La trama e l’ordito di un mistero

Questa storia vi piacerà. E’ un misto inedito di realtà, ordine e magia.

Quando abbiamo presentato i racconti della settima settimana di #ioraccontobreve abbiamo detto che uno di quei tre racconti nascondeva un enigma. Alcuni di Voi hanno fatto delle ipotesi, con nostra grande soddisfazione tutte sbagliate (vuol dire che poi non era così ovvio indovinare),

Per meglio dire, non si trattava in fin dei conti di un’opera della fantasia, ma della rielaborazione, pure letterariamente assai valida,  di un fatto vero, per quanto sconcertante.

Si trattava de LA TOVAGLIA NUZIALE di Francesca Condò, che vi invitiamo a rileggere.

Cosa c’è di misterioso o magico in un’antica tovaglia nuziale?

tovaglia

 

Ora, abbiamo parlato spesso del concetto di spazio, e proprio con Francesca ne abbiamo discusso in relazione agli spazi museali e alla loro ‘narrazione’. Per narrare un museo ci vuole tanta tecnica, tanta conoscenza, ma anche, crediamo, un pizzico di creatività al posto giusto e delle storie curiose che possano invogliare il pubblico non esperto alla visita. Vi ricordate il mio manifesto per il Museo Marino Marini? quello è stato un bell’esempio di coinvolgimento e creatività. Tanti Musei importanti hanno scelto la strada della gestione intelligente e consapevole dei social, esistono ad esempio bellissimi account Instagram che, giorno dopo giorno, lavorano proprio su piccoli oggetti e curiosità che scatenano l’interesse di milioni di follower (tra cui, insospettabilmente, tanti teenager)

Ora, leggete questa storia e diteci se non sareste invogliati a visitare il Museo cui appartiene la nostra famosa…tovaglia magica.

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DALLA MATERIA AL RACCONTO: GLI OGGETTI HANNO UN’ANIMA? di F. Condò

 

Un lavoro di squadra può portare a risultati densi, spesso inattesi.  Come nei romanzi complicati emergono, anche per chi si occupa di beni culturali, istanze diverse, dissapori e gelosie che portano fuori obiettivo. A volte, però, la squadra funziona, si verificano imprevisti fortunati e un oggetto conservato in deposito apre a mondi che vanno al di là della materia più o meno preziosa e della forma più o meno gradevole. Lasciarli emergere è  compito collettivo: di chi decide di affrontare la sfida, di chi ha la competenza scientifica di decodificarli,  di chi ha la capacità di andare oltre e vedere l’uomo al di là dell’oggetto, con le sue credenze, dolori e paure che esorcizza con azioni e riti.[1]

Dal deposito.

Nel 2016 il MiBACT ha avviato la ristrutturazione e riallestimento del Museo Nazionale Giovanni Antonio Sanna di Sassari. Come molti dei musei italiani il Sanna nasce da una donazione privata mista di arte e archeologia e si arricchisce negli anni con altre cesssioni e acquisti, molte di beni di interesse etnoantropologico, con una successiva prevalenza di materiali archeologici provenienti dagli scavi della Soprintendenza nel nord Sardegna[2]. Il lavoro di riallestimento prevedeva che, senza togliere importanza ai contresti provenienti da scavi recenti, si mettesse in luce la figura del fondatore e il fenomeno del collezionismo, la cui memoria nei primi anni dell’archeologia scientifica si era scelto di ignorare, forse perchè modus operandi superato ma ancora troppo vicino per essere valutato in una prospettiva storica.

Molti reperti di interesse etnografico erano stati nel tempo posti in deposito per lasciare spazio a quelli archeologici di recente scoperta e, forse, perchè considerati, in una certa fase, meno rilevanti per la mission del museo[3]. Già nel 2011 l’allora Soprintendente Bruno Massabò lo aveva notato e aveva operato in modo che si tornasse a esporre al pubblico almeno una selezione scelta di abiti tradizionali. Per la raccolta etnografica non si era ancora verificato, come avvenuto altrove, un passaggio da “oggetti del come eravamo”, testimonianza fossile di usi cambiati rapidamente nel secondo dopoguerra, allo status di  “museo interpretativo”[4] con quel valore dinamico che, anche attingendo alla lettura degli oggetti del passato recente, permette di comprendere e ripensare quanto ritenuto fondativo per una comunità e di comunicarlo all’esterno.

Il museo conserva tra le altre la collezione donata da Gavino Clemente. Clemente, ebanista, direttore di un’affermata ditta di mobili artigianali, raccolse oggetti per la sezione dedicata alla Sardegna della  rassegna etnografica seguita da Lamberto Loria per l’expo di Roma del 1911, rassegna che poi costituì il nucleo del Museo delle arti e tradizioni popolari[5].  Clemente disegnò la camera da pranzo di Grazia Deledda e presso il Museo Sanna è conservata una credenza che ha lo stesso disegno di quella realizzata per lei. Con Clemente fece amicizia Amelie Posse Brazdova, svedese,vera europea impegnata nella lotta per l’indipendenza ceca e, di seguito, in quella contro il nazismo, che descrive oggetti della collezione nel libro in cui racconta del suo confino in Sardegna tra 1915 e 1916[6]. Fu Grazia Deledda a consigliare alla Posse la scelta di Alghero come domicilio coatto. Queste, assieme agli oggetti, sono le storie che vorremmo tirar fuori dai depositi.

Il lavoro di studio in vista del riallestimento è in corso. Nuovi spunti di narrazione potrebbero emergere da qui in poi. Così come è accaduto per la tovaglia nuziale della storia di cui vi riporto, di seguito, la genesi.

dettaglio 2

L’antefatto.

Nel 1954 il Museo Sanna acquisisce la collezione di tessuti e merletti di Amilcare Dallay.  Nella collezione è presente, seconto quanto recita l’inventario,  un “piccolo telo ricamato a punto croce con disegni e diciture. 0,76×0,75”. Il telo non è ritenuto di grande importanza e, considerata anche la vulnerabilità dei manufatti in fibra naturale, subisce il destino di quasi tutti i tessuti della collezione, ossia viene conservato in deposito.

Nel 2007 l’antropologa V. Sanna Randaccio è incaricata di una schedatura dei manufatti tessili[7]; l’analisi, di cui si riporta il testo per intero, evidenzia gli aspetti tecnici e iconografici, indicando la presenza di una scritta:

“n.20-00157331 -donazione Dallay; XIX sec. Barbagia. Tela di lino, filo di cotone; Taglio, cucitura manuale, ricamo a punto croce.

Tovaglietta quadrata in tela ricamata a punto croce con cornice a motivi geometrici e ricamo centrale a motivi di alberi fioriti e un cavallino (?) stilizzati in colore verde e rosa. Presenta due scritte in rosa lungo i bordi di due lati opposti, mentre lungo gli altri sono ripetute in serie delle iniziali in verde. Alla fine delle scritte compaiono due ricami simili a figurine maschili stilizzate. L’estremità dei bordi è decorata da motivi geometrici simili a piccole arcate.”

Nel 2014 la storica dell’arte Alex Rusu,  presente presso il museo per un tirocinio sui tessuti tradizionali, esamina il manufatto e lo aggiunge alla sua schedatura come:

 “Tovaglietta in tela ricamata sui bordi con il motivo dela casa (o chiesa) e nel campo centrale con motivi fitomorfi e zoomorfi. I bordi sono ricamati anche con uno scritto. I colori del ricamo sono: azzurro, giallo, verde, arancione.”

* manufatto di particolare interesse antropologico, di cui non è sicuro l’uso come “tovaglietta”.

Qualcosa rispetto al presunto uso del manufatto non la convinceva del tutto.

Un mistero svelato?

Fino a un paio di generazioni fa le donne dedicavano molte ore al cucito e al ricamo: la preparazione del corredo nuziale era considerata di grande importanza. Ma che succede a una persona inserita in una realtà sociale e storica in cui il matrimonio è fondamentale e una donna è portata a investire tutto nel suo ruolo di sposa e custode della famiglia se, mentre prepara il corredo pensando alla persona che sta per sposare – e di cui magari è innamorata, quella persona la tradisce o cambia idea?

Che succede dentro di lei se il germoglio fiorito (che dall’antichità a oggi è simbolo evidente di fertilità) le muore tra le mani mentre lo sta ancora finendo di raffigurare?

Nel 2018 l’antropologa Gianna Saba è incaricata della redazione dei contenuti per la nuova sezione etnografica. In tale circostanza intraprende un esame approfondito dei materiali presenti in deposito e delle schedature pregresse e redige una nuova scheda tecnica.

