Ci eravamo lasciati a Gennaio con Keret ( nr 10 ) . L‘ undicesima puntata di Anatomia di un racconto, a cura di Mirko Tondi ( QUI I PRECEDENTI NUMERI Nr 1, Nr 2, Nr 3, Nr 4, Nr 5;Nr 6 ; Nr 7; Nr 8; Nr 9) ci parla di Ricardo Piglia. Ci sono scrittori- Sistema e scrittori- Paese. Ovvero scrittori capaci di andare oltre sè stessi e costruire oltre sè stessi un nuovo ambito letterario, e scrittori capaci di rappresentare un’epoca o o un luogo. Piglia è davvero un buon esempio di queste categorie se si pensa quello che ha rappresentato per l’Argentina (invitiamo a leggere ‘Respirazione artificiale’) e la qualità notevolissima della sua produzione letteraria. Interessante la sua produzione, interessantissima la sua vita, da essa non scindibile ma anzi ad essa intimamente legata, il suo percorso personale evidenzia la capacità, purtroppo piuttosto rara in scrittori e intellettuali, di apprezzare e far conoscere nel suo paese la letteratura internazionale e di sperimentare con coraggio, sempre e comunque, scommettendo con convinzione sulla scrittura propria e altrui. Si evidenzia anche quella caratteristica visione ‘antologica’ della propria scrittura, che in fondo non faceva distinzione tra racconto breve, romanzo, recensione e saggio perchè mirava soprattutto a mettere in luce la qualità espressiva e la validità dei contenuti, indipendentemente dalla forma letteraria di volta in volta prescelta. Scrittore anche intimamente legato all’Italia (ebbe a dire ‘Ai miei studenti di Princeton, racconta Ricardo Piglia, scherzosamente dico d’ essere uno scrittore italo-argentino. In realtà l’ Italia l’ ha conosciuta per lo più attraverso i racconti dei famigliari, migranti piemontesi, oltre che con le parole dei poeti, come accade ad ogni vero legame: «quando iniziammo a pubblicare – ricorda – io e i miei amici sapevamo a memoria i versi di Ungaretti, Saba e Montale».) Piglia è nato in un luogo letterario, Adrogué, il sobborgo di Buenos Aires in cui Borges scrisse e ambientò alcune delle sue opere. Il racconto integrale si può trovare qui . Grazie Mirko

Anatomia di un racconto – La pazza e il racconto del delitto
Partiamo da una considerazione non indifferente: con questa storia lo scrittore argentino Ricardo Piglia vinse nel 1975 il primo premio in un concorso per racconti polizieschi, nella cui giuria c’era nientemeno che Jorge Luis Borges; il premio, nello specifico, consisteva in un viaggio a Parigi e in un soggiorno per quindici giorni in un albergo di prima fascia. L’incipit, con quei tre aggettivi in serie, potrebbe ricordarci un altro grande inizio, quello dell’Ulisse di Joyce, che ne contava due ma altrettanti potenti ed evocativi: “Solenne e paffuto” (o “Imponente e grassoccio” a seconda delle traduzioni, vedete voi quali scegliere). In questo caso la descrizione del personaggio di Almada (che, badate bene, avvia la vicenda ma poi nel prosieguo dell’intreccio si defila e viene richiamato solo indirettamente) comincia con “Grasso,
trasandato e malinconico” e continua con un affondo nel suo stato interiore: “Almada si sentiva smarrito, pieno di paura e disprezzo”. Poi sopraggiunge in lui il ricordo di Larry, la donna con cui ha avuto una relazione, e che a più riprese viene descritta senza sconti, così: “la pelle avvizzita, le occhiaie […] altezzosa, ubriaca, indifferente […] il profumo maligno.” L’uso degli aggettivi, già da quello che si intuisce nelle prime righe, è per l’appunto mai banale, anzi studiato, sopraffino. Sentite qua, per esempio: “All’angolo, il locale New Deal era una macchia ocra, corrosa, ancora più pervertita nella bruma delle sei del pomeriggio”. Di nuovo un tris di aggettivi, qui utilizzati a creare un climax ascendente. Almada trova una donna che dorme sdraiata a terra, avvolta negli stracci, e la tocca con un piede. La donna si chiama (la chiamano) Anahí (poco dopo lei si definirà “La peccatrice, la gitana”). Gli chiede dei soldi, e lui cosa le risponde? “Va bene. Se ti inginocchi e mi baci i piedi ti do mille pesos” (si ha già la caratura del personaggio in questa battuta, emerge in un attimo tutta la sua psicologia sorretta dalla depravazione e dal desiderio di prevaricare le donne e tenerle sotto il proprio dominio; già poco prima, pensando a Larry, era stato tentato di “entrare nel cabaret e trascinarla fuori per un braccio e schiaffeggiarla finché non gli avesse obbedito”). Le agita la banconota davanti agli occhi. Lei temporeggia, lui insiste. Poi la donna lo fa. “Lui la squadrò dall’alto, imponente, uno scintillio umido negli occhietti da gatto.” A questo punto le porge i soldi e le dice di comprarsi un profumo. Lui si allontana verso il locale da ballo e lei, “la pazza”, intanto canta la macarena.
