nell’ossessione per il suono del protagonista contrapposta a quella per l’immagine che anima il film di Antonioni.  In questo senso “Sesso sfrenato” è proprio un film da vedere.

Non si stenta a credere che questo dizionario sia definito “un atto di fede”: si deve infatti necessariamente sperare che chi lo legge sia stato contagiato dalla stessa (sana) follia dell’autore; inoltre un’opera come questa richiede grandissima pazienza e conoscenza del reale. Il reale infatti, è un quartiere vasto, ma ancora finito. L’immaginario invece è “hic sunt leones”, è terra incognita, è la via lattea infinita che si ammira dalle finestre dell’esistente. E allora per scrivere un libro così fatto bisogna conoscere molto bene il reale e sperare che basti almeno a fornire un giro d’orizzonte dell’infinito immaginario che ci circonda.

Si sa, in rete circolano una infinità di liste di fictional movies, più o meno ben fatte. Ma qui è diverso: il lavoro è sistematico, la descrizione accurata.  E se qualcosa è rimasto fuori, amen.

Diciamo subito che però tifiamo fin da ora per una seconda edizione: in questa dovrebbe trovare spazio il nostro amico Roger Rabbit, che si è detto frustrato che il suo bellissimo cartone animato “Somethin’s Cookin’ non ci sia. Ci associamo alle sue rimostranze.

Ma per tutto questo allo stesso tempo omaggiamo e assolviamo l’autore, in primis perché le mancanze non sono mancanze, sono solo opportunità di ampliamento del Dizionario e anche altrettante chances di giocare con l’estensore dell’opera segnalandogliele (come probabilmente sta già avvenendo). In secondo luogo, lo perdoniamo perché è stato sufficientemente pazzo da provarci…potrebbe sempre citare Chesterton a sua discolpa “se una cosa vale la pena di farla, vale la pena di farla male”.

Elsa. Le prigioni delle donne

 

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Elsa. Le prigioni delle donne


Autore: Francesco Ricci; Editore: NIE; pagine: 104

Vi siete mai trovati a leggere avidamente la biografia di un personaggio famoso anche conoscendola quasi a memoria? Il lettore di biografie è un po’ voyeur, in parte un investigatore e anche una specie di comare.

È un voyeur perché la perversione sta nel non amare le sorprese e nel sapere perfettamente come quel che sta vedendo andrà a finire, visto che in questo caso si tratta delle biografie artisti, con le loro debolezze, le proprie inconfondibili e talvolta autodistruttive abitudini e manie, e poi visto e considerato che tanto dalla vita come la giri la giri, si sa, non si esce mica vivi.

È comare, perché sul suo personaggio farisaicamente punta il dito, pensando, nelle svolte cruciali che suggellano opere e vita, cose del tipo “ecco, è qui che si è sbagliato”, oppure “era facile, bastava che la smettesse con quella fissazione e tutto sarebbe andato per il meglio”.

Ma è anche un po’ investigatore, perché tra le righe di una biografia ci vuol vedere quel che c’è e a volte anche quel che proprio non c’è. Ci sono miliardi di elementi nascosti e spesso anche degli elementi fuorvianti nella cronaca di una vita. Dovendo sintetizzare, l’autore che confeziona una biografia mette dopo l’anno e i due punti ciò che crede essere l’evento principe, la causa scatenante e il catalizzatore di una svolta nella vita di quel personaggio, magari dell’ispirazione per un’opera memorabile.

Ma è pur sempre una frettolosa interpretazione, nel migliore dei casi una parzialità, come accade anche nei migliori biopic, genere che attualmente va per la maggiore al cinema. Dice l’autore che “Come lettore, sono sempre stato interessato esclusivamente ai romanzi, ai racconti, ai saggi, che contribuiscono a migliorare la nostra conoscenza dell’umano: Dante, Shakespeare, Dostoevskij, sanno insegnarci intorno all’uomo, alla condizione dell’uomo, alla dimensione intima dell’uomo, lo stesso che possono insegnarci gli psicologi del profondo. Insomma, quando leggo, un libro pretendo che questo, partendo dalla vita di chi scrive, finisca col parlare alla vita di chi ne sfoglia le pagine”. Non sappiamo se lui se ne sia reso pienamente conto, ma come autore invece Ricci ci aiuta a compiere la navigazione inversa: sfogliando le pagine del libro presi dai fatti della nostra vita, si finisce per restarci incollati e cadere dritti dritti nella vita di Elsa Morante, seguendola in presa diretta. E non è facile nel caso di una vita ipernarrata che a volte si è voluto stiracchiare qua e là per farne un’icona di una società letteraria e di un passato che non c’è più, di cui si è letto e scritto molto, anche a sproposito, dalle dotte analisi ai tentativi postumi di psicanalisi, passando per scansioni maniacali e non sempre significative di vari carteggi e articoli di taglio scandalistico o goffamente pruriginoso.

Ecco allora che in questo volume che ha il pregio raro della brevità e quello anche più grande dell’originalità, quella striminzita biografia di cui parlavamo diventa vita.  La scrittura elegante ma non invadente è come acqua che bagna un prodotto liofilizzato, riportandolo alla sua consistenza originale: c’è ma non si vede, serve solo a fare in modo che tutti i puntini, dati e cognizioni, ridiventino un tessuto vitale dotato della struttura e dell’elasticità originale. Non è una tecnica nuova per Ricci, già capace di fare la stessa cosa, con notevole successo, come nel caso di Pier Paolo Pasolini, che proprio della Morante guarda caso fu amico; ma ogni volta sembra capace di perfezionarla.

A nostro modo di vedere, un libro come questo si può scrivere solo se si è consci di due cose: primo, che nella vita di un autore così complesso il tempo non scorre sempre allo stesso modo ma che “la linea che sei anni tracciano può essere lunga come secoli per un mortale”, secondo che in quei salti temporali si può cambiare profondamente, tanto da non essere quasi gli stessi, tanto da poter parlare di una trasformazione ma di una “sostituzione di una persona con un’altra persona”. Allo stesso modo, di una vita non si dovrebbe mai fornire una sola chiave interpretativa né solo una folkloristica galleria di volti ed episodi: non si sta scrivendo un racconto a chiave né tantomeno un album di figurine.

Ci vuole allora uno stile musicale, né una messa da requiem né un’opera, diremmo piuttosto una sinfonia, con l’intrecciarsi di tempi, stili e registri differenti.

La vita della “Morante secondo Ricci” è una sinfonia complessa attorno al tema dell’amore dove ogni capitolo è un ben congegnato movimento.

Amore come “catastrofe perfetta”, tempesta perfetta dove chi sopravvive è una persona l’unica degna ai nostri occhi di venire salvata. Già, ma chi si salva davvero da questo amore smisurato, idealizzato e per questo, forse alla fine anche inesistente (ma la prigione che può creare attorno ad una persona esiste eccome)? Non Bill Morrow, giovane amante di una donna matura e forse surrogato inconscio del figlio mai avuto, simbolo del “limite fatale” della maternità mai oltrepassato, quel Bill che vive nella prigione di un tempo breve e di un destino già scritto. Non si salva l’infanzia, e quella madre da cui Elsa fugge a diciotto anni, per la mancanza di quell’affetto che avrebbe tanto voluto, tutto racchiuso, con bellissima immagine, tra “il fiato e le parole”. Non si salvano nemmeno la relazione simbiotica con Moravia e quella sismica con Visconti, tutti e due comunque alla fine dei giochi sempre troppo lontani e indifferenti.

Si salvano di certo le parole, la scrittura (Elsa nel libro è la donna che ha scritto tanto, sempre e a lungo, viaggiando con disinvoltura e passione lungo la scala dimensionale dell’esistente, “erigendo cattedrali e ricamando centrini”) che la fa preferire restare in una Roma sotto il tallone nazista al fuggire verso un rifugio sicuro, perché appunto c’era da scrivere, da portare a compimento un’opera. Da generare un nuovo figlio. “ogni libro per me è stato un figlio, ha riempito piovose ore invernali orfane di piccole risate, di parole storpiate, di pianti per un nonnulla, di filastrocche da recitare e di lettere dell’alfabeto da insegnare a tracciare sul foglio

Ma la scrittura si sa, è in realtà una partita a scacchi con sé stessi, un gioco di riflessi assai perverso: l’Elsa scrittrice che crede di avere di fronte una galleria di ricordi e immagini e persone “che le son piaciute” come direbbe Conte, in realtà si trova dinanzi a uno specchio. Anzi, nemmeno un solo specchio ma un tunnel di specchi e ognuno di essi le rimanda invariabilmente sempre e solo un’altra sé stessa, poiché ogni uomo della sua vita l’ha cambiata, si potrebbe dire infestata, sostituendosi a lei. E così alla fine non c’è nulla, ma proprio nulla, da dire su quegli uomini, “riguardo alla loro persona” ma solo sulle storie, sulle “Else” che in lei si sono succedute. “L’Elsa che li ha conosciuti e amati, non è l’Elsa che li ricorda ora… Ciascuno di loro mi ha reinventata, ricreata, trasformata.”

Situazione angosciante, e infatti si può leggere questo libro come se fosse un giallo, ben consci però che in questa storia non esiste un crimine, né un colpevole, ma solo tanti testimoni, quelli di un’epoca culturale nostrana assai difficilmente ripetibile.

Situazione angosciante dunque, da cui solo un’artista del calibro di Elsa vorrebbe, potrebbe uscire: a un certo punto sembra intuire anche come, ovvero smettendo di misurare il mondo con il metro del suo vissuto, della sua angoscia e del suo dolore, magari seguendo i suoi occhi che col trascorre degli anni si son fatti stanchi ma anche più curiosi. “A loro non basta più uno specchio dove riflettersi insieme alla mia persona, devastata dal tempo e dal dolore. Hanno fame di orizzonti più vasti e lontani…” ma forse è troppo tardi per non perdersi. E il nostro viaggio in quest’ottimo volume inizia da dove è cominciato, su una scarna biografia che lega a pochi eventi significativi e a qualche arida data i suoi ultimi anni.

 

Manuale pratico di sceneggiatura

 

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Manuale pratico di sceneggiatura



Autore: Claudio Dedola; editore: Lindau; pagine: 206

Oggigiorno, e non ci stancheremo mai di dirlo, servono saggi (in generale libri) ben scritti, efficaci, che non diano quel tipico retrogusto amaro da caffè non ben miscelato e la quasi certezza che il primo a non comprendere fino in fondo ciò che scrive e spiega sia proprio l’autore. O che il medesimo alla fase comunicativa e divulgativa (e quindi ai suoi lettori) sia snobisticamente disinteressato, che è peggio, perché dall’altro lato invece esistono ottimi divulgatori che non praticano direttamente ciò che spiegano, ma che lo sanno esporre divinamente.

Quindi un libro che riesce in questa impresa in qualsiasi settore è sempre degno di nota per il solo fatto di esistere. Ma cavarsela così è un po’ troppo poco.

L’autore ci invita a percorrere un viaggio in un mondo e in una forma letteraria la cui natura prima ancora che di parole, si compone di un alfabeto infinito che è quello dell’immagine. Inevitabile quindi di fronte all’infinito espressivo darsi delle regole per non disperdersi.

Altrettanto certo è che chi scrive una sceneggiatura debba raggiungere un notevole grado di consapevolezza e autocontrollo, potendo disporre di una tavolozza di colori infinita per comporre un quadro il cui fine artistico e narrativo non è destinato ad un lettore “finale”, ma un produttore e a un regista. Poi ad un attore. Quindi, ma solo nei casi più riusciti, ad un pubblico di lettori (provare a leggere la sceneggiatura del Settimo sigillo per credere. Ma di film e di sceneggiature di quel calibro ce ne sono ben poche). 

In termini di marketing, lo sceneggiatore sta quindi allo scrittore come una azienda “business to consumer” sta ad una “business to business”. Lo sceneggiatore non sarà guardato da platee di mangiatori di pop corn, ma analizzato scrupolosamente da occhi avidi ed esperti. Lo sceneggiatore come ente che scrive per l’entità che si incaricherà di produrre il film non è quindi uno scrittore, ma più un musicista capace di scrivere una partitura per immagini (questo ammesso e non concesso che lo scrittore, come detto in premessa, ce l’abbia davvero chiaro l’interesse e il piacere del suo consumatore finale, cosa non sempre vera. E che abbia provvidamente tenuto debito conto, se è intelligente e soprattutto fortunato, dei buoni consigli di un editor competente. Per cui qualche volta meglio una bella sceneggiatura di un cattivo romanzo… provare a leggere la sceneggiatura del Settimo sigillo per credere…ma questo l’abbiamo forse già detto)

Sta di fatto che in effetti, una pagina di sceneggiatura equivale, come apprendiamo nel volume, a circa un minuto di girato, e quindi la distanza di 100/120 pagine costituisce la pista di atletica su cui uno sceneggiatore si deve cimentare, mentre il romanziere è libero di fare il centometrista ma pure il maratoneta un po’ dove e come crede.

Sta di fatto, e ciò colpisce, che lo sceneggiatore dovrebbe scrivere con una telecamera sulle spalle, perché è il punto di vista dello spettatore che conta, e tutto quello che non si può vedere o almeno intravedere, in sostanza in quel mondo non conta.

Sta di fatto che leggendo il libro sembra che lo sceneggiatore dovrebbe pensare di essere quasi un fumettista, conscio di dover scrivere nel fumetto lo stretto necessario, al limite anche niente, se l’immagine già parla, conscio soprattutto di dover scavare nei dialoghi la battuta memorabile, il “francamente me ne infischio” dentro al pagliaio delle cose inutili.

È quindi un viaggio altamente consigliabile quello che si può compiere dentro questo volume, e non solo per un aspirante sceneggiatore ma diremmo per chiunque voglia raccontare efficacemente una storia proponendosi di scriverla, in questo particolare mondo dove il talento è sempre mediato da una solida e preordinata struttura testuale e linguistica, dove il mantra è spiegarsi. Dove, in qualche modo capovolgendo il noto clichè letterario, non conta tanto l’incipit ma la fine di una scena, perché “Una buona scena inizia il più vicino possibile alla sua conclusione”. In altre parole il succo della storia, la momentanea conflagrazione che innesca un cambio di prospettiva e/o di vita o la risoluzione catartica di quel conflitto interiore o esteriore su cui ogni buon film si incardina.  Nella pratica letteraria, è qualche volta proprio l’inverso: l’inizio attira il lettore, lo calamita, la conclusione può latitare fino a rendersi assente, talvolta sono i lettori stessi che adorano la battuta iniziale e detestano le formule di commiato.  Insomma le tecniche di semina-raccolta (setup-payoff) così ben illustrate in questo testo in quell’ambito non sempre pagano.

Ma lo sceneggiatore lavora per immagini e le regole insomma sono importanti: e sono spesso proprio quelli che le dovrebbero spiegare a derogare per primi dal principio di semplicità e chiarezza espositiva, basti vedere la maggior parte dei manuali di sceneggiatura italiani e anche esteri.

Le regole si sa, sono spesso percepite come gabbie, nemiche dell’arte: ma se sono buone, ben introdotte e argomentate come queste, sono importanti almeno per due ordini di motivi.

Primo, ogni buona regola è una figura tracciata sulla sabbia: il suo perimetro definisce i confini di sé stessa e automaticamente anche l’eccezione, quello che sta fuori; quindi la consapevolezza della regola definisce la deroga, la rende apprezzabile e chiara a tutti per ciò che essa auspicabilmente può a volte essere, ovvero un atto di genialità. (se non lo è, conviene al più presto rientrare con la coda tra le gambe dentro al perimetro).

Secondo, e anche più importante: le sceneggiature di tanti film odierni difettano a tratti penosamente nelle caratteristiche di ordine, ritmo, velocità e chiarezza che sono esposte nel libro. E i risultati si vedono. Non che attualmente il panorama estero brilli, ma certamente una maggiore dimestichezza con i fondamenti di questo genere letterario darebbe meno di frequente la sensazione del fatto in casa o del cliché rifritto, lento e melenso a tante produzioni nostrane che scontano in questo senso un notevolissimo gap con quelli anglosassoni.

In fin dei conti, scrivere in tutte le epoche è stato e sarà sinonimo di disciplina e di capacità di analisi del contesto, quale che sia la forma e il fine del testo: lo sapevano nei rispettivi campi, diversamente ma con uguale profondità, autori come Molière, Illica, Simenon e molti altri.