“un pezzo unico, rarissimo e di grandissimo valore socio-antropologico. Si tratta indubbiamente di un’ingiuria o una maledizione scagliata da una donna verso un uomo e probabilmente anche verso un’altra donna.  (…)  L’iscrizione sembra recitare: “Flammasa tiene de provare no te llames gadoni mundane e traitori te deves llamare o vitoria palma chi gadoni se lama a ds no lo amas de su ferru is  – ma chi provas su inferru no fes la gloria i es de sempre eternu no pasas agonia cun la virgen maria tiengo de cuntratari no te lames gadoni mundane e traitori te deves lamare”

 Da questa base di lavoro nasce il testo, sempre a firma di Gianna Saba, chiaro e completo, che potremmo definire “narrazione museale scientifica” e di cui si prevede l’uso nell’allestimento con due diversi livelli di approfondimento:

  • primo livello:

“UNA STRANA TOVAGLIETTA

Questa tovaglietta quadrata in tela ricamata a punto croce proveniente dalla collezione di tessuti di Amilcare Dallai veniva definita dal collezionista “rarissima”.

Il manufatto contiene, infatti, su due lati opposti, alcune frasi in lingua sarda di non facile interpretazione:

 “MACHI PROVAS SU INFERRU NO FES LA GLORIA IES DE SEMPRE ETERNU NO PASAS AgONIA CON LA VIRGEN MARIA TIENgO DE CONTRATTARI NO TE LAMES GAdONI MUNDANU E TRAITORI TE PUEDES LAMARE [“Ma che tu provi l’inferno non (ti) faccia la gloria Gesù (IESus) di sempre eterno (riposo), (che tu abbia) un agonia interminabile (non abbia riposo l’agonia), con la Vergine Maria devo contrattare, non ti chiami Gadoni, mondano e traditore ti puoi chiamare”]

dettaglio 1

FLAMASA TIENES DE PROVARE NO TELAMES GADONI MUNDANE E TRAITORI TEPUEDES OVITORIA PALMA CHI GADONI SE LAMA A d.S NO LO AMAS DE SU FERRU IS. [Le fiamme devi provare, non ti chiami Gadoni mondano e traditore ti puoi chiamare. O Vitoria Palma che Gadoni si chiama a D.S. non lo ami, del ferro (inferno) [è] lui].

Negli altri due bordi, “AS [ripetuto più volte] AA [ripetuto più volte] I D E T I”

Il resto dell’oggetto è decorato da una cornice a motivi geometrici. Il motivo centrale pare essere una variante dell’albero della vita che sembra dipanarsi da una sorta di figura femminile stilizzata culminante in trifogli e girasoli. Compaiono poi altre figure, tra cui un leone rampante e delle figure di difficile interpretazione (scorpioni? esseri cornuti?)

  • secondo livello o di approfondimento:

“Sull’oggetto sembra esser stata ricamata una vera e propria maledizione. Dopo averlo descritto come “mondano” e “traditore”, l’autrice del ricamo scaglia la propria ira verso un uomo (D.S.?) augurandogli di provare in eterno le fiamme dell’inferno.

Non è poi chiaro se la frase successiva “O Vitoria Palma chi gadoni se lama a d.s. no lo amas” [O Vittoria Palma/ che si chiama gadoni/ a d.s. (iniziali?) non lo ami”] costituisca un ammonimento a se stessa o ad una presunta rivale in amore.

Al di là delle circostanze specifiche, l’iscrizione ha chiaro intento malevolo. È presumibile immaginare uno scenario in cui l’oggetto potesse esser stato confezionato, in un primo momento, con intenti benefici, magari inizialmente destinato al corredo nuziale. In questo senso sembrano andare i ricami centrali e parte dei motivi ornamentali dispiegati sui bordi, di significato eminentemente protettivo, come il leone rampante, gli elementi vegetali e il ricamo da alcuni autori definito come “arca dell’alleanza” ripetuto sul bordo. In un secondo momento l’oggetto, persa l’originaria connotazione di “tovaglia della sposa”, si è trasformato in mezzo di attacco magico.

L’oggetto costituisce un’importante attestazione etnografica del rilievo conferito, nelle magie delle culture tradizionali, alla parola pronunciata, considerata forza agente. Ancor di più, scrivere qualcosa significa invocare il potere della parola. È variamente attestata dalle fonti, ad esempio, la capacità comunemente attribuita agli uomini di chiesa di utilizzare con intento magico le sacre scritture presso culture, come quella sarda, a forte maggioranza illetterata. In Sardegna la scrittura di formule magiche si ritrova in amuleti conosciuti come “breves” o “pungas”, che contengono spesso preghiere, invocazioni o formule magiche. Ricamare, come in questo caso, una maledizione, equivale a renderla eterna.”

L’oggetto, la vicenda e non ultima la capacità di intuizione e la chiarezza nel porgere i contenuti di questa narrazione scientifica hanno determinato l’urgenza di far emergere in superficie il dolore tutto umano e la rabbia della protagonista del breve racconto, nato quasi per germinazione spontanea.

La vicenda non è del tutto chiara e non sappiamo con crtezza assoluta chi fossero i protagonisti, quindi una parte di mistero rimane insoluta. Certamente non sono personaggi famosi. Sono uomini e donne ”normali” impegnati nella lotta del quotidiano e gettati nell’angoscia del veder negata la realizzaione di un sogno di normalità scandito da un sacramento.

NOTE

[1]Un ringraziamento a Gianna Saba, che ha lavorato sui materiali della collezione etnoantropologica del Museo Nazionale G.A. Sanna, nel frattempo divenuta funzionario antropologo per il MiBACT e ora in servizio presso la SABAP di Cagliari, per la gentile disponibilità e professionalità.

[2] Il progetto è nato mentre il museo era ancora gestito dalla Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro e col direttore Gabriella Gasperetti; il gruppo di lavoro che ha curato il progetto era composto da diverse professionalità; v. F. Condò, G. Gasperetti, L’eredità negata: il Museo Nazionale G.A. Sanna in Sassari dal recupero delle origini alle nuove connessioni, in  – Romarchè. Roma 2016. Si ringrazia l’attuale direttore, Bruno Billeci, per la possibilità di pubblicare la foto della tovaglia e la ditta Fallani per aver fornito il fotogramma.

[3] Colpisce la lungimiranza di Antonio Taramelli, che nel 1927 afferma, a proposito dell’abito tradizionale sardo: “…questa grazia antica che non trova piu accoglienza che tra i buon gustai stranieri  o nella claustrale pace delle Gallerie e dei Musei; necessità è quindi che nei Musei regionali si accolgano almeno le prineipali, se non le estreme reliquie di un mondo, scomparso forse senza ritorno” A. Taramelli, La collezione di merletti e tessuti sardi di Amilcare Dallay, in BA serie II, n. IV, ottobre 1927

[4]Essenziale su questo la riflessione degli antropologi, una sintesi operativa molto chiara in Vito Lattanzi, VincenzoPadiglione, Storie estreme, storie future, 2012

[5]Il Museo delle arti e tradizioni popolari, intitolato a Loria, è ora parte del MuCIV, Museo delle Civiltà.

[6]vi fa cenno V. Sanna Randaccio nella sua schedatura del 2007; Amelie Posse Brazdova, Interludio di Sardegna, 1933. v. un’efficace sintesi del personaggio in L. Candiani https://www.dols.it/2016/02/18/amelie-posse-brazdova/

[7]     La schedatura contiene  riferimenti a usi tradizionali e simbologie di grande interesse e che sono stati in parte inclusi nella sezione oggetto di riallestimento.

 

I barbari in giardino. Chi è senza pensiero scagli la prima pietra.

La linea retta (che in grafico fiancheggia ahimé fedelmente le ascisse, non le ordinate) dell’encefalogramma culturale italiano  dispiega i suoi nefasti effetti, oggi anche su Montanelli. E non siamo che all’inzio, temiamo. Del resto essere incompreso era un destino che gli si addiceva molto ( ‘La sconfitta è il blasone dell’hidalgo‘-diceva ogni tanto).E il bello è che trova spazio sui giornali e anche nelle fauci di alcuni  pseudointellettuali, cui il nostro darebbe a buon ragione e alla maniera toscana la ‘patente’ di bischeri.

Montanelli

 

In fin dei conti non serve dire niente:  Montanelli si difendeva da sè e anche il suo monumento. Del resto non è la prima volta che lo attaccano (anche materialmente)

Per dirla con Mario Cervi e un suo pezzo di alcuni anni fa a proposito di alcuni politici, lui odiava i personaggi minori o insignificanti e probabilmente nemmeno si sarebbe sprecato a dare importanza ai barbari che vogliono tirare giù la sua statua nei giardini pubblici di Milano (‘tutti costoro hanno il grave difetto di non saperlo ispirare o di ispirarlo il minimo necessario per scrivere‘ diceva Cervi nell’articolo).