Entra ora in scena Antúnez, il protettore che vive con Larry. Quindi un’anticipazione, “i segni della morte nei cassetti aperti”, e un messaggio d’addio sullo specchio scritto col rossetto in maniera tremolante e frettolosa. Secondo e ultimo capitoletto: ecco Emilio Renzi, alter ego di Piglia (non dimentichiamo difatti che il vero nome dello scrittore era all’anagrafe Ricardo Emilio Piglia Renzi). “A Emilio Renzi interessava la linguistica ma si guadagnava da vivere scrivendo recensioni sul giornale El Mundo”, e poi nel descriverlo l’omaggio al suo massimo riferimento artistico, un altro grande autore argentino: “quell’aspetto assorto e un po’ metafisico che lo rendeva simile ai personaggi di Roberto Arlt”. Emilio deve sostituire il collega malato, che si occupa di cronaca nera: c’è da raccontare la notizia dell’omicidio di Larry. L’incarico viene conferito a lui dal “vecchio Luna”, il suo capo, perché quest’ultimo “pensò che costringerlo a immischiarsi in quella storia di prostitute da quattro soldi e papponi gli avrebbe fatto solo bene”. Il corpo della donna viene ritrovato dietro il locale in cui lavorava, è stata uccisa a coltellate. L’unica testimone è la mendicante che Almada aveva incontrato all’inizio. “Quando l’avevano trovata stava cullando il cadavere come se fosse una bambola e ripeteva una storia incomprensibile”. Viene arrestato subito Antúnez e tutto sembra già risolto. Renzi inizia a fare le sue indagini finché avviene l’incontro con la pazza, la quale dà vita a flusso di coscienza delirante quanto risolutivo. L’enigma infatti è nelle parole (riporto il dialogo esponendo la logica con cui il protagonista arriva alla soluzione, non tanto la soluzione stessa: “È la pazza che lo dice: la pazza che da almeno dieci ore ripete sempre le stesse cose senza dire niente. Ma proprio perché ripete le stesse cose la si può comprendere. C’è una serie di regole in linguistica, un codice che si usa per analizzare il linguaggio psicotico”. Attenzione, adesso: la vera sorpresa non è la scoperta della verità da parte di Renzi ma ciò che viene dopo, uno scoppiettante susseguirsi di colpi di scena, comprese le ultimissime righe, che rimandano a un finale circolare. Terminata la lettura, si rimane increduli: davvero questo è un racconto, oppure è un romanzo condensato con abile mestiere in dieci pagine? Appare evidente che contenga molto di più di quello che ci viene narrato, ed è un racconto sporco, scorretto, malato, di quelli che oggi sarebbe difficile scrivere e, ancor di più, farsi pubblicare. Come mi piace ripetere: scrivere significa soprattutto osare. E Piglia qui l’ha fatto in modo eccellente. Borges e soci ci avevano visto sicuramente giusto a conferirgli il primo premio.