Quanto al contesto, di indubbio interesse il modo con cui si tratta il dialogo, il quale deve essere reale “ ma non è esattamente una conversazione reale”, in quanto in uno scambio di battute che rende memorabile un film c’è pur sempre un orientamento, un scopo, un “sottotesto” universale che poi null’altro è se non una strategia narrativa sotto traccia fortemente legata al particolare contesto e alla stratificazione delle immagini che circondano i personaggi” Il dialogo non deve esplicitare il tema della scena. Ovvero, come si suol dire, i dialoghi devono avere un sottotesto…le persone…non ti sbattono in faccia il loro pensiero. Quello che pensano deve essere capito dal sottotesto. Il vero significato delle loro parole dipende spesso dal contesto in cui si esprimono…”. Quel sottotesto dunque c’è, è fatto di una sostanza che sta in uno stato quantico e altamente instabile tra immagine e suono, ma non si deve sentire, pena rendere tutta la scena un soufflè che si sgonfia.

Si potrebbe allora dire che un buon sceneggiatore scrive e vede nella sua testa una pellicola sempre da una prospettiva rovesciata, cioè all’inverso di come a volte superficialmente la percepisce lo spettatore: l’esteriorità di un personaggio, la sua apparenza,  è data da ciò che a prima vista sembra più stratificato e implicito, ovvero le parole che escono dalla sua bocca, mentre la sua anima, la vera interiorità, è costituita da ciò che erroneamente appare più esplicito e palese, cioè le immagini.

Una ultima nota va alla parte del libro che fissa delle acute e sapienti regole per ciò che concerne la croce e delizia di tanti autori: la fase della riscrittura. Se la prima stesura, come la prima mossa al Palio di Siena, difficilmente è quella buona, la centesima è forse eccessiva, poiché occorre essere consapevoli che alla fine “la vera riscrittura del testo avverrà nella fase di montaggio”.  Visto che si parla di film, la nostra palma per l’immagine più originale va certamente a quella che, proprio in quella sezione del libro, equipara certe scene al “salmone scaduto”, e che serve a far comprendere allettore che tante ottime scene sono destinate al macero, al territorio della non esistenza: nella sceneggiatura infatti il bello si inchina al funzionale e a volte occorre obtorto collo disfarsi anche di ciò è anche molto buono. Ma non si può consumare nel film.

 

La lingua disonesta

 

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La lingua disonesta



Autore: Edoardo Lombardi Vallauri; editore: Il Mulino; pagine: 286.

Ci sono libri il cui preciso compito è quello di regalarti un sassolino nella scarpa.  Questo è il caso. Lo scenario è più o meno il seguente.

Benvenuti nell’era della disintermediazione. 

Fondamentalmente, come si sa, nella nostra società ciò fa rima con una crescente e talvolta immotivata sfiducia nel prossimo. O meglio una endemica insoddisfazione per tutto ciò che rappresenta un intermediario e un mediatore tra noi e la sfera sociale, economica e politica.

I venditori in carne ed ossa? Secondo molti ormai non servono perché i loro consigli sono certamente orientati e possiamo recuperare le informazioni in rete. Inoltre troppi intermediari rallentano il dinamismo dei mercati.

I corpi intermedi dello stato? Non servono, poiché partiti politici e organismi di prossimità di varia natura ci influenzerebbero negativamente e noi invece possiamo pensare con la nostra testa e dobbiamo principalmente affermarci e agire come individui, dialogando in forma diretta con ogni istituzione.

Giornali e televisioni sarebbero nefasti perché si frappongono tra l’individuo e la sua facoltà di ricercare, comporre e valutare le informazioni come e quando vuole.

Perfino i medici stanno diventando per alcuni odiati mediatori nella libera ricerca della salute. Ricordiamo a questo proposito il cartello esposto qualche tempo fa in un ambulatorio da un medico esasperato che recitava ““Coloro che si sono già diagnosticati da soli tramite Google, ma desiderano un secondo parere, per cortesia controllino su Yahoo.com”.

Ci illudiamo, beandoci di questa supposta onnipotenza, ma per quanto sgomitiamo nell’affermare un ego sempre più debordante, spogliandoci scriteriatamente dei corpi intermedi e di ogni intermediario specializzato e formato per essere tale, facciamo come Topolino apprendista stregone che, in tunica rossa e cappello da mago, si affanna a inseguire un esercito di scope nate dalle schegge dell’unica che ha sfasciato.  E le sirene che sussurrano ai nostri orecchi non diminuiscono, anzi si moltiplicano diventando più subdole e inarrestabili, tanto che oggi potenzialmente tutti possono giocare con noi (e spesso sulla nostra pelle) al gioco della persuasione.

Dov’è il problema, si dirà, se alla fine il potere è adesso tutto in mano nostra, se riusciamo ad essere cittadini in grado di compiere consapevolmente e razionalmente il nostro diritto/dovere di scelta e delega politica e, allo stesso modo e con altrettanta sicumera, recitare il nostro ruolo di consumatori? Il problema è che l’esercizio di tutto questo apparente potere è costantemente messo sotto schiaffo e hackerato dalla comunicazione politica e commerciale, che odia l’instabilità e le oscillazioni necessarie al formarsi di un’idea politica e di una scelta di consumo e così tende per sua natura a limitare naturalmente la nostra facoltà di scelta. “chi riesce a far sì che delle cose si parli come vuole lui, riuscirà a far sì che tutti pensino quello che vuole lui”.   

La lingua disonesta che dà il titolo al libro è questo: distorcere impercettibilmente le logiche di ragionamento dell’interlocutore proiettandolo in un mondo escheriano ovvero in frames “cornici concettuali entro cui le cose prendono il senso voluto dall’emittente”.  E qui il disintermediatore di professione ci pare già di sentirlo nuovamente bofonchiare: asserirà che di questo ben disegnato saggio non c’era poi bisogno, che sono a tutti ben note le tecniche e l’influenza del marketing sulla società e che non è poi un gran problema se ciò mi indurrà a comprare un capo di abbigliamento o un altro, un etto di prosciutto o tre fette di culatello. 

Il punto che sconcerta è invece la portata globale del fenomeno e il grado di finezza che ha raggiunto: in altre parole il drammatico divaricarsi, evidente come in un crescendo rossiniano nelle pagine di questo volume, delle asimmetrie informative tra cittadino elettore e politica, tra consumatore e venditore.  La lingua usata nel dibattito politico e economico è diventata in questo senso assai disonesta e non è un problema, come spesso erroneamente si crede, di soli contenuti, ma proprio di struttura del linguaggio: il linguaggio può renderci assai manovrabili da chi sistematicamente “ci fa scegliere quello che conviene a lui”. Il linguaggio, se artefatto, gioca a rimpiattino con la nostra mente, spaccia come verità assodate concetti e conclusioni assai incerte. In altre parole, le strategie persuasive affidate alla comunicazione e al linguaggio sono, comprovabilmente, giunte a un punto tale non solo da far sembrare veri ai nostri occhi contenuti infondati e il fake, ma anche da darci l’impressione di essere arrivati a tali conclusioni da soli.  

È un po’ come quando si guarda l’esibizione di un illusionista: andiamo con la speranza e l’intenzione di essere ingannati, di essere assorbiti da quel frame e anche frustrati nel nostro tentativo di penetrarne i segreti.  In quel caso va bene così, ma non possiamo certo abbandonarci ai maghi in caso di cruciali scelte sociali o economiche. Eppure ci troviamo spesso soli davanti ad un linguaggio studiato ed evoluto per cui abbiamo scarsi anticorpi, perché scarsa è oggi la nostra abitudine alla concentrazione, a prenderci il tempo di smontare un messaggio pezzo per pezzo per scoprirne la fondatezza.  “Funzioniamo come ce lo permettono i nostri neuroni, con il loro specifico sistema per immagazzinare e trattare l’informazione, evolutosi rocambolescamente nei milioni di anni. Il linguaggio si è instaurato in questa macchina biologica in modo piuttosto abusivo, poche decine di migliaia di anni fa, e ci funziona bene, ma non funziona in maniera ideale e assoluta”. 

Nel linguaggio, come si legge in alcune pagine del volume, tutto ci influenza, a partire dall’uso del suono di certe parole: l’esito di certi studi può sembrare incredibile, ma ci indica chiaramente che le cose stanno proprio così. Allo stesso modo, e questa è la tesi centrale del volume, è proprio la nostra struttura cerebrale che ci porta ad essere assai vigili nel confutare o reagire ad asserzioni “forti” o palesemente false, ma anche a risultare allo stesso tempo assai meno reattivi e più vulnerabili alle informazioni presupposte. Se cioè l’informazione falsa, il “virus” capace di drogare le nostre opinioni, si nasconde come un codice malevolo nella parte di enunciato che la presuppone, le nostre difese cadono. 

In altri termini, se chiediamo a bruciapelo a qualcuno quanti animali di ciascuna specie prese Mosè sull’Arca, quasi tutti risponderanno “due”, senza curarsi che fu Noè a farlo, perché “l’accuratezza con cui processiamo un contenuto dipende dal modo con cui è confezionato linguisticamente”.  E le evidenze addotte sono, in qualche modo, spiazzanti e sconcertanti.

Ma questo non vuol dire abbandonarsi a questo stato di cose e anzi, è un chiaro invito ad usarli quei neuroni che abbiamo in dotazione, per “alzare il livello di consapevolezza della gente sulle cose che limitano il potere di scelta; fra queste cose, anche i fenomeni linguistici”. 

Il libro insomma non indulge in alcun modo al pessimismo, ma anzi spiega, incalza, propone possibili soluzioni: del resto quale migliore rivincita possiamo prenderci sul mago che svelare davvero i suoi trucchi? (almeno prima che possa idearne altri).

 

Viaggio nel corpo. La commedia erotica nel cinema italiano

 

consigliato

Viaggio nel corpo. La commedia erotica nel cinema italiano



Autore: Giuseppe Turroni; editore: Cue Press.

Questo libro ha l’indubbio merito di riportare all’attenzione del lettore un testo sepolto, indisponibile anche per un ostinato bibliofilo. Però sarebbe meglio leggerlo cominciando dalla fine. Vediamo di spiegare perché.

Che mondo è quello della commedia erotica italiana?

È un mondo che visto con gli occhi di chi lo descrive alla fine degli anni settanta ha già il sapore della nostalgia.  È una bestia strana la nostalgia, e a giocare al “si stava meglio quando si stava peggio” alla fine ci si può anche scottare: è come un vecchio cane pulcioso e incimurrito che una volta si è cacciato in malo modo e poi ci se ne pente, la nostalgia, perché quelli animaletti moderni col pelo lisciato e il pedigree da passaporto sono a volte piuttosto noiosi nella loro perfezione e pulizia.

Agli occhi del lettore sfogliando il volume si apre una lezione di archeologia erotica. Sì perché onestamente i nostri tempi han ben poco di erotico: sono, come si dice, sessualmente espliciti (e già lì c’è il baco perché il sesso è o dovrebbe essere gioco, mistero e intimità tutta implicita), ma scarsamente sexy.  E infatti sublimiamo, altroché se sublimiamo: sbaviamo per un paio di scarpe, fischiamo come Mastroianni per una confezione sgargiante o un manicaretto vegano, deliriamo per una sequenza innovativa di bit.

E Turroni ci fa eco dagli anni settanta” Si dice da più parti…che non è mai esistita epoca-sotto qualsiasi cielo politico- più repressa sessualmente della nostra. La quantità enorme di materiali erotici e pornografici, di immagini fotografiche e filmiche, starebbe a testimoniare questa mancanza di verità, questo eluso, e oramai compromesso e alienato, rapporto di identità dell’uomo moderno con la natura del sesso…” e dovevano ancora venire guerre, crisi globali, pandemie, crisi economiche, pornografia in rete (dove il sesso fa sempre più rima con sterilità rituale, violenza e ginnastica invece che con piacere e bellezza) ed ecodisastri a turbare i nostri sonni.

E quindi ecco squadernarsi un mondo di giovannone cosce lunghe, che anche Veltroni sdoganò forse un po’ sommariamente negli anni novanta per aver “aiutato a sconfiggere risorgenti integralismi bacchettoni e a dislocare verso equilibri più avanzati il comune senso del pudore”, e che oggi programmi seguitissimi narrano con toni epici ed inutilmente celebrativi quasi che ormai glutei e mammelle raffigurati in tutte le pose brillassero più dello scudo di Achille nell’Iliade. Il tutto viene qui descritto più realisticamente per quello che probabilmente in realtà è, ma con molta rispettosa e interessante profondità di analisi.

Ricapitolando, non si tratta di arte e retroterra letterario perché “tornando alla nostra commedia erotica, c’è da dire che nessun brivido intellettuale l’ha mai toccata”. O se è successo, ce ne si pente ancora, basta pensare al delirio decamerotico che seguì “Il decameron” di Pier Paolo Pasolini del 1971, tra cui non si può non citare per la manifesta creatività del titolo il “Decameron proibitissimo, meglio noto come “Boccaccio mio statte zitto”.  

Insomma dietro queste fatone cremose che non ci fanno neanche più tanto effetto e ci sembrano ormai innocue e bonarie Susanna tutta panna, non si nasconde nessun intento artistico e nessuna sperimentazione, anche perché al tempo tra gli addetti ai lavori vi era scarsa preparazione culturale e anche “scarsa preparazione per quanto concerne le materie visive e figurative”, ma tanta voglia di ridere e tanta genuinità, figlie di un retroterra culturale ancora da costruire ma anche di una società molto, di gran lunga, più ottimista della nostra e dotata anche di grande intuito cinematografico.

In termini industriali paragonare l’erotismo di allora con quello (se c’è) di oggi sarebbe come confrontare il correre impetuoso di un industriale positivista come Edison con l’ansimare di un depresso e scoraggiato startupper dei nostri giorni.

Se ne conclude che negli anni settanta non tutto era ancora virtuale e almeno la commedia erotica garantiva il contatto “con il corpo vivo della pagina e del film”. Quindi niente Pasolini, niente Fellini e Giulietta degli Spiriti, niente sperimentalismi anglosassoni, ma un sano fatto di costume e storico, questa è la tesi di fondo del libro: se nelle commedie rosa, nelle commedie dei telefoni bianchi del nostro cinema anni Trenta e Quaranta ci si fermava alle porte della camera da letto, negli anni settanta ci si entrava a passo di carica. Ma non per consumare in fondo, perché a ben vedere questo non accadeva mai, ma piuttosto per farsi una risata a spese di tanti deficienti e macchiette, e forse anche per conquistarsi un po’ di poesia, se uscendo dalle sale si pensava al corpo lunare e candido della Fenech che “campeggia su quelli grigi, bruni, foschi e storti della truppa”.

Ma alla fine a ben vedere nei secoli passati non è stato sempre così? la vera letteratura erotica fa da prodromo a quella commedia e si spoglia da orpelli letterari perché doveva essere immediata, ma anche moderatamente macchiettistica e anche un po’ rivoluzionaria, doveva assecondare la rapidità del piacere proibito che il lettore si voleva attraverso essa garantire. Doveva in altre parole tener d’occhio il piacere del lettore e la credibilità del racconto ma anche la cornice sociale “la geografia politica della cornice entro la quale il quadro si muove, si svolge, prolifera e. eroticamente, si verifica”. Ed è così nel diciassettesimo, diciottesimo e diciannovesimo secolo, da Prevost e Casanova, da de Sade a Voltaire.

E infatti i registi e gli interpreti nostrani erano ottimi osservatori, spesso dotati di geniali intuizioni, capaci di pierinate grossolane ma anche di battute passate nel linguaggio popolare e di interpretazioni che contagiarono anche i registi stranieri (Pippo Franco ad esempio non è solo quello dell’Ubalda o della Giovannona nostrane, ma anche l’eccellente Matarazzo di “Avanti!”, commedia di Billy Wilder).

E questo il cinema “detto pornografico non ce lo darà mai, perché è materia grezza, vuoto, arida, senza fantasia e senza amore”.

Perché iniziare il libro dal fondo, come si diceva all’inizio? Perchè tutte queste interessanti ma dotte considerazioni potrebbero indurci a trascurare per stanchezza il bel repertorio iconografico che, come un viaggio nella nostalgia dedicato a chi vuol scoprire cosa unisce Proietti, la Fenech, Massimo Ranieri e Jodie Foster, anima la parte finale del volume, da Il sole negli occhi del ’53 al Candido Erotico del 1978. E la nostra libido, crediamo, ne risentirebbe ulteriormente.

 

La vita di Ian Fleming, creatore di James Bond

 

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La vita di Ian Fleming, creatore di James Bond



Autore: John Pearson; editore: Ghibli; pagine: 359

La clonazione umana in letteratura è una realtà da tempo, senza bisogno di provette e laboratori.

Se si guarda al binomio Ian Fleming/ James Bond, ce ne si può accertare oltre ogni ragionevole dubbio.