Ma il fatto in sè è poi tutto sommato irrilevante. E’ lo scenario che indica che dovrebbe preoccupare più dei virus.Quel che fa paura è l’ignoranza imperante e la riduzione di intere storie e percorsi intellettuali a  pappette precotte etichettate in un modo o nell’altro secondo il bisogno.

C’è ancora qualcuno che legge e si fa le sue personali idee, ma con l’onestà intellettuale e la solidità che caratterizzava Montanelli?

#ioraccontobreve: settima settimana!

Ed ecco anche il settimo sigillo su questa bella manifestazione online.

     SETTE

Diciamo subito che uno di questi racconti nasconde un fatto molto curioso, ma assolutamente reale. Un mistero che sveleremo più avanti.

Per ora, lasciando intatta la suspense, visto che si parla anche di settimo sigillo, diciamo che il filo conduttore dei premiati di questa settimana, è stato il tempo e l’inesorabilità delle cose. Viene il dubbio che vi siate parlati, prima di spedirci i racconti, perché, come vi sarete accorti leggendo i testi delle precedenti 6 settimane, non è stato poi difficile trovarvi temi e situazioni assai vicine. I pensieri a volte sono davvero contagiosi, riecheggiano di testa in testa per giungere fino a noi.

Il tempo nelle sue manifestazioni, si sa, va preso al volo. Dare tempo al tempo, quando di può, ci porta a sedimentare le idee e a volte a cambiarle.  Ma attenti allora, in quel fatidico momento, ad afferrare l’occasione e fare la mossa giusta, potrebbe non esserci ‘tempo’ per rimediare! Ce lo spiega, con humour stile oltremanica, Romeo Lucchi, genovese, uomo di teatro, affabulatore che da trent’anni si dedica ad attività legate al palcoscenico e al movimento espressivo. Suoi racconti sono stati premiati e antologizzati (La farinata, Se tornassi indietro), alcuni li trovate in rete e sulle principali piattaforme di podcasting.

LA TAZZA DEL VATE

TAZZINA CAPODIMONTE

Era la prima volta che partecipava a un’asta. Aveva con sé contanti e libretto degli assegni. Il battitore presentò l’articolo: tazza da tè appartenuta al sommo poeta. Unico pezzo rimasto di un prezioso servizio in porcellana di Capodimonte. Base d’asta: cento euro. Accarezzò l’idea di acquistarla. Col Gabriele erano conterranei anche se lui era milanese d’adozione. Magari l’aveva portata alle labbra la Duse, pensò. A cinquecento euro ebbe un’epifania: come faceva a essere certo che fosse veramente del Gabriele? Decise di lasciar perdere. Fanculo la tazza– disse tra sé con un gestaccio che gli assicurò il pezzo per seicento euro. 

Poi c’è il tempo fra i tempi: il tempo della vita e quello della morte. Il tempo possiede una soluzione di continuità? Riflessioni macabre? Forse, ma in questi mesi c’è stato tempo per riflettere su tutto, come non si faceva da lungo tempo.  Qui è Daniele Possanzini Daniele Possanzini pisano, manager ed esperto forense di informatica e di sicurezza informatica, a prendersi la patata bollente e tentare di spiegarcelo. Il suo romanzo d’esordio,  Pervinca – enigma della molestia per una donna geniale, è stato pubblicato nel 2019.

SENZA SOLUZIONE DI INCOMPRENSIBILITA’.

Non c’è mai tempo di chiedere informazioni a chi muore, di chiederle proprio in quell’istante misterioso in cui sta vivendo la sua morte. Prima e dopo non è come nell’istante in cui esattamente accade.

VITA MORTE

È come quando ci si addormenta. Prima si è svegli e poi si è addormentati. Ma nel passaggio?Chi si è mai fermato a gustare quel momento sottile, guardando di qua e di là?Dove sono il tempo e lo spazio quando si perde coscienza?

Non è anche quello un immenso silenzio improvviso che avvolge? Non è un mistero anche quello?

E poi c’è l’amore, che talvolta supera il tempo, ma qualche volta invece non gli resiste e poi c’è l’immortalità…perché qualcosa ci lasciamo sempre dietro, le nostre opere restano. Ma non è detto che questo, come si potrebbe pensare, abbia sempre una connotazione positiva e rosea: anche le maledizioni per le promesse tradite del tempo e dell’amore, a volte restano eterne. Francesca Condò, nell’inviarci questo racconto, il suo terzo per #ioraccontobreve, ci dice che si sta abituando a prendere il caffè da voi. Me lo immagino coi tavoli di legno consumati, il Caffè letterario 19, una bella luce come è in questa stagione, e qualche tavolo fuori in mezzo a vasi di fiori un po’ in disordine. Bella immagine. Grazie, queste 41 parole ce le teniamo con piacere per noi!!!! Può tornare quando vuole, come tutti Voi!

LA TOVAGLIA NUZIALE

Aveva consumato tutte le sue ore di luce su quel ricamo. Aveva scelto i disegni uno a uno: fiori, foglie, anche l’arca dell’alleanza perché come nella Bibbia il loro sarebbe stato un patto eterno. Forte come la morte. E invece l’amore non era durato.

LA CASSAPANCA

E della forza era rimasta solo la morte. E l’odio. Lo aveva proseguito, il ricamo. Lo aveva proseguito e punto dopo punto aveva intessuto lacrime e sangue e la promessa d’amore era diventata maledizione; l’albero della vita era ora mandragora che la lacerava, un infinito lamento. Prima solo nella mente. Dopo si era fatta verbo nella sua bocca. Aveva evocato tutte le forze celesti perché la aiutassero a dannarlo. A dimenticare il traditore. Mundane e traitori! Ma la maledizione si era fatta parola scritta e il dolore, intessuto, era diventato anche lui eterno.

Raccontare per il futuro. La generazione ‘C-19’ si racconta.

‘La scrittura è sempre una strategia vincente quando dobbiamo ricostruire i nostri riferimenti identitari’ questa frase di Alessandra Merighi ci ha molto colpito.

I giovani sono le vere vittime di tutta questa situazione che stiamo vivendo.

sposta la tua mente al doèpo

 

Per Caffè 19, su questo sito, ci sono stati giovani (come ad esempio per #ioraccontobreve, o per il Premio Asimov) che ci hanno raccontato questi mesi e che si sono raccontati.

Per questo riteniamo importante quanto segue, e volentieri lo promuoviamo.