James Bond nacque a Goldeneye la mattina del terzo martedì di gennaio 1952, quando Fleming aveva appena finito di fare colazione e gli restavano ancora dieci settimane dei suoi quarantatrè anni di celibato

Questa rivelazione arriva dopo circa duecento pagine di fantastica lettura, piene di ironia, che offrono uno spaccato di certa società inglese (senza dubbio quella più ricca e privilegiata) e di molti personaggi famosi veramente interessante di per sé. In questo scenario Fleming dipana la sua vita: non avventurosa di per sé ma baroccamente colma di ogni tipo di passione, interesse e svago che la mente umana e le possibilità del tempo potessero concepire. Si potrebbe dire che per quei quarantatrè anni biologicamente Fleming sia stato l’ospite e Bond il simbionte che di lui nascostamente si nutriva, il commensale silenzioso cui inconsciamente prima e razionalmente poi, il primo affidava la reificazione di tutti i sui sogni.

Anche i paracarri sanno che Fleming prese il nome James Bond da quello dell’autore della monografia “Uccelli delle Indie occidentali” ma pochi invece, senza leggere questo volume potrebbero immaginarsi quale autentico ladro di nomi fosse il nostro autore: non c’è amico, conoscente e collega di lavoro che possa dirsi davvero risparmiato. Ma sono “ombre con un nome”: il protagonista è, deve essere, uno solo. “A parte Le Chiffre, M. (come curiosamente Fleming chiamava la madre il che la dice lunga su tante cose), e Vesper Lynd, le figure secondarie di Casinò Royal sono semplici ombre senza un nome. Rimane da citare tra i protagonisti lo stesso Fleming, dal momento che in questo libro James Bond non è un personaggio vero e proprio, ma un portavoce dell’uomo che è dentro di lui, un manichino per appendervi gli abiti, un fantoccio che attua i sogni di violenza e di coraggio del suo creatore”.

Tutto questo fa venire in mente Pessoa, ma qui non si tratta tanto di eteronimi e il paragone più calzante è a parer nostro con Emile Zola ed il suo alter ego letterario creato per il romanzo “L’opera” ovvero Sandoz, un amico del protagonista Claude. Sandoz lo scrittore che si propone di “Studiare l’uomo così com’è” e poi dice “D’altra parte metterò i miei pupazzi in un periodo storico determinato, per disporre dell’ambiente e delle circostanze, un brano di storia… Eh? Capisci, una serie di libretti, quindici, venti episodi che saranno connessi pur avendo ciascuno una propria autonomia, una serie di romanzi che mi procureranno una casa per la vecchiaia, sempre che non mi distruggano».  Qui si scorge il disegno di Zola sul ciclo Rougon-Macquart ma sicuramente anche quello di Fleming, che da Bond voleva fama e quattrini, una vera “Cascata di diamanti, che nonostante l’appartenenza ad una famiglia ricca, le dinamiche testamentarie avverse e il suo essere una sorta di pecora nera non gli avevano mai garantito.

Anche Zola poi era uno scrittore che i nomi li prendeva in giro dove capitava e famosa è la storia del “furto” da lui subito del nome Bouvard. Flaubert aveva da tempo trovato quello di Pécuchet. Pécuchet, era un banchiere di Rouen, ma mancava il nome del suo amico. Quando Émile Zola gli parlò del suo romanzo e del nome che aveva pensato Flaubert non ebbe pace fino a quando non lo convinse a cederglielo per affiancarlo a quello di Pécuchet minacciando, in caso contrario, di cestinare il suo libro.

In una intervista di qualche anno fa, Ian McEwan diceva che per scrivere il suo “Miele” aveva fatto i conti con la lunga e magnifica tradizione tutta inglese della spy story, quella di uno scrittore fantastico come Somerset Maugham, ma anche quella di John Le Carrè, Len Deighton, Graham Greene e naturalmente, di Ian Fleming.  Il protagonista maschile del suo romanzo, afferma ad un certo punto che la sua storia di spionaggio preferita è l’operazione Mincemeat (Carne Tritata). Ora, questa operazione fu ideata proprio da un giovane comandante della Marina inglese che, dice McEwan “ Si chiamava Ian Fleming e si era ispirato alla trama di un romanzo, The Millner’s Hat Mistery”.

Il libro che recensiamo è pieno di queste storie, di episodi anche storicamente importanti, cui Fleming, indirettamente o direttamente, ha preso parte. Stranamente, c’è da dire (e lo dice lo stesso autore) senza che gli venissero riconosciuti particolari meriti ed onori (che a volte avrebbe di certo meritato). Non si individua un perché preciso di questo stato di cose, ma sta di fatto che mentre i suoi colleghi in Marina ebbero onori pubblici di vario tipo, lui alla fine della guerra ebbe solo un modesto riconoscimento dal governo danese. Proprio come nella sua famiglia, all’interno dell’ambiente lavorativo, nelle redazioni dei giornali di cui fece parte, era sempre percepito come un oggetto estraneo.  È proprio di questo senso profondo di rivalsa che probabilmente Bond, dentro Fleming, si nutrì fino, letteralmente, ad esplodergli fuori.

Ma comunque, riprendendo ancora McEwan, è indubbio che Fleming faccia parte del novero di quei mostri sacri che “non scrivevano solo di spie, erano spie. Avevano lavorato per l’intelligence, per agenzie come l’MI5”

E molti di quei mostri sacri, aggiungendovi Simenon e anche Raymond Chandler, per cui ebbe una vera e propria devozione, Fleming conobbe e frequentò intensamente, con episodi descritti nel libro di grande interesse storico e letterario. Proprio con l’autore di Philip Marlowe, che agisce nella Los Angeles degli anni ’30, i paralleli letterari e connessi al successo (non immediato, e peraltro fortemente determinato e poi per certi versi schiacciato dal mondo delle sceneggiature cinematografiche, mondo con cui dovette dolorosamente misurarsi anche Fleming) ci sono molti paralleli, anche se i caratteri e le traiettorie di vita dei due scrittori non potevano essere più diversi.

Insomma il libro è assolutamente da leggere, ci sono retroscena su cose che fanno parte del nostro immaginario veramente gustosi: vi ricordate la botola che si apre sul viso di Anita Ekberg in un gigantesco manifesto pubblicitario a Istanbul? Darko uccide grazie a quella botola il capo dei bulgari. Fleming prende l’idea proprio scrivendo a Somerset Maugham “I nostri cartelloni di sette metri per sette basterebbero a ricoprire i muri esterni della tua villa e mi diverte l’idea di te e Alan che emergete dalle sue labbra: …forse me servirò per il mi quarto libro

Fleming alla fine ebbe successo: ma tardi, quando il suo cuore si era fatto debole, di vetro.

Triste e malinconica la sua fine: si potrebbe dire che purtroppo, vuoi per carattere, vuoi per una cattiva gestione delle ricadute finanziarie e personali del successo del suo personaggio, fu il cinema ad appropriarsene e a rubarlo alla letteratura. Ian Fleming muore. Non vide mai il film “Agente 007 missione Goldfinger” e la vita “Lo aveva ancora una volta giocato, privandolo di ciò che gli stava più a cuore, mentre James Bond uccideva finalmente la sua prima ed unica vittima in carne ed ossa”. Lui stesso, perché Bond, diventato da personaggio letterario un mito mondiale non aveva più alcun bisogno del suo antico e imperfetto ospite.

La teoria dei paesi vuoti

 

da non perdere



Autore: Mauro Datin; editore: Ediciclo; pagine: 142

I villaggi dei camini spenti.

Con questa bellissima metafora, qualche anno fa il cronista e impareggiabile scrittore trentino Alberto Folgheraiter ha toccato l’apice della sua opera. Il sottotitolo del libro parla di periferie del terzo millennio, e si riferiva ai molti villaggi fantasma che popolano lo Stivale, baluardi (sguarniti) di una civiltà contadina che sta precipitando verso la totale estinzione.

Quella stessa istantanea la ritroviamo restituita all’immaginazione recentemente nella raccolta di racconti “Dolceamaro”, edita per Emersioni, dove sembra di vedere cosa succede ad un paese dove i negozi chiudono, i balconi si scrostano, la piazza si ammutolisce e infine i fuochi dei camini si spengono.” Passarono davanti agli abituri di un villaggio abbandonato dove i camini dormivano da anni e le finestre si perdevano ormai tra i muri come occhi sbarrati da cataratte. Gli ultimi abitanti sopravvissuti alla conta dei fuochi, vecchi silenziosi, se li erano presi in parti uguali la morte e un ospizio di una città lontana. “Non aver paura di restare”, gli disse la mano, mentre sostavano a contemplare i ruderi. “Il tuo regno, o Re, ora è caduto come è successo per tutti gli altri” Si sentì chiedere come era successo, per mano di chi, e gli fu risposto che le mura non erano cadute per mano d’uomo né sotto i colpi degli orsi usciti dalla foresta, ma si erano sbriciolate quando il bosco un giorno era entrato dalle porte e dalle finestre

Forse in Folgheraiter c’era una vena di maggiore ottimismo, quando si fermava a parlare con gli anziani o per esempio quando nelle pagine del libro si rivivono antichi usi e costumi. Nel libro di Mauro Daltin questo vago ottimismo è quasi del tutto scomparso.  Però c’è molta attenzione e rispetto, sintetizzati da una felicissima espressione, in quell’”abbassare la voce” che si fa quando ci si trova tra le rovine proprio come in chiesa.

In questo bel libro ci si interessa ai villaggi abbandonati alla “loro epifania, la loro epopea e la loro scomparsa definitiva”.  E non ci limita ad una regione, ma, pur concentrandosi in massima parte sull’Italia, si rileva come il problema sia globale. Esistono le grandi dorsali dei trasporti e delle comunicazioni, e ciò che ne è fuori, nel mondo, rischia una breve e infelice estinzione. L’estinzione nel libro appare più triste e spietata della guerra, ed è descritta per quello che in effetti rappresenta: come per le persone, l’odio distruttivo è perfino preferibile all’indifferenza. Le macerie forse si ricostruiscono, le rovine fluttuano per sempre nel vuoto e nell’oblio. 

Questo libro è un libro fotografico in cui non c’è neanche un’immagine, ma un incipit come “l’Italia è un paese pieno di orologi fermi…Le lancette della chiesa di Sant’Eusanio, vicino l’Aquila, si sono bloccate alle 3.32 …a Castelpoto in provincia di Benevento, paese vuoto dopo i terremoti del 1962 e del 1980, quello del Palazzo Ducale si è arrestato alle 4.50. Ad Amatrice l’orologio del campanile è rimasto fermo alle 3.36” vale qualche milione di pixel. E ce ne sono molte di immagini così riuscite nel testo.

Di queste Atlantidi ce ne sono tante, centinaia, si diceva. Ci sono quelle sommerse. L’ultima volta che il lago di Vagli, in provincia di Lucca, è stato svuotato per i lavori di manutenzione della diga, io c’ero.  Fa un effetto strano vedere riaffiorare un paese sommerso: è una macchina del tempo, si, ma triste, incompleta, senza persone. Non è un set cinematografico alla “Ritorno al futuro”.  In chi vede e fotografa, non si sa quanto ci sia di interesse storico o di curiosità morbosa, cioè la stessa pulsione sotterranea che spinge taluni a farsi un selfie sul luogo di un disastro.  Certo è che per far posto a dighe e sviluppo, tante comunità nel Novecento sono state sradicate in cambio di un tozzo di pane, o talvolta nemmeno quello. Si potrebbe dire in questo senso che il Novecento è un secolo che ha tentato, spesso con tragico successo, di sradicarsi da tutto, compreso il corso dei secoli precedenti. Belle le pagine dedicate a Gena, nel Parco delle Dolomiti Bellunesi, in cui il merito è ancora maggiore per aver menzionato uno scrittore esso stesso “sommerso” alla memoria del grande pubblico, ovvero Luigi Meneghello, l’autore per intenderci di Libera nos a Malo.

Ma ci sono anche i Paesi che non dallo sviluppo, ma per lo sviluppo sono morte, e tra tutte il sogno grottesco e poi lo scempio di Consonno, in Brianza, la dicono lunga.  O i villaggi nati e morti attorno a miniere esaurite. In Bolivia, in Sardegna.

Poi c’è la guerra e i suoi massacri che falcia per sempre uomini e mura, come accadde ad Oradour-sur-Glane, paese colpevole solo di essere il primo che le SS si trovarono davanti in cerca del bersaglio di una rivoltante rappresaglia.

I dati riportati dal libro parlano di seimila paesi fantasma solo in Italia. Seimila, quindicimila negli Stati Uniti, alcun in Canada dove il ciclo di vita è più accelerato visto che in qualche caso nei paesi abbandonati non si è fatto a tempo nemmeno a costruire un Cimitero, allora evidentemente ci sono tanti altri tipi di decadenza, tanti altri tipi di oblio che non siano dovuti alla sommersione, all’intervento diretto dell’uomo. Per esempio quelli abbandonati per via dei disastri naturali, come il terremoto “la mia prima frattura, il mio primo orologio fermo è quello delle 21.03 del 6 Maggio 1976” “nacqui trentacinque settimane dopo, il giorno di Santo Stefano…Figlio del terremoto, così mi chiamavano le maestre delle elementari perché non riuscivo a stare fermo tra i banchi…”. Le pagine che l’autore dedica alla sua storia e alla storia di Portis, la Portis vecchia e poi di rimando quella nuova, quella “piena” perché ricostruita dopo quei fatti tremendi che hanno sconvolto le vite presenti (e future) di tanti, sono tra le più intense e piene di verità e sottintesi, di grandi spunti di riflessione sul futuro che vogliamo dare a questo Paese.

L’autore cita Malborghetto, Pontebba, Chiusaforte e allora non resistiamo ad unire agli autori citati dal volume, quali Meneghello e Buzzati anche uno più recente, quale il Pierluigi Cappello che viveva a Tricesimo in una delle baracche offerte dal governo austriaco ai terremotati e del suo territorio e proprio di Chiusaforte dove “è nevicato, nevica sempre/ e le fontane sono ghiacciate” ha spesso cantato.

Ma secondo noi si potrebbe andare avanti con la Chia, paese abbandonato chimera di Pasolini o andando con la mente ai “paesi più vecchi più stanchi/in cima/ al levante delle disgrazie”di una bella poesia del 1964 di Franco Costabile. Il lettore potrebbe divertirsi assai in questo gioco di rimandi tra letteratura, storia e cronaca.

E c’è spesso la nostra anima in quei posti abbandonati, come ci potrebbe essere il nostro futuro se solo, come suggerisce il libro, non ci fermassimo alla superficie di un territorio come sovente facciamo davanti alle porte della storia, e diventassimo più consapevoli del nostro passato; per esempio accettandolo, e trasformando le rovine in laboratori capaci di indirizzare più felicemente il nostro presente.

 

Cyber war. La guerra prossima ventura

 

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Cyber war. La guerra prossima ventura



Autori: Aldo Giannuli, Alessandro Curioni; editore: Mimesis; pagine: 111

Il cavaliere Agilulfo secondo Calvino dentro l’armatura non c’era proprio. C’era solo per eseguire i protocolli previsti dalla cavalleria: in modo preciso, asettico, inesorabile. 

Oggi ci manca tanto Calvino perché ci aveva visto evidentemente giusto: nelle dinamiche della Rete, plasmata da protocolli e algoritmi, tutto sta diventando inesistente, come una spiaggia popolata da belle conchiglie.

Tanti bei gusci, architetture ed ecosistemi informatici ambiziosi, ma a volte pochi contenuti, tanti rischi e soprattutto fondamenta poco salde.

Se quindi tutto sembra rarefarsi non ci deve stupire che anche la guerra oggigiorno, al tempo stesso, ci sia e non ci sia.

Nel libro di Giannuli e Curioni vi sono molti pregi e qualche difetto, ma i primi superano abbondantemente i secondi.

Un primo pregio è che il libro è breve e scritto in uno stile molto chiaro e scorrevole, con capacità: non sembri una boutade, ma negli ultimi anni i saggi si tendono a pubblicare un tanto al chilo come i noir, perché si confondono qualità e spessore o perché gli stessi spesso nascono sulle fondamenta di tesi e ricerche universitarie e, nel dispiegamento di tanta sapienza, ci si scorda completamente degli interessi del lettore. Sono davvero molto apprezzabili sia il glossario, che libera il lettore da molte approssimazioni giornalistiche ad effetto che ruotano attorno al termine cyber (ad esempio i concetti di information warfare e cyber warfare, molto ben spiegati) sia le letture consigliate (tra tutti il Tallin Manual che dovrebbe essere decisamente più conosciuto al grande pubblico).

Insomma qui lo spessore c’è eccome, ed è tutto in una frase: “Se il nemico non sa di essere attaccato non si difenderà…centinaia di piccole operazioni cibernetiche potrebbero essere inquadrate solo posteriori in un conflitto .in caso di successo, l’artefice del piano saprebbe di aver vinto, ma controparte non si renderebbe conto di aver perso” Un Sun Tzu in versione binaria, si direbbe.

Ora, partendo dal concetto stesso di guerra digitale, nel libro si trattano vari temi, che gli autori provano a dipanare. Innanzitutto il concetto di guerra, sempre più asimmetrica e priva dei confini, slegato da termini obsoleti come “campo di battaglia” e “teatro delle operazioni”, con cui invece siamo ancora abituati a pensarla. La guerra cibernetica è dovunque e in nessun luogo allo stesso tempo, è una guerra asimmetrica, dove infrastruttura, comunicazione, informazione contano assai più di concetti come esercito, arma, battaglia, potenza. Insomma una visione polemologica alla Montecuccoli, autore giustamente richiamato dagli autori in quanto fra i primi rimarcò questi aspetti assai poco considerati nel Seicento come determinanti per vincere una guerra.

Di questi concetti dovremo gioco forza sempre più tenere conto: può sembrare un tema che non ci tocca, ma provate ad immaginare cosa vorrebbe dire rimanere senza luce, acqua e trasporti per qualche settimana. Ripiomberemmo dritti dritti nel Medio Evo con la sola differenza che non avremmo nemmeno il tempo di riaprire i conventi e tirare sui ponti levatoi (anche perché questi ultimi sarebbero certamente a loro volta comandati da dei computer),

Ma la guerra cibernetica è anche una sorta di esperimento, condotto da organizzazioni e forse anche da interi stati, così, come nella nota canzone di Jannacci, tanto “per vedere di nascosto l’effetto che fa” e da cui forse siamo già stati più volte colpiti (alzi la mano chi non conosce qualcuno che non sia stato colpito dal virus WannaCry o sue varianti, tema a cui il libro dedica alcune pagine davvero gradevoli e ricche di riflessioni). Tutte le principali potenze sono interessate a combattere questa guerra, o meglio, a vedere quanto sia effettivamente possibile combatterla. Infatti il tema di fondo che il libro sottolinea, fornendo possibili risposte connesse allo stato attuale dell’arte, è proprio questo: una volta aperto il vaso di Pandora, come si può essere sicuri che l’attacco informatico non si ritorca contro l’assalitore?

Montecuccoli diceva di attaccare solo dove il nemico e più debole, e i virus si comportano proprio come lui suggeriva: e qui sono singolari e dense di riflessioni i passi dedicati dal volume a individuare cosa sia una debolezza informatica e come la si individui. E non si intendono le classiche situazioni stereotipate da film americano sugli hacker che irridono le falle lasciate in un codice da programmatori sprovveduti.  Certo anche quelle, ma In chi scrive, e supponiamo anche in chi, come molti, sia spinto ogni giorno dalla pressione competitiva a chiedersi come fare prima a e meglio a progettare e portare un prodotto sul mercato, fa specie appurare che in massima parte le falle su cui si fa conto per procurare i danni informatici più spaventosi (sette su dieci) sono dovuti ad errori di progettazione e sull’hardware, e non di programmazione. Insomma, il consumatore deve avere tutto e subito, e la progettazione deve essere compressa, come le spese in sicurezza (efficace la similitudine adottata con l’ipotetico taglio dei crash test in campo automobilistico).

Ultimo tema, singolare ma ben vero: come ci accorgiamo che la guerra è finita e soprattutto, come ripristinare le condizioni originarie? La cosa, in termini informatici, non è così semplice e scontata o per meglio dire logica, come lo è ricostruire un ponte dopo che è stato bombardato: lo sa bene chi nelle aziende si confronta quotidianamente con problematiche di continuità operativa e disaster recovery.

Le pecche del libro stanno invece nelle pagine introduttive, davvero troppo compresse e semplicistiche nel descrivere certi passaggi storici anche se funzionali a introdurre al lettore nella catena di eventi che ci ha condotto dove siamo, e soprattutto nei due racconti finali, poco chiari e fuori contesto, di cui si poteva davvero fare a meno: ma il libro è come una buona grappa e una volta rettificata privandola della testa e della coda il risultato è assai gradevole.

 

Il custode degli abissi

 

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Il custode degli abissi



Autore: Pietro Spirito; editore: Edicicio; pagine: 92

L’autore di un libro è sempre, per definizione, custode di segreti.

È lui che ha generato quelle parole, tessuto quelle righe, ordito quelle pagine. E più ancora se quelle storie sono state dal medesimo realmente vissute.  Ma l’autore, se avveduto, non fa mai pesare sul lettore questo vantaggio; lo usa sì, ma con genuina passione e grande discrezione.

Così fa Pietro Spirito, scrivendo memorie di un sottosuolo liquido e imprevedibile, portando il lettore a spasso per la laguna di Grado, quasi caricandoselo sulle spalle mentre ne esplora “in diretta” i fondali alla ricerca di relitti o meglio ancora, di storie. Riduciamo per un attimo l’avventura a statistica “immaginando tutti i traffici marittimi (solo nel Golfo di Trieste) e il tempo trascorso dall’epoca degli antichi romani a oggi… e ipotizzando…diciamo un naufragio l’anno, potremmo azzardare che solo in questo minuscolo spicchi di Mediterraneo, in cima all’Adriatico, il fondo del mare nasconda forse duemila relitti, duemila evidenze di altrettanti passaggi dell’uomo su questa superficie d’acqua”.  Allora c’è davvero e ancora spazio per tutti, per sognare e ricordare. Non è vero ciò che diciamo, sommersi dal pessimismo, che tutto è stato fatto, che tutto è stato scoperto.

I naufragi del tempo sono misteriosi. Sembra leggendo il libro che naufragi e naufraghi siano stati in passato dipinti a tinte troppo fosche: una nave che ha fatto naufragio ha rotto sì un equilibrio, ma il relitto acquisisce valore proprio da questa trasmutazione, anzi “è il segno di questa trasformazione”. Insomma ad un equilibrio se ne sostituisce un altro regolato dalle leggi degli abissi marini.

Attraverso il relitto, recuperato alla storia come fa l’autore e con lui altre persone, “naufrologi” la cui peculiare storia di vita egli racconta, la nave recupera l’orientamento e la sua esistenza, torna in porto da quel mondo fluttuante e lunare con il suo carico di fantasmi. E anche loro, i fantasmi, riacquistano poco alla volta i tratti nitidi di uomini.  Uomini straziati dall’impatto con le mine, come i passeggeri del Baron Gautsch, il 13 agosto 1914, le prime vittime civili della Grande Guerra, o dalle cannonate, come il Mercurio, brigantino del Regno Italico affondato dagli inglesi.

Del resto l’autore scrive da Trieste, e allora non possono che venire in mente i versi dell’Ulisse di Saba dove la “Brama/ pallida sognatrice di naufragi” questa volta è forse il desiderio profondo che c’è in ogni uomo di conoscere il passato, di dargli un nome e un volto, tirandolo fuori, anche con la forza, dalla memoria, come si fa strappando alle acque un relitto, un tesoro sommerso. Troviamo che questa ricerca sia prima di tutto una forma di amore per l’uomo e la storia. Nel libro quella brama c’è davvero, e si sente.

Ma il libro, come ogni buon testo, è anche imprevedibile. E proprio quando siamo fermi sul pelo dell’acqua ci fa alzare la testa: anche gli aerei naufragano. Anche le fortezze volanti, i B 24 che battevano con gigantesche bombe le città italiane partendo dall’aeroporto di Grottaglie durante la Seconda Guerra Mondiale: quella sorte toccò nell’Inverno del 1945 all’aereo pilotato dal militare americano Howard Hanson. E la storia di quel relitto, di quei corpi pazientemente cercati e pietosamente affidati alla cura dei loro cari dopo tanto tempo, riempie di emozione le pagine del volume Questa storia prova l’autentico e incondizionato amore di scrive per i naufragi del tempo, visto che è, potrebbe essere, legata al vissuto dell’autore, in un modo che non vogliamo svelare. Starà al lettore interessato sondare quell’abisso.

Si perché il testo induce a pensare che il mare alla fine, democraticamente, non fa differenze, è una livella, e ciò che resta sui fondali accanto ai relitti della storia sono prima di tutto uomini, le cui eventuali colpe l’acqua ha dissolto. Essi portano tutti un tesoro e per trovarlo occorre decifrare, con pazienza, le mappe della loro vita.

 

Quadri di un’esposizione

 

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Quadri di un’esposizione


Autore: Leonardo Colletti; Editore: Lindau; pagine: 304; categoria: Arte, architettura e fotografia

In Italia c’è decisamente bisogno di scienza. Dovrebbe essere distribuita a tutti in tutte le stagioni, come i panini alle infinite sagre che ormai punteggiano anzi infestano la Penisola.

La buona scienza la si costruisce a partire dalla scuola, avvicinando e interessando gli studenti con una buona divulgazione. Ora, questa “buona” divulgazione latita, è spesso focalizzata solo su alcuni argomenti modaioli, tipo i pesanti tomi che circolano sui paradossi temporali e i buchi neri (e si stenta a capire come si possa afferrare il senso profondo delle dissertazioni su questi ultimi, lette tra un tè e un tramezzino come l’ultimo giallista svedese, se poi non si conosce un’acca di Galileo e Newton e non si hanno basi elementari di matematica), o è tradotta (a volte malamente) da libri concepiti oltre oceano. Non vogliamo lamentarci ma spesso è così.

Quindi ben vengano i tentativi prodotti anche in Italia di avvicinare alla fisica dei lettori (giovani ma anche meno giovani) attraverso approcci nostrani, anche piuttosto originali, ovvero per esempio attraverso l’analisi dei capolavori pittorici di un immaginario museo. Il volume, intitolato “Quadri di un’esposizione” condivide il titolo con una famosa suite di Modest Musorgskij, composta a suo tempo proprio a seguito di suggestioni derivanti dalla visita ad una mostra.

L’immagine del resto è una potente leva di comprensione e sintesi, una leva in grado stavolta non di sollevare il mondo, per dirla con Archimede, ma più modestamente quantomeno di sollevare l’interesse di lettori giovani che poi sono anche gli utenti delle scuole superiori. L’autore dice che l’idea gli è venuta proprio “preparando per un corso di storia della fisica una serie di diapositive su cui fissare gli spunti principali del discorso”. Ottima cosa, troviamo. Quando si produce un PowerPoint per finalità didattiche, si cerca sempre di imporsi mentalmente la stessa regola: la prima slide è un’immagine, deve essere un’immagine che riassuma i concetti che vogliamo esprimere nella successiva carrellata di slides. L’ultima slide, in genere è invece una conclusione, l’estrema sintesi, stavolta discorsiva, di ciò che si è tentato di spiegare con quei testi e con quella immagine iniziale. I veri docenti vogliono infatti sempre farsi capire, lasciare un segno in chi ascolta. E questo libro un segno lo lascia.

Nelle scuole in molti casi, e lo sa certamente bene l’autore che è docente, la fisica ricade in categorie e descrizioni aride e nozionistiche di tipo qualitativo e la materia non si ama perché risulta confinata ad un ruolo coreografico da comprimaria come la sua omonima materia curriculare che inizia per Educazione. Eppure tutte e due, la Fisica e l’Educazione Fisica, se ben praticate sarebbero ottime ginnastiche e stimoli per il muscolo cerebrale.

Il libro è un racconto che procede per accostamenti scritto da chi di certo ama e sa far amare la sua materia di studi: “galeotta fu la fisica” si potrebbe dire, visto che la complessa matassa si dipana immaginando un dialogo tra due giovani che si chiamano proprio Paolo e Francesca, legati da una profonda amicizia e dalla passione per due diversi ma, sembra, non così distanti campi del sapere, l’arte e la fisica. L’amore galeotto sta tutto nello sforzo di tradurre l’uno la propria passione nel linguaggio dell’altro.

Si spazia da Magritte a Murillo, e contemporaneamente da Galileo a Boltzmann, con notevole competenza e, maggiore ancora, fantasia: bello il Monet utilizzato per illustrare il concetto delle “buche di potenziale” e il Balla utilizzato per introdurre il principio di indeterminazione di Heisenberg. Le opere sono allo specchio: i protagonisti del racconto le guardano come opere d’arte ma poi indossano degli strani occhiali speciali, come una volta si faceva al cinema, che li portano a scrutare oltre la tela in modo quasi tridimensionale. Ed ecco che l’opera si riduce a metafora pittorica di un concetto fisico.

Tuttavia il volume è qualche volta vittima del dover compiere un doppio salto mortale: la divulgazione scientifica è già di per sé un’arte complessa e il dialogo in un racconto è una pratica ancor più difficile, molto difficile. Il libro a tratti ci si perde, arranca e si dilunga in dialoghi dai contenuti certo interessanti ma a volte decisamente un po’ improbabili e poco realistici come quando Paolo dice a Francesca “Nel caso del campo elettromagnetico queste quantità sono i quanti di luce, detti anche fotoni. Nel caso dell’interazione nucleare forte e debole sono, rispettivamente, i gluoni e le particelle W+- e Z°.”  Non restituisce certo l’idea di un dialogo tra due giovani.

Sarebbe perciò assai utile proseguire questo esperimento, ma in forme forse riviste in un senso un po’ più agile e comunicativo data anche l’ampiezza e l’ambizione con cui è costruito il testo: precisamente, come si diceva all’inizio a proposito della presentazione PowerPoint, unendo di quando in quando in forma schematica conclusioni e sintesi al fluire di racconto e immagini.

 

L’ incantevole sirena

 

da non perdere



Autore: Francesco Palmieri; editore: Giunti; pagine: 372

Ogni città ha la sua propria forza di gravità. Attraverso di essa è in grado di attrarre e trattenere una quantità di storie.  Napoli anche in forza della sua peculiare geologia, un complesso arcipelago verticale fatto di cavità e sotterranei in cui la storia non si fossilizza ma si inabissa come in una bolla d’aria nell’ambra isolandosi e mantenendosi viva e vegeta, ne è indubbiamente più dotata di altre.

Di questo ci si convince leggendo questo volume cui va stretta ogni tipo di collocazione. Personalmente, la vedo come una cronaca. Sì, perché se in effetti si può dire di conoscere una città solo quando ci si consumano a dovere le suole delle scarpe, questa è la narrazione di una lunga passeggiata: e poco importa se ci si muova nello spazio (e non solo, anzi meno, quello orizzontale) o nel tempo.

La Napoli-Partenope non ha alfa né omega: non si vede da dove viene, non è scritto dove va. Ma interseca in tutte le altre caselle storia, letteratura, costume, musica, cronaca e lo fa in un modo tutto suo. È relativamente facile e strada già esplorata quando si scrive di Napoli, accumulare leggende, oppure intraprendere una operazione che ammicca al puro folklore, piena di stereotipi e di humor stantio da pellicola di “serie C”. O peggio, scadere nell’esaltazione di aspetti violenti e deteriori che denotano solo una sconfortante e antiestetica pochezza di idee, cosa che ultimamente va molto di moda. Il libro non offre queste cose, perché si muove bene sulla cresta dell’onda senza cader preda di quelle forze distruttive. Del resto non c’è bisogno di caricare a tinte forti alcun tratto nel dipinto, basta solo dar voce alla città, e lo sa bene l’autore quando dice che “C’è nella violenza della città un tratto onirico che non la stempera, ma la fomenta. Una parete fragile che separa gli incubi dalla realtà…”

Prendiamo il capitolo sulla vita sognata, che descrive sapientemente non una “città dei sogni” ma certo una “città del sogno” dove il Diavolo ha i suoi grattacapi a farsi riconoscere e trovare un ruolo, visto che con la paura si gioca e ai fantasmi, quando tornano, non si chiude la porta in faccia ma anzi li si accoglie, con senso di ospitalità tutto meridionale, come ospiti inattesi ma tutto sommato graditi. Tutte belle e interessanti le storie sui fantasmi che popolano il libro, come le pagine dedicate a fate e munacielli. L’autore ha ragione a parlarne in esergo del volume, la cosa ci ha fatto riflettere su un fatto di una semplicità disarmante: a quale altra città del mondo se non a Napoli fin dal Seicento si dedicano guide “turistiche” dove ci sono capitoli espressamente dedicate non già a monumenti, personaggio o fatti storici, ma a fantasmi? In questo senso avrebbe meritato almeno una citazione l’Abate Pompeo Sarnelli il quale nella sua celeberrima guida “La vera guida de’ forestieri in Napoli” nel Settecento si sente in dovere di giustificare le molte incursioni spiritiche in Città dicendo “che in molte case in diverse parti del mondo sian rendute inabitabili per somiglianti infestazioni degli Spiriti…è così certo che la pratica Forense della Spagna permette che il conduttore della casa il quale non sapeva di tali inquietudini, possa lasciarla senza pagarne la pigione

Che nel secolo dei lumi (leggete tra tutti il passo “l’illuminismo fa le corna”) nella città che “è giardino d’Italia che è giardino del mondo” vi fosse questa necessità di irrazionale è ben espresso nel volume quando si parla di superstizione e, in maniera assai godibile, di jettatura. Alla fine si trattava di un “compromesso” tra un moto di pensiero che nasceva in ambiti nord europei dove il trionfo della tecnica era tangibile e un’Italia meridionale assai arretrata dove di questo moto rimaneva solo una (potente) idea.