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Hanno perso settimane e mesi che nella vita sono irripetibili: momenti complessi e insieme entusiasmanti, come possono esserlo le interrogazioni e i compiti in classe,
gli esami per la patente di guida ma anche i campionati sportivi, le gite scolastiche, la festa di compleanno propria o dei loro amici. Attimi di quotidianità improvvisamente svaniti per tutti gli studenti italiani – e di gran parte del mondo – e un periodo di vita che per i teenager delle “zone rosse” si è trasformato in un incubo ancora più raccapricciante, un’impresa ardua da affrontare, proprio mentre ci si trovava alle prese con uno dei momenti per definizione complicato, l’adolescenza. La pandemia 2020, con le sue regole opprimenti, ha costretto i giovani fra le mura domestiche, lontani dalla scuola, dagli amici, dalla libertà e soprattutto da una visione di futuro. «Proprio per questo da alcune delle zone più terribilmente colpite ci è arrivato un forte impulso perché i loro ragazzi potessero raccontarsi e raccontare il loro “dopo”; la voglia di ritornare a respirare», spiega Valentina Gasparet, curatrice di pordenonelegge e coordinatrice del progetto di scrittura “Sposta la tua mente al dopo… e raccontalo”, ideato e promosso da Istituto Flora e Fondazione Pordenonelegge con la collaborazione dell’Area Giovani CRO, dell’Assessorato alla Cultura della Regione Friuli Venezia Giulia e con la partecipazione delle scuole Superiori del territorio regionale. «Alcune scuole delle zone rosse di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto hanno richiesto di poter partecipare in qualche modo al contest, per favorire uno scambio di esperienze fra giovani adolescenti. Abbiamo accolto con entusiasmo questa proposta, che ha per noi un forte valore simbolico. I testi degli studenti di Piacenza, Brescia, e dell’area veneta di Conegliano e Pieve di Soligo ci arriveranno già selezionati dagli insegnanti di quelle scuole, e saranno inseriti, insieme ai testi degli studenti FVG, nell’area del sito dedicata al progetto. Naturalmente ci piacerebbe molto che una rappresentanza di questi ragazzi potesse partecipare a pordenonelegge 2020, quando sarà presentato l’ebook con i racconti selezionati».
In particolare, saranno coinvolti gli studenti del Liceo Scienze Umane e Liceo Scienze Applicate “G. Colombini” di Piacenza, del Liceo “Veronica Gambara” di Brescia, coordinati dall’insegnante Eugenia Maranesi; degli ISISS “Cerletti” e “Da Collo” di Conegliano, del Liceo Marconi e dell’ISIS “Fanno” sempre di Conegliano, dell’ISISS “Casagrande” di Pieve di Soligo, coordinati dall’insegnante Ivana Abiti con il Progetto Giovani di Conegliano.
Con rinnovato slancio, dunque, i promotori del contest guardano alla prima scadenza del progetto, il 15 luglio 2020, deadline di consegna degli elaborati: a tutti i ragazzi delle scuole Superiori del Friuli Venezia Giulia si propone di scrivere un testo breve (file word, 1800 caratteri spazi inclusi max), narrativo o poetico, e di inviarlo via mail alla propria docente, che veicolerà il componimento.
Un atto corale di scrittura per sentirsi più vicini, insieme, verso il futuro, per guardare al tempo che verrà: per riannodare il filo di un desiderio rimasto forse sospeso nel periodo di pandemia, ma che si può adesso riprendere per i mesi e gli anni che verranno. Spiega infatti la docente e presidente di Giuria Alessandra Merighi che «la scrittura è sempre una strategia vincente quando dobbiamo ricostruire i nostri riferimenti identitari: il contest nasce dal desiderio di offrire ai giovani uno strumento di confronto e condivisione per idee, stimoli e prospettive nuove, per il progetto di un mondo diverso da quello che ci siamo lasciati alle spalle con la pandemia. Le riflessioni e le intuizioni di ciascuno, se condivise, possono diventare patrimonio di tutti: “Sposta la tua mente al dopo” significa proprio questo, un varco per lasciar fluire le migliori idee dei giovani e traghettarle verso il futuro».
I testi dei partecipanti saranno inoltrati all’organizzazione direttamente dai docenti,
accedendo alla sezione dedicata al progetto nel sito web http://www.pordenonelegge.it, compilando il form e allegando il file con l’elaborato, entro e non oltre il 15 luglio 2020. Gli elaborati saranno vagliati da una commissione tecnica presieduta “super partes” dalla docente Alessandra Merighi dell’Istituto Flora – che non prenderà parte alla selezione e votazione dei testi – e composta da Francesca Pavan (esperta in progettazione partecipata), Sergio Maistrello (Responsabile comunicazione CRO di Aviano), Marzia Mazzoli (Biblioteca civica, Assessorato alla cultura del Comune di Pordenone), Antonella Santin (Centro Orientamento Regionale, C.O.R., PN), Sabrina Zanghi (insegnante, Istituto Flora), Roberto Cescon (poeta), per il coordinamento
di Valentina Gasparet, curatrice di pordenonelegge. I lavori selezionati saranno pubblicati nel blog del progetto “Sposta la tua mente al dopo… e raccontalo”. Incipit o brevi citazioni verranno apposte sui canali social degli organizzatori per promuovere l’iniziativa. E quelli pubblicati nel sito, o una loro selezione, saranno successivamente
raccolti in un ebook che verrà presentato alla XXI edizione di pordenonelegge.it _ Festa del libro con gli autori (16-20 settembre 2020). (Info & Dettagli: Fondazione Pordenonelegge.it, tel. 0434.1573200 fondazione@pordenonelegge.it http://www.pordenonelegge.it)

 

Il coraggio e la festa della cultura. Una breve intervista ed un omaggio a Pordenonelegge 2020

 

pordenone legge

Pordenonelegge si farà.  Quando abbiamo letto questa notizia sulla stampa la cosa ci ha fatto molto piacere. Per la 21esima edizione della Festa del libro con gli autori ci sono già le date: 16 al 20 settembre. Si tratta di un prestigioso festival letterario organizzato dalla Fondazione Pordenonelegge.it che si svolge a Pordenone durante il mese di settembre. Come si legge sul sito il festival Pordenonelegge nasce nel 2000 dalla volontà di attirare l’attenzione sul territorio ed esprimerne le grandi potenzialità turistiche e culturali. Questo obiettivo si rafforza con la decisione di affidare il programma a curatori locali, fortemente radicati in ambito editoriale ma anche nel tessuto di Pordenone. La missione del festival è quella di raccontare il mondo, sentire le sue voci, orientare in una realtà a volte sfuggente se non incomprensibile, con l’idea di fondo che i libri siano il luogo dove il sapere si stratifica e si intreccia. pordenonelegge èun luogo di confronto ampio, vario e senza pregiudiziali. In due decenni di attività pordenonelegge è diventata la Festa del Libro con gli Autori, occasione di incontro e confronto per tutti gli attori della realtà editoriale e letteraria del Nord-Est d’Italia e non solo: negli ultimi anni il festival è cresciuto fino a diventare una tra le più attese manifestazioni dell’agenda culturale italiana, vantando importanti relazioni con altri festival nazionali e collaborazioni con eventi internazionali, confermandosi come palcoscenico per autori famosi e scrittori emergenti.

Al format tradizionale quest’anno si affiancherà potenziata la parte online e social. Questo per permettere agli scrittori di essere non soltanto raggiunti in ogni parte del mondo ma anche di parlare con il pubblico che, da casa o dall’ufficio, potrà comodamente assistere alle presentazioni. Il programma, che è ancora in fase di definizione, non avrà lo stesso numero degli incontri dell’anno scorso. Ma ci sarà pubblico, ci sarà interazione fisica e non solo virtuale. Le incognite, come si comprende,  sono molte e sono ovviamente legate soprattutto all’emergenza da coronavirus ma, come già fatto con Italia Book Festival, ci siamo prefissi il compito di promuovere e mettere in luce quanto di buono si sta facendo, con grande coraggio e in modo propositivo e talvolta molto creativo, per evitare che in questo periodo la cultura in Italia entri in completa ibernazione. E quindi viva chi riesce a pianificare una inedita edizione 2020 in attesa (speriamolo) di un più tradizionale 2021.

pordenone legge 1

Per Caffè 19 abbiamo quindi rivolto 3 domande a Michela Zin Direttore della Fondazione Pordenonelegge

Lei è stata così gentile da darci queste risposte. La ringraziamo sentitamente, come ringraziamo l’Ufficio stampa della Manifestazione.

D. Progettare un evento culturale di rilievo in tempi di pandemia: a quali criteri e modelli (se ce ne sono) vi siete ispirati? riformulerete la Vs mission?  Quali sono le Vs attese?

R. Va detto che siamo ancora in fase di progettazione. Il nostro evento è in programma a settembre dal 16 al 20 e questo ci consente di avere del tempo per trovare quella che ci sembrerà la soluzione migliore. Di certo abbiamo da subito confermato la realizzazione del festival anche quando non si sapeva cosa sarebbe accaduto nei mesi a seguire e come avremmo potuto realizzarlo. L’abbiamo confermato perché sentiamo di avere un impegno importante a livello culturale ma anche sociale (lo scorso anno con Università Bocconi abbiamo realizzato proprio un’indagine sulla legacy dei nostri vent’anni di attività). E l’online poteva già essere una soluzione perseguibile. A oggi stiamo immaginando un festival ibrido: con presenza e online (ad ampio raggio). Ovviamente per la parte in presenza dipenderà dall’evolversi della situazione ma pensiamo che, confermando le disposizioni sul distanziamento sociale, potremo trovare la soluzione migliore in accordo con le istituzioni locali. In questo modo anche la nostra città potrà beneficiarne.

Siamo consapevoli che i numeri della scorsa edizione (600 ospiti, 360 incontri in 5 giorni. 130.000 presenze) non sarà possibile confermarli. Ma siamo fiduciosi di riuscire a proporre comunque un festival di alto profilo dal punto di vista culturale mantenendo un po’ di quel clima magico che si crea all’interno degli spazi che ospitano gli incontri e nella città. Perché in fondo ogni luogo “utilizzato” dal festival ci ha dimostrato di avere un’anima.

D. Vedete la tecnologia in questo senso come un supporto o come una ‘nuova strada’?. E se sì, fino a che punto sostitutiva dell’interazione fisica?