Contraddizioni si diceva, dunque, che poi proseguono nell’Ottocento in una Napoli frustrata dalla storia e lacerata dai tumulti del Risorgimento e dalle storture dell’amministrazione Borbonica in cui si comprende l’esplosiva situazione politica e sociale e il degrado di una città abituata ad essere da sempre una capitale europea che si trovava progressivamente ad essere relegata ai margini di un continente e anche di una nascente nazione. Qui il bersaglio della irrazionalità e della spiritualità strisciante e a volte conclamata non è più l’illuminismo ma il positivismo, controbilanciato da un amore quasi ossessivo per l’esoterismo e le dottrine ermetiche che raggiunge le sue vette in alcuni personaggi ben descritti nel libro, come la medium Eusapia Palladino.

Ma in città nasce anche il noir italiano parallelamente e a volte in modo anticipatorio dei maestri internazionali del genere, da Poe a Doyle, grazie l’opera di scrittori ahimè quasi dimenticati o comunque largamente sconosciuti al grande pubblico, come il napoletano Francesco Mastriani, Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio, Luigi Capuana e molti altri. Non se ne parlerà mai abbastanza e il libro ha il merito di farlo.

Già, letteratura.

Napoli e la parola, Napoli e il racconto. Un connubio con esiti storicamente eccelsi.

Qui non è lo scrittore che adotta una città ma l’esatto contrario, è la metropoli che ingloba chi la racconta, poco importa se in prosa o in versi e canzoni. Leggendo questo libro viene da pensare che forse è il merito è tutto della cabala e del Lotto. Come ci dice l’autore, infatti, il Lotto non nasce a Napoli, ma a Napoli prospera e sembra per alcuni tratti inglobarne tutta la vita sociale come ne scriveva Borges nel suo celeberrimo racconto sul “gioco” di Babilonia.  Per dare i numeri giusti, ci vogliono i sogni, ma i sogni, velati, vanno rivelati: e chi lo fa? Gli “assistiti” “esseri malinconici e di spirito sottile” …marginali, a volte incompresi, malaticci e misteriosi, i cui occhi scuri vedono quello che per altri non c’è, interpretano l’inconscio e “vagano qua e là, senza fermarsi un minuto sullo stesso punto”… non sembra proprio il ritratto di uno scrittore?  E del resto non si legge proprio in questo volume che Leopardi prediligeva la Napoli notturna e, per la disperazione del Ranieri, forse lui stesso si considerava un “assistito” e, nei rioni popolari, “giocava stranamente”?

L’ultima cartolina di viaggio la vogliano dedicare al Cimitero delle Fontanelle, luogo dove davvero l’inconscio si è materializzato e non ha più fatto ritorno nel mondo immateriale. Il luogo è descritto nel volume a più riprese e da diverse angolazioni e dimostra oltre ogni dubbio che i napoletani sposavano certamente le posizioni di Foscolo, in barba all’editto napoleonico di Saint Cloud il quale stabilì che le tombe venissero poste al di fuori delle mura cittadine, e che fossero tutte uguali. Del resto non era la prima volta che Napoli voltava scientemente, sistemicamente, le spalle ad un provvedimento di legge imposto dall’esterno, stabilendo in questo caso un rapporto antropologicamente unico con i suoi morti, “adottandoli” e quindi de facto dialogando in modo unico e a volte assai bizzarro col suo passato. “Chi visita il cimitero delle Fontanelle può notare, tra le file ordinate dei teschi, che alcuni sono girati. I devoti insoddisfatti, per ritorsione, voltano faccia al muro il cranio inefficace. Il presunto tradimento è sanzionato a spese della testa. Nell’Aldilà. Nell’Aldiqua.”

Immaginiamo quindi che Napoli, in questa ormai prossima “ottobrata napoletana che è come un maggio allo specchio” (bellissima immagine) possa essere grata all’autore per questo libro e che, se potessero parlare, il dialogo tra i due si svolgerebbe proprio come capitò a Tommaso una volta che ebbe ultimato il trattato sull’eucaristia “Bene scripsisti de me quam ergo mercedem accipies?” disse una Voce sollevandolo; e l’Aquinate, come ogni autore soddisfatto e un po’ lusingato rispose “Non aliam nisi te”.

 

Il naufragio della ragione

 

consigliato

Il naufragio della ragione


autore: Mark Lilla; editore: Marsilio; pagine: 143

Se un buon saggio dovesse essere giudicato in base alla dose di ironia (feroce) presente al suo interno, questo sarebbe un libro da non perdere. Mark Lilla non perde occasione di lanciare strali all’indirizzo della politica americana. E non solo a quella.

Gli elementi di interesse per il lettore chiaramente non mancano, perché il libro nasce su fondamenti originali e corretti: gli “esiliati del tempo”, i reazionari insomma, sono oggettivamente molto meno considerati dalla letteratura dei rivoluzionari e sono spesso grossolanamente e a sproposito accostati a chi con loro ha assai poco da spartire, cioè i conservatori. Accostamento pericoloso e imperdonabile perché proprio così storicamente se ne è spesso sottovalutato il potenziale “esplosivo”, in quanto essi sono tutt’altro che interessati a mantenere lo status quo, come lo sono per vocazione i conservatori, ma piuttosto ad invertire la polarità della storia verso un passato edulcorato dalla potente leva della nostalgia.

Figura peculiare quindi quella del reazionario: intanto perché fonda la sua etimologia sulla fisica di Newton e sul parallelismo tra quest’ultima e una politica che Montesquieu ipotizzava fondata su azioni e reazioni.  Poi perché fa leva sul pessimismo cosmico e l’imperante estetica del brutto e delle rovine che caratterizza tanto pensiero contemporaneo. Se un noto cantautore siciliano si augurava qualche anno fa che tornasse presto l’era del cinghiale bianco, che poi era nientemeno che il terzo dei dieci avatar di Vishnu, noi senza dubbio e più modestamente viviamo l’era della pecora nera che poi è il primo avatar del reazionario.

La pecora nera affascina, tutto sommato vedendo solo rovine dove gli altri vedono futuro si rende assai attraente e poco gli importa di essere una Cassandra inascoltata.  Basta apparire una Cassandra sexy. E poi profetizzando sventure in caso di mancato ritorno ad una sana e rustica Età dell’Oro e spacciando nostalgia a buon mercato non si sbaglia mai perché la nostalgia è un potente anestetico del vuoto e dei dolori moderni; mentre le speranze possono andare facilmente deluse “La nostalgia è indiscutibile”.

Questo per certi versi secondo l’autore spiegherebbe i singolari percorsi di vita e le ancor più peculiari evoluzioni dei ragionamenti dei tre pensatori descritti e accostati nella parte iniziale del volume.

Ora, tralasciando il fatto che proprio del tutto assimilabili tra di loro i tre non sono (Vogelin non ha una matrice reazionaria ma “semplicemente” gnostica), ciò che accomuna Franz Rosenzweig, Leo Strauss ed Eric Voegelin è al di là di tutto un pensiero mistico e profondamente originale, una fortissima dose di consapevolezza di sé e un indubbio e a volte spericolato coraggio argomentativo.  Tutti e tre hanno vissuto a cavallo tra Europa e America. Tutti e tre vengono in vario modo riesumati e tirati per la giacca dai moderni movimenti politici reazionari americani ed europei. E qui si apre una serie di interessanti considerazioni su come le idee a volte nella testa di molti abbiano l’effetto ottundente di certe tisane dagli ingredienti sospetti: prima si usano innocentemente, poi se ne abusa e alla fine nei soggetti particolarmente ricettivi danno alla testa e se ne diventa addirittura dipendenti, distorcendone le iniziali finalità. Tra tutti si veda Strauss che fu considerato da certa stampa addirittura l’ispiratore della guerra in Iraq e“il principale pensatore dietro la politica interventista di esportazione della democrazia promossa dai neoconservatori” perché nel 2003 ne ricorreva il trentennale della morte (avvenuta nl 1973) e straussiani, sin dai tempi dell’amministrazione Reagan, erano (e sono)  importanti esponenti repubblicani e poi neoconservatori. Il quale Strauss incarna un altro paradosso, poiché da convinto sostenitore della matrice elitaria “dell’istruzione autentica” ha finito per costituire all’opposto il pretesto ideologico addotto da alcuni suoi allievi per sostenere ed allearsi con politici populisti e da “insegnante di esoterismo, preoccupato di proteggere l’indagine filosofica dalla minaccia della politica” qual era proprio dalla ideologica politica è stato invece strumentalizzato.

Tuttavia, sarà un po’ per colpa della giustapposizione di saggi e articoli scritti in momenti e con finalità diversi, sarà per il titolo della sezione intermedia denominata “correnti” il testo un poco si diluisce e si sfilaccia in rivoli o per meglio dire tende a fare un eccessivo sfoggio di sottintesi, parentesi e riferimenti culturali. Certo, solo il titolo del capitolo “da Lutero a Walmart” vale la lettura, come sono arditi e creativi certi accostamenti (gustoso il parallelismo letterario che usa Don Chisciotte e Madame Bovary come reazionari campioni rispettivamente del ritorno ad un mondo impossibile o semplicemente improbabile), però da questo punto la lettura è oggettivamente un piatto per stomaci capienti e digestioni lente, accompagnate insomma da adeguato tempo per fare il chilo. Ma è un grande merito a ns avviso pubblicare e discutere di questi tipi di testo.

Emerge dagli iscritti di Mark Lilla il ritratto di un mondo in preda ad un sostanziale caos dove un’ideologia fai –da -tè fa temere il peggio per la ragione che della modernità dovrebbe essere il faro e la principale forza di traino: sembra quasi che tutti siano autorizzati ad agire spregiudicatamente come ventriloqui con pensatori e personaggi storici pur di far loro dire ciò che nemmeno pensavano e che comunque è strumentale ad un certo disegno di futuro. E questo equivalentemente sia da destra che da sinistra; solo in questo quadro si può comprendere una sinistra che sostituisce il Libretto Rosso di Mao con le Lettere di San Paolo, e i Teocon americani che compiono evoluzioni non dissimili ( “ se oggi faceste un giro in una libreria religiosa americana trovereste pochissimi libri sulle lettere di San Paolo” ma “passeggiando tra gli scaffali di una libreria universitaria laica, invece, potreste scoprire una quantità sorprendente di opere su di lui, non devozionali ma politiche”).

In questo crepuscolo sincretico ci sarebbe sostanzialmente spazio per tutti coloro che sono accumunati dalla rincorsa ad un Eden che, al più, è irraggiungibile come le stelle che distano da noi milioni di anni luce: il più contagiato da questa volontà manipolatoria e assolutista è il mondo islamico protagonista della parte finale del libro, il quale si è trovato davanti ad essa, sostiene l’autore, sorprendentemente “privo di anticorpi” con i quali reagire. Ma non ne è affatto immune l’Europa. Su altre zone del mondo si tace. E invece sarebbe utile approfondire.

Ma il tema è un altro: reazionario, si ricordava, è un termine che poggia su un concetto inerente la fisica classica e meccanicista, noi però viviamo in un’epoca diversa dove dominano la probabilità e la fisica dei quanti. Così certe relazioni diventano più sotterranee e meno immediate da cogliere, facendo venire il dubbio che la copertina del libro, che raffigura un iceberg, sia sicuramente più azzeccata del titolo, pur abbastanza fedele a quello in lingua originale. Non sembra in altre parole che la ragione dei reazionari sia naufragata, ma che sia molto più semplicemente diventata la parte nascosta di quell’iceberg e che abbia subito una mutazione profonda tesa ad impadronirsi e “hackerare” le regole del pensiero razionale per servirsene ed asservirlo ai propri fini. E sarebbe un errore altrettanto grande che non saper distinguere un reazionario da un conservatore, il sottovalutare questo aspetto limitandosi a ridicolizzare culturalmente un atteggiamento mentale così diffuso. Ma forse sotto sotto proprio questo l’autore voleva che concludessimo.

 

L’ immagine secondo Kubrick

 

da non perdere

L’ immagine secondo Kubrick


Autore: Flavio De Bernardi; editore: Lindau; pagine: 151

L’uomo porta, anzi trascina, sempre con sé tutto sé stesso, tutto ciò che è stato in quel che sarà o saprà diventare. Ma ci sono casi ben curiosi nella storia.

Gutenberg era un orafo. I primi fotografi erano dei chimici. Kubrick era un fotografo. Non un direttore della fotografia, antecedente non raro nella storia del cinema, si badi bene, ma un fotografo.

Nel dire che “fare un film è fotografare la fotografia della realtà”, Kubrik sottintendeva una quantità di concetti e di esperienze pregresse.  Questa frase è divenuta l’ottima ossatura di un libro sottile e prezioso. Parafrasando, si potrebbe dire, di un libro che è esso stesso una “narrazione della (di una) narrazione della realtà”. 

In primis il volume esplora quanto questa affermazione abbia di universale e se, come ebbe a dire Brandi, “tutto il procedimento tecnico che dà luogo al film…non è altro che una estensione e un’articolazione della messa in posa o presa d’immagine cinematografica” vi è in questo senso indubbiamente molto da dire.

Questo ecosistema di immagini, capace non già di rappresentare la realtà, che in fondo è loro matrigna o tuttalpiù indifferente, ma piuttosto di simbolizzare un mito o un sogno diventando arte, si nutre delle più disparate e stratificate suggestioni. E l’Autore lo spiega assai bene.

Un  film sarebbe una  raccolta di infiniti momenti cristallizzati nel tempo e nello spazio, animati dalla convenzione illusoria di un movimento, una forma quindi perennemente interrotta e gioco forza approssimata, insomma un’equivalente artistico di un patto col diavolo che Kubrick sapeva padroneggiare senza tuttavia essere immune ad una certa sofferenza: ma quando fermare le attività di post produzione, nel suo caso lunghissime e travagliate, quando, faustianamente, gridare all’attimo fuggente  «Arrestati, sei bello!»? Un interrogativo per cui il libro cerca di fornire chiavi interpretative, come del resto accade nelle pagine che seguono dedicate alle radici artistiche e culturali del celebre regista. Si allude ai rilevanti debiti letterari (Kafka su tutti), con registi del passato (Welles ad esempio) ma anche al potente parallelismo, per certi versi influente e anticipatorio, che esiste tra l’arte di Kubrick e l’arte contemporanea. Se infatti cinema è “fotografare la fotografia” della realtà, con tutte le reciproche influenze e rimandi incrociati che ne scaturiscono, anche l’arte moderna è da tempo catturata nello stesso meccanismo di trasfigurazione e riduzione/amplificazione del reale in un’opera d’arte e al contempo di trascinamento dell’espressione artistica nell’attualità.

Al di là di certi passi a volte un po’ ostici e di altri che avrebbero forse avuto bisogno di maggiore spazio per esprimersi nel testo (tutto sommato un po’ limitativo iniziare l’analisi da “2001: Odissea nello spazio”), il volume non lesina passaggi e approfondimenti di grande interesse.

L’analisi, corredata di un interessante apparato iconografico, relativo ad alcuni selezionati frames dei film di Kubrick da “2001: Odissea nello spazio” in poi, si legge davvero in un soffio e trascina il lettore con stimolanti e a volte sorprendenti argomentazioni. Nulla nasce nel vuoto si dirà, tantomeno il linguaggio artistico di un regista così influente, e quindi è per certi versi ovvio che i prodromi di un’opera si trovino o si nascondano in quella precedente, ma trovare questi fil rouge, far sì che certe tesi presentino tratti di originalità e non sembrino tirate per i capelli o troppo soggettive non è mai banale.  E quando queste chiavi interpretative sono ben oliate e girano a dovere nella toppa, ecco che mettono in grado anche il profano di ricavare delle sintesi assai soddisfacenti e illuminanti. In questo senso leggendo le pagine del libro dedicate, capitolo per capitolo, ai sei film che vanno da 2001 all’ossimoro filmico “Eyes Wide Shut”, canto del cigno del regista, si potrebbe dire che tutta la sua produzione sia come un gioco a rimpiattino tra immagini e simboli ricorrenti e che le sue opere siano un po’ come la fenice, dove la successiva rinasce direttamente dalle ceneri, o per meglio dire dai bagliori degli ultimi frame, della precedente.

Succede con “2001: Odissea nello spazio” che è l’incontro affascinante tra un viandante e una sentinella.

La sentinella, come nell’omonimo racconto di fantascienza di Arthur Clarke che ispirò Kubrick è il monolite (anche se nel testo originale si trattava di una piramide lucente circondata da un campo di forza sferico e non di un parallelepipedo oscuro ma poco importa, dato che si tratta comunque di figure perfette e la perfezione, si sa, è di per sé un potente messaggio), ovvero la porta verso l’ignoto e l’incognito che domina come si sa “2001: Odissea nello spazio”.  Il viandante invece è Bowman, l’uomo che nel film percorre simbolicamente attraverso la sua allucinata vicenda l’intero arco della vita umana.

La figura del monolite non abbandonerà più il regista e lo si potrà ritrovare, seguendo la chiara narrazione del libro, nei momenti topici delle opere successive, così come lo stesso si può argomentare per la rappresentazione di certi luoghi, quasi degli archetipi, che sono rintracciabili in tutti e sei film: la stanza da bagno, la porta, il corridoio. La lettura degli stessi film attraverso questi luoghi, inesorabili e mimetici come dei sogni ricorrenti, è molto gustosa e accattivante.

Lasciamo al lettore approfondire e condividere i vari temi di cui il libro è ricco ma non possiamo non concludere dicendo che a nostro avviso e proprio in questo che si riconosce una bella pubblicazione: è come quando ci si alza da tavola e si è felici ma non sazi, anzi si è felici proprio perché non si è sazi. Un bel libro si continua a leggere anche, anzi forse soprattutto, quando è finito, perché non lo si legge più nelle pagine ma lo si seguita in sé stessi.

E così abbiamo fatto anche noi che l’abbiamo sfogliato, non sfuggendo al sortilegio della lettura e del gioco infinito dei rimandi e dei parallelismi, per cui ci è venuta voglia di leggere ancora ma queste belle centocinquantuno pagine erano purtroppo terminate. Ci sarebbe la stoffa per andare anche oltre.

E ci siamo chiesti tra le molte cose: ma se Kubrick fu influenzato dalla foto di Diane Arbus, Identical Twins, per le celeberrime gemelline di Shining che si tengono per mano, non accadde forse lo stesso per la Arbus stessa, morta suicida in una vasca come la donna che Jack trova nella vasca della stanza 207 dell’Overlook Hotel? E l’Alice di Eyes Wide Shut, la donna-monolito che, come approfondito nel volume, chiude l’opera di Kubrick con il peso di un epitaffio e ammicca allo specchio nel trailer del film non lo attraversa in certo senso come la sua omonima del romanzo “Alice dietro lo specchio” di Lewis Carroll? Lo specchio è dunque esso stesso un corridoio? Nella scena finale del film, Alice e Bill attraversano un negozio di giocattoli, una sorta di Wonderland, pochi attimi prima che Alice pronunci la famosa battuta che chiude il film: forse allora pensandoci bene anche scrivere un libro è un gioco di approssimazioni successive proprio come la produzione di un film, cui non c’è mai fine proprio come alla sete del lettore. Sta forse proprio a lui allora, come allo spettatore di un film, scoprire quanto è davvero profonda la tana del Bianconiglio.

Il libro antico. Storia, diffusione e descrizione

 

consigliato



autore: Lorenzo Baldacchini; editore: Carocci: pagine: 281

La distinzione tra volumi dedicati a studiosi, studenti e specialisti è una cosa tipicamente italiana. Si legge che il fortunato (terza edizione) libro di Baldacchini si rivolge a bibliotecari e ricercatori che si occupano di edizioni antiche ma anche agli studenti dei corsi di Beni culturali: secondo noi tutto questo è riduttivo, dovrebbe trattarsi di un best seller (e ci permettiamo di dire, che così dovrebbe essere promosso). In questo Paese esiste infatti una quantità di “addetti alla cultura” per cui biblioteche e fondi antichi sono ancora luoghi sconosciuti o distopici.

Eppure il libro antico è uno dei più abbondanti e affascinanti beni culturali che abbiamo in questo Paese: ma anche uno dei più trascurati (e a volte saccheggiati, basti pensare alla quantità di furti avvenuti in prestigiose Biblioteche) con una visibilità sui media pari a quella di Cenerentola prima del ballo e anche uno di quelli dove una cronica assenza di attenzione da parte delle Istituzioni, accompagnata a un peculiare groviglio legislativo, rende il panorama a volte sconsolante per tutti gli operatori o anche per semplici appassionati.

Ecco perché in questa recensione tratteremo il libro non come un testo per specialisti (cosa che pure è a gran diritto) ma come un volume che farebbe assai bene a tutti leggere. Il libro antico vi si offre al lettore nella sua immaterialità, e cioè come veicolo di un’idea e di una innovazione che sono stati indubbiamente motori storici di cambiamento sociale culturale e perfino economico della società, ma anche nella sua materialità fatta di materiali, formati, legature, dediche, illustrazioni. Vi sono probabilmente ben pochi beni culturali capaci di esprimere e offrire un così ricco ventaglio di chiavi interpretative, tecniche artigianali e artistiche, modalità di fruizione e piani di lettura della bellezza. Lo dice del resto l’autore stesso nella premessa, auspicando anche lui che questa terza edizione si rivolga ai “cittadini” e “tout court all’homo lector, quintessenza dell’eticità”.

Il libro ha l’indubbio merito di proiettare il lettore nella giusta dimensione storica; la natura non fa salti, non crea dal nulla, tanto meno l’innovazione tecnologica: ecco quindi che l’invenzione del libro a stampa è “una storia di lunga durata” un processo continuo e non di rottura (come viene troppo semplicisticamente spesso presentato al grande pubblico) che non arriva nella mente di Gutenberg per ispirazione divina e forse, affonda le sue radici in Oriente. Per dirla con l’Autore, quello che rileva è che ” la coscienza, che sicuramente i contemporanei ebbero, di un nuovo modo di produrre libri, fu in realtà coscienza di un diverso modo di fare un prodotto analogo, che si voleva il più possibile simile a quello vecchio, e che però poteva costare molto meno” .

Da questo punto in poi, le pagine che analizzano l’affermarsi del libro a stampa (per noi antico ma all’epoca per molti comunque più spiazzante di un telefonino di ultima generazione infarcito di applicazioni e capace quindi di suscitare anche diffidenze e resistenze in diversi milieux sociali) da un punto di vista, diciamo, economico e aziendalistico, sono tra le più interessanti. Le descrizioni delle modalità con cui il libro viene a irrorare come sangue gli organi vitali della cultura europea e le sue Capitali tra Italia e Francia, Venezia e le Fiandre, il Regno di Francia e la Spagna, sempre più necessario sempre in maggiori quantità, sono di gradevolissima lettura e ancor più quelle in cui si tenta di affrescare la vita delle vere e proprie aziende (alcune con tratti da multinazionale ante litteram) che sorgono attorno al libro. Aziende che devono tener conto di tanti nuovi elementi: l’approvvigionamento delle materie prime, il lavoro manuale e le tecniche tipografiche che generano valore e rendono possibile la riproduzione del testo in un certo numero di oggetti vendibili, la promozione, il pubblico dei lettori (prima inesistente nella sua accezione più moderna e attuale). La somma incassata deve consentire all’editore di remunerare autore (non ancora protetto dai diritti che oggi conosciamo, si vedano al riguardo gli interessanti passi del libro) e tipografo e al contempo di realizzare un profitto con cui creare nuove opere capaci di far da contrappeso alla consistente immobilizzazione di capitali che caratterizzava la filiera.

La finanza, come spesso succede anche oggigiorno, impatterà profondamente su questo mondo, travolgendo molti geniali stampatori incapaci di fare fronte al cronico e considerevole assorbimento di capitali iniziali. Il volume poi si concentra sul cosiddetto paratesto, ovvero su quella materialità e quel complesso sistema di forme che veicolano il messaggio testuale: materie prime, illustrazioni, dediche, legature, copertine e così via, tutti elementi che da soli costituiscono altrettanti potenziali campi di studio e interesse culturale in questo Paese. Vi sono pagine di grande ricchezza di contenuti e suggestioni sui titoli, i frontespizi e sulla valenza delle immagini che sin dalle origini hanno con il libro un rapporto quasi simbiotico.

Una citazione a parte vale la sezione sulla legatura, l’abito” del libro, che possiede, ancora oggi, una storia così originale e peculiare che non può e non deve rimanere all’ombra di quella generale del libro. L”anatomia” di un oggetto così comune intorno a noi rivela dettagli e una ricchezza di articolazioni insospettabile per molti. Un’ultima citazione va al concetto di leggibilità: si tratta di un concetto complesso legato ad una molteplicità di piani di lettura.

Il libro non ci ha cambiati solo culturalmente, ma ha modificato per certi versi il nostro modo di vedere e sicuramente di leggere, e gli stampatori non dovevano concentrarsi solo sui caratteri con cui un libro veniva stampato, ma anche sulla loro sistemazione sulla pagina. Alcuni, come il celeberrimo Manuzio, il “principe” dei tipografi, seppero probabilmente farlo con un’ incredibile preveggenza, anticipatrice dei più moderni studi fisiologici e neurologici. Auguriamo buona lettura a tutti.

 

Il celeste confine. Leopardi e il mito moderno dell’infinito

 

consigliato

Il celeste confine. Leopardi e il mito moderno dell’infinito



autore: Alberto Folin; editore: Marsilio; pagine: 190

Ricorre il bicentenario della composizione di una poesia fondamentale ad opera di un poeta poco letto (non quanto meriterebbe), molto citato (anche a sproposito) e ancor più vittima di pregiudizi di carattere storico e letterario, spesso chiuso dall’opinione comune in stereotipi, in cassetti polverosi della memoria scolastica.

Questo poeta è Leopardi, questa poesia è l’Infinito.

Il libro ha il merito di scuotere le tende e tirar giù un po’ di polvere facendo al contempo entrare la luce che serve.

Ne viene fuori il ritratto, per certi versi inedito, di un poeta di confine: il confine tra Neoclassicismo e Romanticismo, il confine tra l’epoca del sublime e quella del totalitarismo scientifico, tra mito e ragione, il confine tra mondo antico e mondo moderno.

E non è da tutti saper vivere a cavallo di un confine.

Allo stesso modo, leggendo le intense e dense pagine del testo, si vede bene come Leopardi riuscì pienamente a farlo e con grande originalità e prospettiva storica : riuscì per esempio a cogliere l’esigenza del tempo di interpretare in modo profondamente diverso il concetto di mito, sintonizzandosi così sulle corde più genuine dei maggiori intellettuali europei del tempo, ma non limitandosi come alcuni a consideralo con sufficienza, come un fatto illusorio e superato, ma rivalutandolo sul piano della verità, della sua intima connessione con l’essenza umana. Così facendo e criticamente procedendo, attraverso l’Infinito, egli sarà capace di fondare i presupposti di una nuova mitologia davvero rappresentativa delle lacerazioni e del nichilismo del mondo moderno.

Poeta e intellettuale di confine quindi, come di confine è proprio l’Infinito: belle le pagine dedicate a questo suo essere “sul crinale tra antico e moderno”, capaci di rivelarci la “quantità straordinaria di suggestioni” di cui quel testo poetico si nutre e anche di farci capire come e perché l’Infinito ancora oggi colpisca i lettori italiani e stranieri. Si tratta in sostanza di un testo letterario che sta all’anima del lettore moderno come la cartina di tornasole sta al campo della chimica: ci fornisce la scusa per allontanarci almeno per un attimo da noi e dalla smania smodata di vedere e osservare che caratterizza il nostro tempo, ci offre la “prova” inconfutabile dell’esistenza di un mondo invisibile, di uno stupore e di un sublime stretti tra l’essere e il non essere.  Lì, come succedeva nel mondo dell’arte in una linea che in prospettiva unisce idealmente Turner a Rothko e che appiattendo ogni prospettiva, riduce il paesaggio a colore, e le forme a nuances, proprio lì si può trovare quel “celeste confine” di cui parla l’Autore.

Ma il confine cui ci riferisce è anche quello a cavallo tra antico e moderno, e come succede nei momenti di passaggio, è proprio in questi frangenti che si fanno i bilanci.  E qui emerge la grande lucidità di pensiero e capacità di sintesi a volte spiazzanti di Leopardi e la capacità dell’autore del volume di introdurle e spiegarle efficacemente al lettore. Si allude in particolare alle interessanti e propositive riflessioni sulla assenza di una vera lingua filosofica italiana e sulla lingua italiana medesima, che va “rimodernata” in quanto “ricchissima, vastissima, bellissima, potentissima, durata per ben tre secoli e più, tale che rispetto all’età ch’ella aveva quando fu tralasciata, l’età che hanno presentemente l’ altre letterature è affatto giovanile. Ma ella è antica ed essendo antica non basta, né si adatta tal quale ella è, a chi vuole scrivere cose moderne in maniera moderna

Una nota a parte meritano poi le pagine dedicate alle poetiche dello Zibaldone e a certe sintesi davvero fulminanti. Tra tutte quella vera e propria storia e critica della letteratura italiana che Leopardi compie in solo dieci righe, individuandone i vertici nel Cinquecento. La chiosa finale è una perla degna di citazione “ Di poi venne il raffinamento del seicento, che nel settecento s’è solamente mutato in corruzione d’altra specie, ma il buon gusto nel volgo dei letterati non è tornato più, né tornerà secondo me, perché dal niente si può passare al buono, ma dal troppo buono o sia dal corrotto stimo che non si possa

Si tratta di un libro di cui assolutamente consigliare la lettura.

 

L’ ITALIA È UN SENTIERO. STORIE DI CAMMINI E CAMMINATORI

 

Consigliato

L’ ITALIA È UN SENTIERO. STORIE DI CAMMINI E CAMMINATORI

 


autore: Natalino Russo; editore: Laterza, 2019; pagine: 192 pp.

Tempo fa in un memoriale di viaggio settecentesco di un autore francese mi è capitato di leggere una frase assai simile a quella che mio nonno materno, appassionato camminatore, usava spesso: In Italia ci sono tante strade che portano alla stessa meta. Vuoi che la si intenda in senso metaforico o in senso reale, l’Italia che emerge dall’ultimo libro di Natalino Russo è  una macchina del tempo, dove si può giungere nello stesso luogo distrattamente, a bordo di una macchina, o pigramente, alla ricerca di lusso o semplicemente di un po’ di relax, oppure per sentieri inaspettati, quasi invisibili e che ci riportano direttamente ai pellegrinaggi medievali, alle antiche linee di transumanza, e poi ancora all’antichità classica o addirittura ad epoche ben più remote.

C’è poesia nelle pagine del libro, specialmente in quelle dedicate al sud, ma in generale è il ritmo cadenzato della scrittura che conquista. I toni, che sono un canto all’Italia più autentica, ricordano certe poesie di Franco Mario Arminio, poeta che non per niente si definisce «paesologo», ma anche alcune atmosfere dei componimenti del poeta friulano Pierluigi Cappello.

L’ Autore parla di un libro scritto camminando, e non si fa fatica a credergli, perché mentre racconta, si ha l’impressione di avanzare con lui sul sentiero.  I paesaggi, il mare, le montagne, le tracce di antichi insediamenti, non sono infatti descritti a volo di uccello, “on a bee line” direbbero gli inglesi, ma come manifestazioni dell’uomo e della natura che si presentano agli occhi del viandante affiorando lentamente dall’orizzonte del suo sguardo, dandogli la possibilità della riflessione e del pensiero, e quindi, sostanzialmente, il tempo di dipingere nella sua mente un ricordo personale e indelebile, cosa che il turismo di massa raramente oggi concede.

Scrivere è camminare” ripete Russo, e probabilmente sa bene quanto è vicino al vero se proprio recentemente le scienze cognitive hanno rinvenuto nella corteccia cerebrale i neuroni della scrittura. Alla fine di un suggestivo libro sull’argomento, Stanislas Dehaene, uno degli autori, si chiede a cosa potessero servire quando l’uomo ancora non scriveva. L a risposta è che probabilmente quei neuroni servivano proprio a facilitare il cammino dell’uomo, ad aiutarlo a decifrare le tracce degli animali e i segni impressi sul terreno.

E così anche il lettore attraverso il libro può decifrare i segreti di un’Italia sì moderna e sovrappopolata in alcune aree, ma piena di fascinosa e quasi inviolata wilderness in altre zone, a volte radicalmente dimenticate dalla storia. E spesso proprio in quei luoghi si trova ancora intatto l’eco della suggestione da Grand Tour che costituiva un richiamo irrefrenabile per i giovani di mezza Europa nel Sette/Ottocento e di quel culto di tutto ciò che è italiano di cui per certi versi ancora oggi beneficiamo nel mondo.