R. Quando siamo nati (nel 2000) il nome scelto è stato pordenonelegge.it pensando che forse il libro sarebbe stato soppiantato dalla tecnologia e dall’online. In realtà poi non è stato così e questo .it negli anni lo avevamo un po’ abbandonato. Ora è il momento di riutilizzarlo considerato che questa emergenza ci ha spinto inevitabilmente verso questa direzione. Quindi assolutamente sì, sarà una nuova opportunità che non deve sostituire la presenza ma che può aprire nuovi orizzonti e farci conoscere ancor più ad ampio raggio

D.Letteratura, spazio e territorio: come gestire il contatto col territorio e la fruizione di spazi ed eventi culturali di questi tempi? Qual è il rapporto e il supporto degli altri stakeholder, principalmente le Istituzioni?

R.Cercando di mixare al meglio tutti e tre gli elementi. In questi mesi di lockdown, per esempio, alcune iniziative come i “Viaggi digitali d’autore” hanno provvisoriamente sostituito le “gite” di una giornata nei luoghi degli scrittori. Abbiamo realizzato dei video creando una sorta di anticipazione di quello che speriamo il pubblico decida di venire a vedere proprio nei luoghi che hanno ispirato alcuni autori come Hemingway, Pasolini o Nievo. Il progetto è realizzato con la Regione Friuli Venezia Giulia e  la sua agenzia per la promozione. I video resteranno visibili per sempre nel nostro canale YouTube e sicuramente saranno un ottimo strumento di promozione del turismo culturale.

Le istituzioni sono sempre state al nostro fianco e ci hanno sempre supportato. Va sottolineato che già la nostra Fondazione ha come soci la Camera di Commercio e le associazioni di categoria del territorio. Mentre il Comitato Strategico è rappresentato da tutte le istituzioni locali. Quindi abbiamo sempre lavorato insieme con intenti comuni. E continueremo a farlo anche in questo momento di difficoltà.

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Seguiremo ancora gli sviluppi di questa importante manifestazione, nella speranza, che è anche un sincero augurio, di potercela presto pienamente godere dal  vivo!

 

Narrazione ex machina: il museo dai mille volti/2 parte

Abbiamo già detto che questo è un articolo che non dovete perdervi. Lo ribadiamo ma non ce n’è bisogno perchè gli apprezzamenti ricevuti ci hanno ampiamente confermato che è un tema da seguire e lo toccheremo ancora.

Intanto, per chi si fosse perso la prima parte, eccola qui.

Il concetto di come ripensare tutti assieme con originalità ed efficacia  lo spazio, forzati certo da questo momento di emergenza ma seguendo una linea di pensiero ed un’esigenza ben più antica, ci coinvolge tutti, e con grande, grandissima urgenza.

Lo spazio come cornice, setting, ambientazione, contesto, tutti da ripensare, praticamente in ogni ambito professionale e sociale.

spazio4

Lo spazio sconvolto dall’emergenza che diventa un’allegoria e una figura dell’inversione, questa strana inversione di ruoli che viviamo tra quinte e personaggi, per cui quel mondo caotico che cercavamo di tenere a distanza avvolti nel nostro guscio adesso è precisamente ciò che rivogliamo indietro, e il guscio ci fa paura, perchè ci ricorda l’isolamento, quello passato e quello prossimo venturo. La comfort zone divenuta prigione, chi l’avrebbe mai detto?

Lo spazio di fruizione dei nostri territori, da ripensare perchè la grande bellezza non diventi una grande (e incolmabile) distanza.

Francesca Condò, ci propone la seconda parte del suo lavoro. La ringraziamo nuovamente per il suo contributo.  Merita il tempo che vorrete dedicarvi. 

Francesca Condò è architetto specialista in restauro dei monumenti con esperienze nel campo della pianificazione territoriale e conservazione del paesaggio, degli allestimenti museali e della divulgazione scientifica.
Da settembre 2015 è in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT con incarichi relativi a rapporti internazionali bilaterali, progettazione di mostre in Italia e all’estero. È attualmente coordinatore presso la stessa direzione dell’unità organizzativa che si occupa di allestimenti museali, ambito nel quale si sta occupando di attività per il miglioramento del racconto museale.

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IL MUSEO DAI MILLE VOLTI/2

spunti di lavoro per una narrazione museale post covid-19

  1. Cosa e come raccontare?

Essendo il termine racconto museale ancora in corso di definizione, o avendone accettato la polisemia o, meglio, il suo essere un termine che include tante categorie, possiamo considerare tutte le possibilità che ci si offrono vedendo quale di esse sia più vicina al museo in questione. Romanzo o racconto? Racconto breve? Poesia? Una guida oggettiva? Un diario di viaggio? Una guida di viaggio su micro itinerari tematici? Di un viaggio lungo un percorso a bivi in cui diventiamo parte della narrazione?

Nella scrittura non è corretto imporre una regola. Se la narrazione però ha lo scopo di essere a servizio di un preciso obiettivo la regola si dovrà invece scegliere. Quello che importa è che, una volta scelta, essa venga seguita con coerenza.

Pongo sul piatto la mia versione della regola, una scelta accanto alle tante possibili.

Raccontare per il museo. Per raccontare nel museo o raccontare il museo si dovrebbe partire da qualcosa che ne è parte. Sembra una banalità ma non lo è. Siamo circondati, specie dopo il lancio delle aziende che si occupano di realtà virtuale, da numerose animazioni che non hanno un legame reale con l’istituzione che le ospita. Non ritengo corretto prendere a pretesto un elemento del museo per non dire di fatto nulla né su esso, né sul museo. Il museo diventerebbe l’astratta cornice di un esercizio letterario che potrebbe essere svolto in qualsiasi altro luogo.

Riconoscibilità dell’integrazione artistica. La narrazione museale non può inventare una realtà che induca il visitatore a credere in un’informazione non verificata. Esattamente come avviene nel restauro, la riconoscibilità, in un’istituzione scientifica, è fondamentale. La narrazione può e deve essere meravigliosa e onirica ma in quel caso deve sempre essere riconoscibile in quanto tale, ossia come narrazione o interpretazione e non come verità oggettiva se gli elementi a nostra disposizione sono insufficienti a porgerla al pubblico come dato scientifico. Vale per la realtà virtuale visuale, per le installazioni artistiche e vale anche (o forse di più, dato il valore testimoniale che storicamente ancora attribuiamo alla scrittura in questa parte di mondo) per un testo.

Tutti questi potenziali veicoli di coinvolgimento sono utili a creare un rapporto emozionale e a suggerire interpretazioni ma vanno, in ogni caso, chiaramente letti come opere d’arte legate al proprio tempo di creazione e non devono generare falsi verosimili deformando la storia e la morfologia di quello che è esposto.

Cercare l’uomo dietro al reperto.  Spesso guardiamo a ciò che esposto come a oggetti inerti perchè abbiamo dimenticato che chi li ha fatti ci assomigliava. Averli pensati e fatti nasce da esigenze simili alle nostre. Le epigrafi che lamentano la morte di un compagno, i recipienti per cucinare e conservare, le tabulae honestae missionis dell’agognato e raggiunto pensionamento dopo i pericoli della guerra. Questa umanizzazione degli oggetti esposti  sta già emergendo in forme narrative che si stanno sperimentando in diversi istituti museali[1]. Leggere l’uomo dietro all’oggetto ce lo rende familiare e crea un’affezione più difficilmente attingibile attraverso un testo puramente scientifico-descrittivo.

uomo nell'ombra

Parola e segno. L’iconografia dimenticata. In Italia negli ultimi anni il lavoro degli illustratori è stato ritenuto marginale, come se il disegno dovesse servire unicamente ad abbellire un pannello o un testo. Da poco tempo stanno emergendo libri in cui l’immagine ha riacquisito un ruolo importante. Salvo rari casi, nei musei italiani questo strumento narrativo è molto trascurato pur essendo una potente modalità di amplificazione nella trasmissione del contenuto permettendo anche di limitare la traduzione.

Lo scarso uso dell’immagine per comunicare un contenuto ha una sorta di triste parallelo nella diffusa perdita di capacità di decodificare il linguaggio visuale delle opere. Non siamo più abituati a leggere oltre, non siamo più abituati a interpretare i simboli del passato. È un fenomeno da non trascurare: l’arte e la raffigurazione, dall’antichità a oggi, attinge a piene mani al doppio, al simbolo, al segno significante.  Perdere questa capacità interpretativa non è soltanto perdere frammenti di conoscenza: è come perdere materialmente pezzi dell’opera[2]. Questa incipiente perdita costituisce paradossalmente una grande occasione di narrazione. Permette di raccontare interi mondi nascosti e seppelliti in opere che, per la maggior parte delle persone, ormai sono solo quello che sembrano.