Si tratta di sentieri, a volte di mulattiere, a volte di compiuti percorsi messi in piedi e pazientemente curati grazie al lavoro di tanti volontari, che attraversano l’Italia da nord a sud, come il Sentiero Italia, che va da Santa Teresa di Gallura in Sardegna fino a Muggia, al confine con l’Istria. Sentieri, potremmo dire, “per tutte le tasche e per tutti i piedi” in quanto si tratta di una forma di turismo molto economica e non occorre essere dei rocciatori o degli esploratori per percorrerli. Dal libro emerge come anche dopo pochi giorni passati a camminare in luoghi così insoliti ci si può ricollegare con la nostra dimensione più autentica, soggettiva e pre-tecnologica di osservatori, di animali in transito sulla terra e nella vita. “Ambulo ergo sum”, si dice nel libro, gettando un occhio all’interessante e saldo connubio tra l’atto del camminare e la letteratura (giusto il riferimento a Dino Campana), per non parlare della politica, dato il carattere sovversivo, o apertamente anarchico e controcorrente che a volte una camminata può avere. Ma camminare resta anche e fondamentalmente un atto di distensione e pacifico, perché chi vuole la guerra non si prende il tempo di fare due passi e magari riflettere e perfino cambiare idea, ma marcia o anzi corre.

Nel libro oltre alla materialità dei piedi e delle strade vi è anche posto per l’atto del camminare come sinonimo di spiritualità e di fede; in tempi così secolarizzati come i nostri “Ora et ambula” sembra essere il motto di centinaia di migliaia di viaggiatori che, oltre al celeberrimo Cammino di Santiago, espandono la loro attenzione ai percorsi dei pellegrini di casa nostra, fra tutti la Via Francigena. E qui con ogni probabilità l’Italia sta perdendo una delle sue ennesime possibilità sul piano turistico, perché il peso della manutenzione di questi percorsi, richiestissimi e diffusissimi all’estero presso un turismo molto qualificato, ricade essenzialmente sull’entusiasmo dei volontari e salta agli occhi la mancanza di iniziative organiche e coordinate sul territorio, come accade invece in altri Paesi europei.

Molto accattivanti anche le pagine finali, dedicate al “kit del camminatore”, dove solo apparentemente si vogliono dare dei meri consigli pratici ai pellegrini in erba. In realtà i preziosi suggerimenti derivanti dall’ esperienza diretta dell’autore (tra tutti raccomando quelli sul sacco a pelo, sui sacchetti di plastica e sui petardi) e un sottile umorismo si fondono, cosa che mi ha fatto pensare chissà perché ai preparativi di viaggio descritti in certi passi dei libri di Jerome K. Jerome.

Consigliato


IBN KHALDUN E LA MUQADDIMA

Alcuni libri meriterebbero decisamente una maggiore pubblicità e diffusione: siccome crediamo che il volume di Massimo Campanini, edito da La Vela sia uno di questi, oltre ai complimenti all’autore e all’editore, cerchiamo di fare la nostra modesta parte nel rimediare con la presente recensione.

Cosa rende un libro interessante? La profondità e il coraggio delle argomentazioni, si potrebbe dire, ma anche e forse parimenti la loro robustezza, chiarezza e trasparenza. Più volte ci siamo lamentati in altri scritti della carenza di questi aspetti e, in sostanza, della mancanza di rispetto per il lettore che implicherebbe l’ignorarli.

Questo volume ha tutte queste qualità, e tocca, analizzando il pensiero di Rahman Ibn Khaldūn  (1332-1406) innovativo e geniale filosofo e sociologo ante litteram nella storia di tutto il “Medioevo” euro-mediterraneo, argomenti di una grandissima attualità.  È forte, quando si parla di Islam, il parlarne a sproposito e superficialmente, annegando tutto in un guazzabuglio indistinto: eppure si tratta di uno di quei ponti storici e culturali attraverso il Mediterraneo con cui dobbiamo confrontarci, forse anche abituandoci a riattraversarli concettualmente.  Il coraggio di approfondire e apprezzare il pensiero islamico classico di spessore storico servirebbe assai di questi tempi a elaborare utili sintesi sociali e politiche che guardino alla sponda sud del Mediterraneo e anche a casa nostra e, dall’altro lato, come a volte dice l’Autore, a mostrare quando il “re è nudo” ovvero quando qualcuno cerca di deformare tale storia con la violenza e su fondamenti teorici incerti o del tutto assenti, per virarla verso il fondamentalismo.

In un recente articolo all’Autore è capitato di sottolineare come il termine democrazia non faccia parte del dizionario dell’Islam; in arabo infatti si tratta di una traslitterazione di quello di origine greca: dimuqratiyya. “In Islam del resto, laddove ‘democrazia’ sembra letteralmente intendere il ‘governo o potere del popolo’, la fonte del potere è Dio”.

Intendiamoci, anche Ibn Khaldūn è per certi versi figlio del suo tempo. Rimpiange il Califfato, quale miglior forma di governi possibile e come forma suprema di continuità con il Profeta. Ma capisce che questo non esiste più e allora si interroga sul da farsi con molto realismo e razionalità. Quali sono i migliori presupposti su cui fondare la vita sociale e politica? E queste domande se le pone pensando fuori dagli schemi della sua epoca, fuori dalla retorica religiosa, analizzando i problemi del suo tempo. Da lì, il volume traccia una sequela di intuizioni inanellate dal grande pensatore. Un esempio sono le riflessioni sulla “assenza della borghesia” nelle strutture urbane individuate come causa principale della crisi di prosperità dell’Occidente musulmano del Maghreb e dell’Andalusia. In generale, è raro trovare in quel tempo un pensiero nella cui essenza più profonda vi è la riflessione sulle condizioni e sulle categorie economiche (“il capitale che una persona ricava ed acquisisce, se deriva da un mestiere, è il valore realizzato dal suo lavoro”), e sul senso di inadeguatezza del “suo mondo” ad affrontare un cambio di paradigma nei commerci e nell’economia mondiale che alla fine in effetti l’avrebbe travolto (si vedano a questo proposito le belle pagine che riprendono la suggestiva immagine delle “vele e cannoni”).

All’interno del Palazzo Pubblico di Siena, Ambrogio Lorenzetti, dipinge in quegli anni un affresco fondamentale, Effetti del Buon Governo in città. L’affresco del Lorenzetti, ha un significato, come noto, preminentemente didascalico e ammonitivo. Le scene non sono ispirate a soggetti religiosi e il loro tono è quindi laico, politico e filosofico. La sintesi, è che l’autorevolezza della buona politica genera effetti positivi sulla società. Rahman Ibn Khaldūn sembra dipingere con le sue parole un affresco non molto dissimile, improntato al realismo e al pragmatismo, dove l’uomo non può fare a meno di una salda e stabile organizzazione sociale che metta in risalto le sue qualità e moderi i suoi istinti: tuttavia questa organizzazione non trae i suoi crismi e fondamenti da Dio, ma appunto, da una necessità naturale, secolare, si direbbe quasi biologica. E quindi, in ultima analisi laica. Leggendo il volume, scritto in uno stile moto chiaro e comprensibile, si capisce inoltre come tutte queste forme di esercitare il potere politico non appartengano all’ordine immutabile di Dio ma bensì all’ordine evolutivo del mondo materiale. Ne consegue che quindi ogni ordinamento, nazione, costume, perfino credenza è destinato a crescere, stabilizzarsi e poi morire, per venire sostituito da altro. Pensiero molto moderno si vede, certamente fuori dagli schemi per l’epoca, affatto impregnato di utopia come quasi tutto quello, di marca platonica, dei suoi contemporanei, e anche dei contemporanei di Machiavelli. Non per niente e niente affatto a sproposito in due pensatori sono accostati in modo suggestivo ma assai ben argomentato, come i “picconatori” del pensiero utopico, della confusione tra essere e dover essere, capaci di lasciare l’utopico per realizzare il possibile e inverare l’attuale, inaugurando in questo modo un rivoluzionario modo di pensare all’ordinamento politico e all’esercizio del potere.

 

curatori: Vincenzo Bochicchio, Marco Mazzeo, Giuseppe Squillace; editore: Quodlibet; pagine: 186.

I buoni libri nascono spesso da felici intuizioni e anche da una buona dose di coraggio.

L’intuizione (e il coraggio) di questo libro è quella di parlare con chiarezza di intenti e ampiezza di riferimenti culturali di un vero paradosso sensoriale: l’olfatto. Un senso spesso bistrattato, altrettanto spesso incompreso, eppure di capitale importanza per capire le strutture storiche, sociali e culturali in cui si dipana la nostra esistenza.

Senso relegato nella sfera del biologico, dell’animale/istintuale, per cui giustamente il libro si batte prefiggendosi quanto meno “una correzione di tiro”. Correzione di approccio davvero quanto mai necessaria visto che siamo ormai tanto legati gli stimoli visivi quanto all’aria che respiriamo e nel frattempo non abbiamo guadagnato (anzi forse addirittura nel tempo abbiamo perso) alcuna consapevolezza sulla sfera olfattiva del nostro essere.

E non di sole parole si tratta: se Era riuscì con i suoi unguenti odorosi a “prendere per il naso” , seducendolo, il re degli dei, molto concreti e chiari sono invece i ricchi riferimenti storici, filosofici e sociali al mondo antico e al suo rapporto con gli aromi; belle e insolite per gli accostamenti usati le pagine dedicate al profumo dei sacrifici e ancora di più quelle scritte in merito ai rituali romani e “all’incenso che risuona” che è un vero e proprio tentativo (riuscito) di ricostruzione storica dei riti antichi attraverso un uso esteso di sinestesie.

Il libro ha anche il merito di far apprezzare al lettore, da un punto di vista molto originale, l’evoluzione politica del mondo antico e lo spostamento degli equilibri di potere in direzione di una Roma ormai egemone proprio riprendendo Apollonio, Ateneo e Plinio e le informazioni contenute nei loro scritti sull’ascesa e decadenza delle piazze più celebri dell’antichità quanto alla produzione di profumi (Rodi, Cipro, Sidone, Atene, l’Egitto). I profumi, quelli di eccellenza, ora come allora, erano assai costosi, come del resto le materie prime, e dall’Oriente la produzione si andò inevitabilmente spostando vicino alla Capitale dell’Impero

Toccando sapientemente anche la sfera dei commerci e dell’economia del mondo antico, aspetto purtroppo molto poco trattato dalla letteratura, il libro ci ricorda di come Apollonio, già nel I secolo a.C. tracciasse una disamina assai moderna di ciò che determina l’ascesa (o la caduta) di una “azienda” che produce profumi: 

  1. I fornitori delle materie prime;
  2. La qualità delle materie prime;
  3. L’abilità dei profumieri.

Lorenzo Villoresi, uno dei più conosciuti profumieri al mondo, nella intervista che chiude il libro non è affatto distante da queste medesime considerazioni, quando gli viene chiesta la ragione del suo successo e di tracciare le linee essenziali della sua professione per chi volesse in futuro accostarvisi.

Su questa traccia del racconto storico fatto, per così dire, attraverso scie e strutture olfattive si inseriscono le belle pagine sulla compenetrazione tra cultura aromatica greca e comunità enotrie della Magna Grecia, che sembrano parlarci più di collaborazione tra culture che di scontro.

Il libro funziona un po’ come un documentario per parole, che spazia dall’archeologia olfattiva, alla fisiologia: e proprio dalla fisiologia vengono tutte le conferme che cercavamo sulla particolarità del regno olfattivo, dello smellscape che anima la nostra esperienza quotidiana e illumina molte delle nostre memorie (si potrebbe quasi dire che le “tagga”, consentendoci di richiamarle all’occorrenza alla nostra coscienza per una via privilegiata). Infatti “nei sistemi visivo, uditivo, e somatosensoriale, lo stimolo proveniente dal mondo fisico viene rappresentato in aree topograficamente ben individuate e definite del sistema nervoso centrale. Nel caso del sistema olfattivo, invece, ciò non avviene”. Un sistema complesso quindi, e che lavora con principi e logiche distanti dagli altri.

Non mancano curiosità (lasciamo al lettore approfondire ad esempio come e perché i biologi usino il profumo di C. Klein Obsession for men) e un approfondimento molto interessante sui panorami olfattivi e su come gli stessi siano cambiati, soprattutto sotto l’impatto della modernità, dello sviluppo industriale e dei concetti sociali di pulizia, igiene, deodorizzazione. Grazie o per colpa di tutto ciò, anche la nostra percezione e perfino l’attribuzione di senso che diamo agli odori è palesemente mutata.

Nel libro forse manca almeno un accenno alla “patologia” degli odori, cioè a quell’inquinamento olfattivo che, come quello sonoro, non compare sulle prime pagine dei giornali (tanto è vero che in Italia come in altri Paesi avanzati incredibilmente non esiste una legislazione adeguata su questi temi), ma tocca a volte assai pesantemente la qualità della vita di molti nostri concittadini. La stessa nota si potrebbe forse estendere ad un approfondimento sui poteri (ma anche sui condizionamenti) del marketing olfattivo, ma per il resto è un volume completo e gradevolissimo.

Pe rimanere in tema, si sa che ogni profumo si articola in una piramide olfattiva in cui le note di testa, le più volatili, precedono le note di cuore e infine le note di fondo, le più persistenti nel tempo, ma anche quelle che proprio dello scorrere del tempo hanno bisogno per affiorare ai nostri sensi. Ecco, per ogni buon libro dovrebbe essere lo stesso, dovrebbe in qualche modo “rimanerci addosso”: e le note di fondo che ci restano di questa lettura sono veramente delle migliori.

 

Bushidō: L'anima del Giappone di [Inazō, Nitobe]

L’anima del Giappone sembra un vulcano sottomarino, invisibile ma capace di agire e di far sentire nel tempo le sue vibrazioni ovunque e allo stesso modo in grado di rinnovarsi in ogni stagione della sua storia mostrando intatto il suo fascino, proprio come i fiori di ciliegio tanto cari ai samurai.

Quando Nitobe Inazō scrisse Bushidō, forse non era consapevole di aprire una porta, una porta d’ingresso tuttora obbligata a che si voglia avvicinare ad un’interpretazione autentica della cultura giapponese.

Già allora tutto ciò ebbe un grosso impatto internazionale, e finì per aprire gli occhi al mondo sul vero Giappone, al mondo e all’opinione pubblica che già alimentava su di esso quegli stereotipi o addirittura quelle macchiette dure a morire che rendono oggi persino un bambino delle elementari in grado di disegnare parimenti un cavaliere o un samurai.

Ciò che sorprende in questa fresca edizione è la chiarezza del linguaggio di Nitobe Inazō: son passati 120 anni eppure il suo stile, scontati gli ovviamente datati riferimenti culturali (cui si è ovviato con ottime e precise note) e stilemi, è fresco e limpido come quello della miglior saggistica odierna.

È un saggio che si legge d’un fiato ma che, come tutte le letture rare e preziose (e un libro ancora e più volte ripubblicato dopo tutti questi anni non può che esserlo) ti richiama sempre qualche pagina indietro, perché le sue parole si prestano a varie interpretazioni, sempre più profonde ad ogni rilettura.

Era ferma convinzione dell’Autore che l’etica giapponese emersa da prescrizioni codificate secolari fosse nata grazie alla decodifica dell’etica della classe guerriera, e quindi grazie alla decodifica e generalizzata interiorizzazione dei principi del Bushidō. Tesi per certi aspetti controversa che c’è modo e modo di argomentare, e quello di questo peculiare Autore (sarebbe stato utile dedicare qualche pagina introduttiva alla sua singolare vita) denota una cultura sterminata, capace di mettere in campo parallelismi letterari tra Oriente e Occidente con una facilità e un acume sorprendente.

E cosi stupiscono i riferimenti incrociati tra l’epoca feudale europea e quella giapponese, tra la cultura del Cavaliere e quella del Samurai, e l’analisi meticolosa delle virtù che caratterizzavano l’esistenza di quest’ultimo fin dalla più tenera età. Belle le pagine e le storie dedicate ad esempio al coraggio, alla capacità di rimanere freddi “nel fuoco della battaglia”: si comincia a comprendere, come si diceva all’inizio, quanto i sentimenti e la spiritualità siano in Giappone un fiume carsico, da tenere saldamente sotto un roccioso autocontrollo che non lascia trasparire niente o quasi niente all’esterno.

Al di là dell’interesse specifico per i temi trattati, è questo sentimento del tempo che pervade il libro a colpire: Nitobe Inazō non vive sulla luna, e capisce che da quando il Giappone è stato forzato, dopo cinque secoli di feudalesimo, ad aprirsi ai commerci e alla modernità, i samurai sono diventati di punto in bianco come l’albatro della celebre poesia. Scrive l’Autore: “i porti vennero aperti e il feudalesimo abolito. I samurai dovettero cedere i propri feudi e in cambio ricevettero obbligazioni assieme alla possibilità di investire in imprese mercantili”. L’etica dei samurai non conta più e loro si trovano invischiati in un mondo che non conoscono: ma se la sua equazione è vera, intuisce l’Autore, nella loro caduta si trascineranno dietro anche l’identità millenaria di un Paese. Nulla di più profetico, per certi versi.

Esistono nel volume, come si diceva pocanzi, dei parallelismi folgoranti e inattesi, come quello tra Don Chisciotte e il comportamento del samurai, per non parlare di quelli tra l’etica cristiana e le Scritture e i testi storici orientali o delle analogie tra i concetti espressi nel Bushidō e quelli che animavano il pensiero di molti autori dell’Antichità greca e romana. E i rimandi proseguono e arricchiscono quasi ogni pagina del volume, e spaziano a tutto campo, se per introdurre il capitolo sulla spada del samurai si cita Maometto “La spada è la chiave del Cielo e dell’Inferno”.

Nitobe Inazō, conscio delle difficoltà del suo Paese, sembra voler in questo modo fornire agli occidentali degli strumenti di decodifica, dirci “siamo diversi ma uguali” e accendere dei fari prima che le due culture si scontrino e, inevitabilmente, quella economicamente e tecnologicamente più arretrata abbia la peggio.

Sa che per questo deve farsi capire da tutti e non lesina sforzi in tal senso: considerato il momento storico in cui scrive, compie una operazione ardita, proponendo di fatto l’equivalenza tra etica e religione (l’etica del Bushidō in Giappone e la religione cristiana in Occidente) quanto alla loro capacità di essere entrambe forza fondante di una nazione e di una cultura. Tesi molto spinosa e controversa, soprattutto all’epoca, e su tutte e due le sponde culturali cui l’Autore voleva rivolgersi.

Sente che i giorni di quel mondo descritto nel libro sono contati, e presagisce con evidente lungimiranza che questa accelerazione forzata della storia porterà delle conseguenze “Segni infausti presenti nell’aria lo fanno presagire. Non solo segni: forse terribili già in atto.”, ma allo stesso tempo riesce a farsi ascoltare molto in alto. Colpisce, alla luce di quanto di tragico accadrà di lì a qualche decennio che nella sua prefazione del 1905 Nitobe Inazō riporti di essere” enormemente lusingato di apprendere che il Presidente Roosevelt mi abbia fatto l’onore immeritato di leggerlo”, quando gli stessi Americani, alla fine del secondo conflitto mondiale, si convinsero (distruggendoli) che la causa del fanatismo nazionalista giapponese fossero proprio i libri che parlavano del Bushidō.

Toccanti anche le pagine dove l’Autore fa un’altra profonda considerazione: se la concretezza spietata della storia pone la sua inesorabile condanna su alcune idee e forme etiche, assai più lento è questo processo nel cuore degli uomini: e qui le parole del libro fanno venire alla mente i film di Akira Kurosawa e il lavoro appassionato di Yukio Mishima che mise in gioco la sua vita pur di richiamare lo spirito del Bushidō ai Giapponesi.

 

Scoprire i beni relazionali

Questo libro merita di essere letto e meditato. È un volume azzeccato fin dal titolo: scoprire i beni relazionali.

Scoprire, si può dire, rende liberi e l’autore del libro è ben consapevole che di vera scoperta si tratta. Tanto più se si tratta di una scoperta che possiamo fare tutti perché tutti siamo attori e partecipi di una enorme pluralità di relazioni sociali. In ultima analisi il concetto è questo: la natura della nostra socialità è, o dovrebbe essere, intimamente relazionale e molto meno individuale di quanto sia attualmente. Attraversando le pagine del testo di Pierpaolo Donati, si scopre o quantomeno si afferra in modo più consistente e consapevole, l’esistenza di una sorta di “principio quantistico” della socialità: esiste una sfera nelle relazioni che, come gli orbitali atomici, contemporaneamente eccede, supera e collega i singoli individui, le loro strutture e sovrastrutture ed i beni tangibili o intangibili quali le cose o le idee. Questa sfera dei beni relazionali suggerisce un parallelo con Il principio di indeterminazione perché da un punto di vista concettuale significa che l’osservatore, ad esempio noi stessi in quanto lettori di questo volume, non ne è semplice spettatore ma, nel cercare di apprezzarla e “misurarla” percepisce una realtà in perenne mutamento e dinamismo (di cui lui stesso fa parte), e pertanto mai statica e uguale a sé stessa.  E quindi come spiegarla? Ci vuole una penna molto abile, capace di parallelismi efficaci, come il passaggio che assimila le relazioni all’aria, ovvero a quella cosa che non vediamo, ma ci è necessaria e che non percepiamo, a parte quando manca o quando è gravemente contaminata.

Non si tratta di una entità assimilabile al bene pubblico, in quanto questi ultimi  beni sono basati su una condivisione mediata e vincolata e non volontaria, e l’autore non manca di argomentare con chiarezza questa differenza. Tuttavia entrambi i beni, quelli relazionali e i pubblici, rientrano nella più vasta categoria di beni comuni e il bene comune è un bene relazionale nella misura in cui “può essere generato soltanto assieme, non è escludibile per nessuno che abbia parte, non è frazionabile e non è neppure una somma di beni individuali”.

Il concetto di bene relazionale, nelle pagine del libro, diventa quindi subito foriero di importanti e stimolanti riflessioni: si percepisce come in una società come quella odierna, costruita sulle categorie dei diritti individuali, civili, politici economici e di welfare, manchi proprio la categoria del diritto alla relazione , ovvero esattamente quella sfera, basilare per la realizzazione del proprio progetto di vita, dei rapporti necessari alla umanizzazione delle persone e non al loro progressivo straniamento (cui assistiamo perlopiù passivamente oggigiorno, forse proprio perché ci mancano le adeguate categorie per reagire).

Il tema del bene relazionale è affrontato in tutte le sfere della nostra vita: belle le pagine sulla famiglia e sul concetto di relazione generativa e non meramente aggregativa, per cui la relazione equivale ad una costruzione intersoggettiva, ma anche quella sulla scuola, spesso incapace di percepire la dimensione dei rapporti privilegiando un approccio rigido e standardizzato.

Di particolare interesse anche la discussione del rapporto tra beni relazionali e capitale sociale e del modo di rendere cooperanti e sinergici questi due basilari ambiti.

Ma adottare la categoria di bene relazionale implica necessariamente acquisire la capacità di essere “socialmente generativi” e quindi di apprezzare in una relazione come essa non scaturisca dalla giustapposizione di azioni individuali ma emerga da una catena di azioni di reciproche che hanno “il dono come motore primo”. E le pagine dedicate al dono e al suo concetto e valenza relazionale e sociale nelle società del passato e in quella odierna sono forse tra le meglio riuscite del libro.

Il testo ha quindi il merito di farci toccare con mano, anche grazie alle molte esemplificazioni concrete, come l’adottare un punto di vista relazionale possa contribuire a spiegare molte fenomenologie odierne e come certe ricette adottate dagli Stati per correggere storture sociali legati alla povertà e al disagio siano destinate al fallimento proprio perché prive di un approccio sistemico e complesso ai problemi, altrettanto sistemici e complessi, che si propongono di risolvere. Ne consegue la necessità, impellente, di sperimentare un welfare dove il bene comune sia quello relazionale e dove pertanto le politiche sociali siano rette e governate da una molteplicità di soggetti, pubblici e privati tutti con pari dignità, secondo il criterio non solo della libertà e dell’uguaglianza, ma anche su quello della solidarietà diffusa e consapevole.

Questo ha importanti ricadute anche sul piano economico che la molto celebrata “economia della felicità” ha appena sfiorato, ovvero in merito al pieno comprendere l’importanza delle relazioni nel favorire “la fioritura dell’umano o la sua degradazione” e quindi in rapporto al loro influsso su tutte le principali categorie del comportamento economico.

Questo ambito e ancor più quello legato alle relazioni virtuali e mediate dai social network costituiscono, in un volume che ambisce a presentare al lettore una teoria generale dei beni relazionali due temi solo marginalmente affrontati ma che meriterebbero indubbiamente assai maggiori approfondimenti.

Lei, se posso dirlo io  che ne sono l’autore , ha perfettamente colto il senso del mio  libro e l’intenzione con cui è stato scritto. Ringraziandola  ancora la prego di accogliere il mio saluto più cordiale”

Ernesto Galli della Loggia

Quando un libro fa centro, lo si capisce da due cose: la sua qualità intrinseca, certo, ma anche dalla rumorosità della levata di scudi contro lo stesso. Eppure, non si tratta propriamente di un pamphlet.

Questo è il caso del volume in oggetto.

Qualche mese fa, sulla home page di un noto Istituto mi ricordo di aver letto due singolari lettere di commiato. Due docenti dopo quarant’anni di onorata carriera, volevano immortalare e partecipare agli studenti i loro pensieri nell’ultimo giorno di lavoro. Una lettera era piuttosto articolata e interessante, tracciava un bilancio a tratti positivo a tratti amaro, con un certo disincanto, della propria attività didattica: sostanzialmente vi si leggeva una parabola discendente, ma non priva di soddisfazioni professionali. L’altra invece, con mio stupore, era una poesiola alla Vispa Teresa, insulsa e scritta in rima baciata rivolta agli studenti che si concludeva con gli immortali versi: e anche se su qualcosa brava non sarò sembrata, certo di tutti i miei studenti sorella sono stata. Da dove poteva derivare questa totale differenza di stile tra due docenti che per decenni avevano prestato servizio in quella scuola? Due docenti di qualche decennio prima, avrebbero scritto lettere di questo tipo? E gli studenti e le famiglie, che cosa ne pensavano, ammesso che le avessero lette.

Quelle righe mi sono tornate subito in mente leggendo l’illuminante libro L’aula vuota di Ernesto Galli della Loggia, perché da esso si ricavano le stesse impressioni su di una scuola di cui tutti ci siamo disinteressati, cui a successive ondate le classi dirigenti di questo Paese si sono impegnate a fare seriamente del male e le cui vittime, oltre beninteso e soprattutto agli studenti, sono proprio i docenti. Professionisti un tempo socialmente rispettati, adesso considerati alla stregua di qualunque dipendente pubblico, sottopagati e alla ricerca di un significato e di un fine per la loro missione: di conseguenza anche loro, parafrasando Eco, suddivisibili proprio come gli estensori delle due lettere che ci citavo, tra apocalittici (ormai cinici e disillusi) e integrati (gioiosi e un po’ rassegnati estensori di poesie in rima baciata).

Il libro non rappresenta una facile e sterile critica delle ben note cose che, come sotto gli occhi di tutti, nella scuola attuale non vanno, e mette bene in chiaro che lo svuotamento e la perdita di ruolo sociale dell’istruzione non è un fenomeno solo italiano, ma internazionale; però allo stesso tempo pone in luce come tale tendenza in Italia sia pericolosamente accentuata e coincida per così dire “graficamente”, quasi punto a punto, con la parabola del declino politico, intellettuale ed economico del Paese.

Ricordo di aver sentito in radio, qualche tempo fa, un intervento dell’Autore allorquando propose, in occasione dell’insediamento dell’attuale governo, un decalogo di provvedimenti, non economicamente onerosi, tesi a riportare la scuola al posto che merita nella nostra società. Di tutti quegli interessantissimi e condivisibili spunti, l’unico di cui si parlò fu quello della predella, ovvero la proposta, provocatoria, di reintrodurre la predella che sopraelevava rispetto ai banchi dei discenti la cattedra del docente.

Fu sintomatico, ci pare, della pochezza del dibattito sociale in Italia, dove ci si ferma all’apparenza, senza guardare il significato profondo di certe affermazioni, dove impera l’appetito per l’offesa gratuita e si è perso quasi del tutto il gusto per l’invettiva, la provocazione intelligente cui rispondere con un altrettanto arguto contro-pensiero. Tutta roba da teca museale.

Come da teca museale è diventato il concetto più alto di cultura. Oggi la vera istruzione, quella che, come recita il libro in suo passo, emancipa e prepara ad una vita e un pensiero realmente libero e creativo, sta a molta scuola come il ristorante di un tempo sta al fast food: il sapere si consuma velocemente, in modo banalizzato, asettico e standardizzato e nella quotidianità più spinta, perché deve “servire subito”. Strano paradosso in un Paese che fa della cultura e del suo retaggio la sua bandiera e che dovrebbe ben sapere che la cultura e la capacità di pensiero fondano le loro basi sullo studio e l’approfondimento proprio di ciò che non ”serve”: un lirico greco, un fatto storico, un teorema matematico, un ragionamento filosofico.  Sono sotto gli occhi di tutti le conseguenze: una classe dirigente che non sa costruire pensiero e teorizzare alcunché (mi ha sempre colpito come all’estero i politici accettino il contraddittorio, sovente senza rete, con i giornalisti quando da noi la pagina politica è costituita da un patchwork di dichiarazioni preconfezionate che immortalano in video il recitativo senza contraltare di questo o quel parlamentare),  nuove generazioni con vistosissime e crescenti lacune storiche, linguistiche, matematiche. Ma del resto, come sottolinea il libro, nel bene e nel male hanno ambedue frequentato la medesima scuola.

In rete, sono spesso accalorati insegnanti a criticare l’Autore, sovente in modo involontariamente ironico: nelle loro a volte astruse controdeduzioni si soffermano sugli articoli e sulle altrettanto astruse circolari ministeriali che egli cita, secondo loro, a sproposito, perdendo di vista il cuore del problema. Fanno pensare a medici intenti a piazzare cerotti sulle escoriazioni di un paziente in piena e massiva emorragia arteriosa.

Resta il fatto che il volume dovrebbe diventare libro di testo nelle scuole: in una istruzione che ha fortemente ridotto lo studio della storia questo libro, da Rousseau in poi, traccia una singolare ma veritiera storia della nostra scuola e della pedagogia che è poi la storia del nostro Paese. Dalla riforma Gentile, sconfessata da Mussolini quando si accorse che tutto era fuorché fascista, al dopoguerra, al sessantotto e ai decreti delegati e poi al mantra del concetto di educazione che soppianta a poco a poco quello dell’istruzione, per arrivare alle a volte nefaste influenze di MIUR, Invalsi, Ocse e compagnia cantante.

Di particolare valore i passi dedicati al perché la scuola, all’indomani della Seconda guerra mondiale, non abbia potuto dar voce a un  consapevole e anche critico “racconto nazionale” come in altri Paesi, e delle conseguenze che questo mancato senso identitario ha avuto nella crescita delle nostre classi dirigenti, sul valore dell’ istruzione della nostra costituzione (cui ci si richiama sovente a sproposito) e alla riflessione sui concetti di autonomia amministrativa e di libertà di sperimentazione metodologico-didattica concessi ai docenti a far data dal 1978.

Con ciò, non si vuole trasmettere l’immagine di un libro per specialisti: il volume è di gradevolissima lettura, grazie ad una prosa, come poche oggi, di assoluto valore, e pieno di gustose considerazioni, come quando si sofferma sul nonsense di molte circolari ministeriali, per le quali parlare di linguaggio astruso arriva a sembrare un complimento, o come i passi dedicati a Don Milani,  (citato assai di sovente a sproposito e da chi non l’ha mai veramente  letto) di cui si dimentica che, e come se no, i suoi scritti sono figli di un tempo che fu e andrebbero forse interpretati anziché venerati o presi alla lettera.

Se ne ricava certo un ritratto sconfortante della nostra scuola, in cui alla base ognuno sembra recitare un ruolo che non può più, non vuole o non sa ricoprire: autorità centrali che dovrebbero dare direttive e che si limitano a sfornare confuse direttive e una riforma inconcludente dietro l’altra, insegnanti chiamati ad essere facilitatori del sapere, coordinatori ed erogatori di servizi (senza percepire salari adeguati e fruire di un altrettanto adeguata preparazione) più che docenti, discenti disorientati e lasciati in balia di sé stessi o peggio dell’’illusione di saper affrontare un mondo rappresentato in un modo che non corrisponde a quello reale

Ma siamo in tempo ad intervenire, a togliere la scuola da quell’angolo dove è stata socialmente collocata, un hortus conclusus che assomiglia sempre più a un ghetto, se solo si lavorasse di più sul vero significato della cultura oggi, sui corretti tempi necessari all’apprendimento e alla elaborazione delle conoscenze apprese, sul senso di una istruzione che è prima di tutto progetto che libera ed emancipa, in perenne e critica  tensione tra realtà e utopia.

la normalità del male

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Start down

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stregati dalla luna

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recensione 1

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recensione 2

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recensioni 3

 

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Cacciateli

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decisione robotica

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immortali

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