  1. Governare la barca: apologia del timone

“Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”

 J.L. Borges, L’aleph[3]

Dal punto di vista oggettivo è utile, nel momento in cui si affronta un nuovo allestimento, ossia una nuova narrazione (penso infatti che non sia possibile distinguere le due cose: nella macchina-museo si narra con tutto: con lo spazio, coi colori, con la scrittura, con la musica, con la poesia, con le superfici lisce o ruvide, con odori e sapori) avviare l’operazione con la redazione di un timone.

borges

Timone, oltre che un termine nautico, è un termine del gergo tipografico che funziona perfettamente anche per la gestione di un racconto museale più o meno complesso.

È spesso difficile, in media, far accettare l’idea di uno strumento potentemente organizzativo e progettuale al direttore di un museo o ad amministratori che hanno molta fretta e poco tempo a disposizione e che sono abituati a gestire l’emergenza innescando un accrescimento caotico nella fretta di dimostrare l’efficienza.

Il timone può essere un potente e versatile strumento di organizzazione dei contenuti.

Contiene ogni elemento, ogni oggetto, ogni testo, ogni impianto analogico o virtuale che costituisca la macchina-museo inserito nello spazio; non è rigido perchè può essere nel tempo arricchito, deformato, modificato in una dilatazione potenzialmente infinita. Ci permette però, allo stesso tempo, una visione d’insieme, ossia di essere consapevoli in ogni momento e per ogni pezzetto di spazio che cosa c’è e accade, di immaginare come e cosa ci potrebbe essere, e, soprattutto, di valutare le parti nelle loro relazioni reciproche e in relazione al fruitore.

Lo si può considerare un ibrido fra la composizione grafica di un libro e l’organizzazione dello spazio scenico di uno spettacolo teatrale -spazio e movimento degli attori- o la sceneggiatura di un film.

Avere un timone per ogni museo – che associa la descrizione, anche grafica, dello spazio fisico, alla narrazione che genera i percorsi, permetterebbe oggi, superato lo scoglio iniziale della prima redazione, una più facile gestione, inclusa la modifica degli spazi per il contenimento di un’emergenza.  È probabile ad esempio che, per ragioni di sicurezza, almeno in alcuni casi, si debba accantonare la fruizione libera dei siti e favorire quella vincolata a un percorso che proceda a senso unico dall’entrata all’uscita.

Un timone permette di gestire nel complesso cosa vogliamo raccontare, come vogliamo farlo, dove vogliamo lasciare maggiore spazio di libertà e dove invece, per le ragioni più varie (dalla conservazione dei pezzi alla sicurezza delle persone, dalla limitazione del tempo alla difficoltà interpretativa) decidiamo di condurre il visitatore su binari precisi. E permette soprattutto di lavorare a più mani: come in una barca a vela, se si è in grado, si può stare alla barra a turno; in ogni caso l’apporto di tutti è essenziale a manovrare in modo da godere del viaggio ma anche di arrivare salvi in porto. Il covid-19 è un’inattesa tempesta: probabilmente passerà, ma nulla ci esime dal considerare la possibilità che il mare torni ad agitarsi.

La strutturazione fisica del timone è semplice: una tabella elettronica, un foglio dedicato a ogni sezione del museo. Il foglio conterrà, per ogni sezione e nell’ordine di percorrenza, il tema principale, i sottotemi, il testo generale, I testi specifici, ogni oggetto con le sue dimensioni fisiche, la descrizione, la relativa didascalia, gli approfondimenti e la bibliografia. Per ogni ambiente o porzione di ambiente dovranno essere descritte le modalità di comunicazione e le possibili interazioni fra esse.

Il timone, quindi, viene a contenere non solo la descrizione di ogni tematica e di ogni strumento presente, ma avrà in sè loci deputati a ospitare i testi di ogni livello di lettura in una casella che corrisponde a una precisa localizzazione dello spazio fisico (dalla didascalia al pannello grafico complesso, dallo storyboard del filmato alla musica di sottofondo) a cui ognuno dei partecipanti alla formazione dei contenuti e degli strumenti veicolo di contenuti potrà lavorare in tempo reale aggiungendo e modificando fino al varo finale e nella contemporanea consapevolezza di quello che apportano gli altri. Il timone, infatti, può essere gestito come un unico contenitore/portale coordinato da un responsabile e accessibile ai partecipanti con chiavi che permettono la modifica dei settori di pertinenza.

  1. Fuori dopo il virus: dallo spazio concluso ai legami col territorio; dalla visita collettiva alla visita selettiva.

Cosa cambia con un’emergenza di tipo virale? Alcune riflessioni e spunti di lavoro

Le regole legate al rischio di contagio impongono di considerare nuove soluzioni per I luoghi aperti al pubblico. Questo coinvolge direttamente i musei per i quali, oltre ai dispositivi cha abbiamo imparato a conoscere negli ultimi mesi e che in ogni caso verranno adottati – mascherine, distanziamento, possibilità di disinfettare le mani, et c. – dobbiamo chiederci come il percorso/la narrazione si possano relazionare alle nuove esigenze in modo da garantire una fruizione soddisfacente.

percorso museale

Se il percorso tornerà obbligato non sarà comunque un ritorno al percorso ottocentesco. Non è infatti solo la possibilità di libera fruizione quello che ha connotato il mutamento – diversi musei conservano un percorso lineare e non tutti gli utenti lo disprezzano. Quello che è cambiato (o sta cambiando) è il modo di porgere i contenuti, il modo di interagire con le opere; e tale flusso informativo, direttamente collegato alla narrazione, prescinde dall’orientamento del percorso.

Itinerari selettivi paralleli

La narrazione può suggerire itinerari tematici che connettano alcune delle opere o ne prendano in esame un numero preciso, o anche una soltanto, favorendo l’approccio approfondito attraverso un percorso. Il percorso potrà essere attivato in parallelo ad altri percorsi con cui non si presentino interferenze.

Questo lavoro di scelta e sviluppo narrativo verrebbe enormemente agevolato dalla mappatura delle tematiche e delle opere data da un rilievo multilayer legato al timone cui si è sopra accennato permettendo una prima verifica virtuale sul modello 3D in merito alle possibili interferenze.

La modalità di “visita selettiva”, già sperimentata in alcuni musei in circostanze normali per chi avesse poco tempo per visitare un determinato museo e per aiutarlo a selezionare le opere da vedere in base ai suoi interessi, potrà essere in circostanze come quella che stiamo vivendo, incoraggiata.

Se non risulterà pensabile evitare che il visitatore che arriva da lontano possa vedere I capolavori per I quali ha intrapreso il viaggio, con rinnovata energia si dovrà percorrere la via tracciata negli scorsi anni che incoraggia la fidelizzazione attraverso abbonamenti e carte per chi non vive troppo lontano. Questo permetterà non solo di creare comunità, anche attraverso eventi, ma di favorire una fruizione slow, in cui si torna al museo più volte per soffermarsi su un numero limitato e sempre diverso di opere o per seguire itinerari suggeriti da narrazioni sviluppate ad hoc.

Rivalutazione dello spazio esterno

L’arrivo del covid e la conseguente esigenza di distanziamento sociale potrebbe portare a una nuova attenzione verso i musei all’aperto e a una loro migliore fruizione. Non tutte le aree archeologiche o storiche o di interesse paesaggistico sono dotate di una narrazione sufficiente. Lo stesso vale per le pertinenze esterne dei musei, considerate, salvo rare eccezioni, un’appendice meno importante della parte “al chiuso”.

Le aree di questo tipo sono state spesso vissute come luogo di scampagnata o meta della visita scolastica outdoor. Forse l’occasione, considerando che nelle aree aperte il distanziamento sociale risulta più facile e il contagio meno pericoloso, è preziosa per dotarle di quella narrazione che è stata affidata, nella maggior parte dei casi, alla visita guidata o a scarsi pannelli costantemente in stato di degrado per l’impossibilità di manutenerli.

Ancora di più rispetto a prima si potrebbe sollecitare il turista a visitare non solo l’opera all’interno del museo ma i luoghi che ne hanno determinato la nascita, ossia approfittare della circostanza attuale per ricucire finalmente le connessioni con l’esterno, facendo del museo un organismo che convive con ciò che è fuori (sfruttando la peculiarità del nostro paese che conserva molto dei monumenti, dei tessuti urbani e dei paesaggi storici che erano cornice o luogo di origine di quelle opere[4]), rendendo ogni museo un ecomuseo.

Nei casi in cui questo fosse possibile si potrebbe pensare a una redistribuzione sul territorio almeno di alcune opere che sono state negli anni scorsi, per diversi motivi, accentrate in uno stesso edificio museale importante a livello regionale[5].

Incremento degli spazi introduttivi

 Con le nuove esigenze di limitazione del numero orario di fruitori sarà necessario ampliare la comunicazione all’esterno, sia quella disponibile su web e reti museali dedicate, che quella informativa generale che introduce agli ambienti da visitare, dando, ove possibile, maggiore spazio per la sosta agevole e dotazioni informative (dai video alle brochure tematiche, anche come gioco o narrazione) alle “sale d’attesa” in caso si dovessero rispettare turnazioni per gli ingressi. Si andrebbe in sostanza a realizzare ex novo oppure ad ampliare quegli ambienti introduttivi che già esistono per quei monumenti in cui, per ragioni di conservazione, ci si mette di buon grado ad aspettare il proprio turno ascoltando una narrazione che ci permetterà, una volta all’interno, di cogliere dettagli che altrimenti potremmo trascurare a causa del tempo regolamentato della visita[6].

Incremento dell’uso dei mezzi elettronici

Saranno necessariamente potenziati gli strumenti che permettono di prenotare e acquistare biglietti on line, esigenza su cui il MiBACT stava già lavorando prima dell’emergenza.

Il pannello, la didascalia, le narrazioni scritte e parlate in via indiretta restano, salvo la necessità di trasferire le informazioni di ognuno di questi livelli informativi su un portale da cui il visitatore possa liberamente attingere attraverso il suo dispositivo per evitare assembramenti.  L’uso del dispositivo personale offre maggiore sicurezza ed ha già di fatto in molti casi sostituito l’audioguida; nei nuovi interventi si dovrà agevolare la predisposizione di connessioni wi-fi e reti interne utili alla trasmissione di tutti i contenuti della visita.

museo informatico

Per chi preferisse comunque la lettura tradizionale si dovranno predisporre fogli di sala plastificati che permettano la disinfezione, oppure lasciare la possibilità di acquistare con un costo contenuto fogli di sala in formato di semplice riproduzione.

Si dovrà ampliare la disponibilità di supporti tattili ad personam come schede di sala a rilievo piuttosto che l’uso di dispositivi comuni per tutti, in modo da poterli disinfettare adeguatamente ad ogni uso.

Una lancia si può spezzare a favore di dispositivi come I visori del tipo oculus: essi, nonostante la grande qualità di riproduzione che permettono (si veda l’impianto realizzato per un ambiente della Domus Aurea a Roma) sono stati spesso accantonati nelle scelte allestitive non tanto per i costi quanto per la limitata possibilità di farne fruire contemporaneamente un grande numero di persone. In questa fase potremmo dunque riguadagnare in qualità approfittando del fatto che il gruppo di persone che può fruire dell’animazione è già di per sé limitato dalla disponibilità di postazioni. La necessità di prenotazione e organizzazione di gruppi limitati non scoraggia la domanda se l’esperienza che si ottiene dalla visita è di grande soddisfazione.

Anche in questo caso si dovrà aggiungere ai costi di gestione la disinfezione del visore e della postazione prima della fruizione da parte del gruppo successivo.

Visite guidate

La narrazione diretta affidata alla guida è difficilmente sostituibile: l’interazione con una persona cui si possono porre domande è per una parte di pubblico gradita e normalmente utilizzata; non dovrebbe comunque risultare difficile, ferma restando la necessità di dotare il gruppo di dpi, rispettare il distanziamento prescritto attraverso l’uso, già diffuso, di trasmettitori audio con cuffie. La visita guidata in ogni caso permette una migliore gestione del tempo e del percorso. Più complicata la possibilità di interazione per lo spettacolo dal vivo  nella modalità di visita teatrale: prima del covid si è iniziato infatti a progettare sperimentazioni di interpretazione teatrale dei luoghi della cultura, tema in cui il lavoro del narratore/sceneggiatore diventerebbe vitale. Sarà purtroppo necessario limitare gli spostamenti degli artisti coinvolti mantenendo la giusta distanza dai visitatori.

Due piccoli vantaggi

Accanto ai numerosi problemi possiamo considerare le occasioni di rinnovamento: dovremo attenerci a un orario stabilito, ma quell’orario ci permetterà finalmente di godere di capolavori con la corretta distanza e senza dover assalire I nostri vicini; la concentrazione sarà stimolata dalla limitatezza temporale della visita. La condivisione consisterà non nel contendersi una sala con altre cento persone ma nel rispettare il tempo a propria disposizione per poi cedere il passo agli altri.

Altra conseguenza interessante potrebbe essere l’incentivo verso la visione di opere diverse da quelle più note e pubblicizzate. Il processo che stava lentamente portando il fruitore verso un maggiore interesse per la comprensione di un contesto più ampio era in corso e ora forse subirà un’accelerazione: il  museo non potrà più coincidere con l’opera-icona[7]Forse il virus riuscirà a farci uscire dall’idea romantica del genio isolato e a farci entrare, per tutelare le opere e noi stessi, in una logica di comunità, in cui Leonardo, Raffaello, Michelangelo sono, oltre che uomini eccezionali, il frutto della cultura del loro tempo, di chi c’era a fianco e attorno a loro e di quanto detto e fatto da chi li ha preceduti: contesto che merita di essere anch’esso apprezzato e conosciuto.

intreccio

Work in progress

L’anno scorso ha portato al varo del Sistema museale nazionale. L’emergenza covid ha rallentato il processo ma stimolato il MiBACT a riflettere sugli strumenti adottati e a chiedere agli utenti in via diretta, attraverso un questionario ad hoc da poco diffuso, cosa si vorrebbe per il prossimo futuro[8].

La Direzione generale musei si sta muovendo in diverse direzioni, molte le sperimentazioni concluse o in atto. Una di esse è il concorso che ha coinvolto I giovani designer[9] nella progettazione di oggetti per il merchandising e di servizi museali. Oltre a discutere e raffinare le indicazioni per migliorare il racconto museale, o, meglio, per l’allestimento e I suoi molti racconti, si potrebbero favorire gare e premi per elementi narrativi specifici, ad esempio la redazione di didascalie e pannelli, come avviene in altri paesi, con interessanti stimoli e risultati[10].

L’emergenza in atto ci porta ad aggiustare il tiro ma non ferma il percorso verso l’obiettivo che ci siamo posti: provare, quando usciamo dal museo, complessa macchina culturale, soddisfazione e arricchimento, ossia quello che avviene quando leggiamo un buon libro: iniziamo senza sapere bene cosa aspettarci e all’ultima pagina ne vorremmo avere ancora altre perchè senza di lui ci sentiamo incompleti.

[1]     Ad esempio presso il Museo Nazionale Romano

[2]     Questo porta a gravi conseguenze anche nelle operazioni di conservazione: il restauro infatti è strettamente legato alla capacità di riconoscere l’opera. Se non si riconoscono parti importanti si rischia di cancellarle anche solo con un banale intervento di pulitura.

[3]      J.L. Borges, L’aleph, 1952; citazione da ed. Feltrinelli 1989

[4]Ad esempio,vedere la Pietà Bandini è un’esperienza che non necessariamente si conclude nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze: posso visitare le Alpi Apuane, vedere le cave di Carrara, scoprire la vita dei cavatori dal 1500 a oggi, imparare che cos’è il marmo e cosa lo rende diverso da altri materiali, quando si è cominciato a utilizzare quel particolare marmo e le politiche protezionistiche dei Romani , cosa mangiavano i cavatori e assaggiare cosa si mangia oggi in lunigiana: le diramazioni nello spazio e nel tempo sono infinite e le occasioni di narrazione si moltiplicano di conseguenza

[5]     Il MiBACT aveva avviato progetti in tal senso per le opere conservate nei depositi dei grandi musei; v. I progetti Sleeping Beauty (http://musei.beniculturali.it/progetti/progetto-sleeping-beauty )  per la valorizzazione all’estero e un nuovo progetto rivolto ai musei italiani attualmente in corso

[6]     Si veda ad es. La Cappella degli Scrovegni dove, dopo il delicato restauro, per motivi conservativi si è limitato l’accesso che avviene a orari prestabiliti. nell’attesa del proprio turno di visita si può vedere un video introduttivo in una sala appositamente predisposta.

[7]Quanto è bello e importante in sè, per la cultura, per la bellezza, per la storia, e quanto viene invece cercato dal visitatore per la notorietà mediatica? Riporto l’esperienza fatta dalla collega storica dell’arte Federica Zalabra in merito a una sua visita al Louvre lo scorso anno durante la quale risultava impossibile riuscire a vedere propriamente la Monna Lisa per l’affollamento nella sala ma si poteva in compenso stare da soli a guardare i Caravaggio e gli altri seicenteschi dimenticati nella sala  accanto.

[8]il questionario è in atto e può essere compilato a questo link: https://docs.google.com/forms/d/1nqaT_Ge9MraJIoCeTZWYDD9kCZ3yiow7_ES84URPn04/viewform?edit_requested=true

[9]     http://musei.beniculturali.it/notizie/notifiche/dam-design-and-museums-2018

[10]   Si veda ad es. Il concorso annuale dell’Amarican Alliance for Museums, https://www.aam-us.org/programs/awards-competitions/excellence-in-exhibition-label-writing-competition/

#ioraccontobreve: i vincitori della sesta settimana

Mai e poi mai pensavamo di andare così avanti con #ioraccontobreve. Questa passione sincera e disinteressata per raccontare di tutto, da ambiti personali a fatti del passato, da oggetti ad emozioni, merita molta attenzione, merita l’ascolto che in effetti sta avendo.

Oggi partiamo da quelle piccole e grandi scelte che ogni tanto nella vita, si impongono. Anche se stavolta è doloroso, per il protagonista di questo racconto, scegliere tra Lei e…lei.

Di Letizia Lusini di Monteroni d’Arbia, si nota subito una certa dimestichezza con la scrittura e un taglio sottilmente ironico. Ha gestito per molti anni un banco nei mercati antiquari, scrive da oltre dieci anni con alcune pubblicazioni al suo attivo.

LA SCELTA

Scelta

Erano stati insieme per diciotto anni. Lui l’aveva curata, coccolata, amata. Era orgoglioso di lei anche dopo tanto tempo, la portava con fierezza ad ogni evento; e lei cresceva forte, decisa, senza difetti. Poi, un giorno, arrivò Lei. Guardò lei subito con disprezzo, e dette a Lui un aut-aut. Fu costretto a scegliere.  Lui la guardava ora: lei era ai suoi piedi, distrutta. Gli venne da piangere, poi “Caro, hai finito?” Lei lo chiamò dal soggiorno. “Sì, arrivo subito” rispose. Gli salirono agli occhi due lacrime, prima che uscisse dal bagno, e scivolarono giù, finendo sulla sua barba tagliata.

Di tutt’altro ambito e certo di tutt’altra scelta si parla in questa storia, in cui torna sui nostri schermi Francesca Condò, architetto specialista in restauro dei monumenti in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT, bissando il successo della terza settimana con un racconto elegante (interessante la sequenza del titolo che se si vuole è in sé un’altra narrazione sintetica) e di gran ritmo.

ACQUA, ARIA, FUOCO, TERRA.

La gamba legata si faceva spazio nell’acqua trascinandolo verso il fondo. Sergius pensò che aveva fatto qualcosa di non rimediabile. Lo pensò con la testa e col corpo che cominciava a cercare aria prima ancora di averne bisogno. Lo aveva fatto, doveva accettarlo. Lo aveva fatto. Non ci sarebbe stato più quel dolore ottuso ma neanche l’odore dei fiori e il senso di attesa della primavera. Quando sentì il flusso addensarsi attorno al corpo pensò che l’acqua stesse spietatamente prendendo il posto dell’aria. L’acqua invece lo respinse. La gamba smise di pesare e il corpo di dibattersi e cercare aria. Salì in superficie, al canneto. Sentiva la testa vuota riempirsi di braccia o serpi o animali sinuosi. Nel suo corpo affiorò un ricordo che non trovò una collocazione nel tempo o in uno spazio fisico. Era un ricordo solido, sessuale, pieno di energia e di forza che rasentava la violenza fisica. Le braccia afferrarono l’acqua e trovarono i fusti fitti delle canne.

4 elementi

E di bis in bis ecco un altro ‘narratore seriale’ del nostro contest, Kevin Tushe, vincitore della quarta settimana, senese e Liceale che a soli16 anni, che ama rievocare con ottima tecnica momenti di un passato certamente non vissuto ma di cui non gli sfugge l’intensità. Stavolta sono l’amore e la nostalgia a fare da padroni, ma anche un fatto storico accaduto quell’anno: per la prima volta nella storia a Città del capo un droghiere di mezza età, Louis Washkansky subisce un trapianto di cuore ad opera di Christiaan Barnard, carismatico e trasgressivo chirurgo 45enne.

Città del Capo,

Dicembre 1967, la calda brezza oceanica scompigliava i tuoi capelli corvini, il sole faceva rilucere la tua pelle color dell’ebano sotto quel tiepido crepuscolo d’estate australe. La Baia del Capo era il nostro anfiteatro, noi protagonisti di un’opera che pareva infinita, il mondo spettatore inconsapevole di una vicenda dai toni fiabeschi, predestinata a vita effimera.

Barnard

In quel mio breve soggiorno in Sudafrica l’apartheid ci aveva resi trasgressivi, seppur giovani e innocenti le nostre anime si intrecciavano, le nostre pelli si mescolavano alla stregua della costa con le onde dorate, in cui il tuo sguardo ambrato si confondeva. La sera della mia partenza la televisione racconta del primo trapianto di cuore, io che a te soltanto, a Città del Capo, ho aperto il mio cuore, perché tu del mio cuore eri diventata il capo, la mia anima, ora sbiadita nei flutti sanguigni dell’Atlantico.

Un’altra tessera del domino…

domino

Altra puntata, la settima del Domino letterario: Silvia Schiavo, che era in scena su YouTube la scorsa settimana,  ha tirato in ballo  Massimiliano Milanesi, il quale a sua volta oggi ci propone la lettura di “Luoghi arcani” (ARA Edizioni) di Annalisa Coppolaro, un piccolo tour del mistero tra Siena e provincia.

Il libro – Quello di Annalisa Coppolaro è un viaggio attraverso la notte. Renderla magica sta anche alla nostra sensibilità, alla misura in cui ci apriamo alla sua ricerca che cuce insieme storia e mistero. Due ingredienti tipici dalle nostre parti. Questi non sono racconti “strani” come sono intesi da altre parti, ma i segni di un’antica convivenza fra passato e presente, fra uomini di ieri e uomini di oggi.

luoghi arcani

 

 

Per le puntate precedenti…

Narrazione ex machina: il museo dai mille volti

Questo è un articolo che non dovete perdervi. Pochi giorni fa, nel corso di un riuscitissimo seminario, mi sforzavo insieme ad altri conosciuti e assai competenti ospiti di capire (e far capire), che fine avrebbe fatto il turismo nel nostro Paese.  Gira e rigira, le parole ricorrenti, a parte quella scontata di ‘crisi’: erano ‘parola’, ‘narrazione’, ‘accoglienza‘, ‘ rispensare gli spazi‘, ‘turismo diffuso’.

Il concetto di come ripensare tutti assieme con originalità ed efficacia  lo spazio, forzati certo da questo momento di emergenza ma seguendo una linea di pensiero ed un’esigenza ben più antica, ci coinvolge tutti, e con grande, grandissima urgenza.

Provate a pensarci, non riuscirete a smentirci. E’ la gestione dello spazio la vera frontiera del mondo nel contesto attuale.

spazio vuoto

Lo spazio come cornice, setting, ambientazione, contesto, tutti da ripensare, praticamente in ogni ambito professionale e sociale.

Lo spazio sconvolto dall’emergenza che diventa un’allegoria e una figura dell’inversione, questa strana inversione di ruoli che viviamo tra quinte e personaggi, per cui quel mondo caotico che cercavamo di tenere a distanza avvolti nel nostro guscio adesso è precisamente ciò che rivogliamo indietro, e il guscio ci fa paura, perchè ci ricorda l’isolamento, quello passato e quello prossimo venturo. La comfort zone divenuta prigione, chi l’avrebbe mai detto?

Lo spazio di fruizione dei nostri territori, da ripensare perchè la grande bellezza non diventi una grande (e incolmabile) distanza.

wunderkammer

Stiamo affrontando e affronteremo questo tema da varie angolature, perchè lo riteniamo letterariamente e materialmente fondamentale. Nello spazio, il materiale e l’immaginario si saldano. La narrazione museale è un fantastico modo per entrare nel tema: pochi ne sanno davvero qualcosa, molti ne sottovalutano l’importanza.  Dopo il 18 Maggio, in compagnia di pochi guardinghi e mascherati temerari, mi sono recato in un noto Museo d’arte contemporanea, che riapriva dopo mesi: c’era la voglia di riappropriarsi della vita, anche di quella culturale, di ridare un senso a quei bellissimi luoghi da troppo tempo vuoti. Ma percorrendo le sale smisuratamente vuote, le installazioni concepite per folle di visitatori, gli spazi esterni concepiti come mere vie di deflusso e respiro tra un’orda di pullman, ho avuto come la sensazione di trovarmi a cavallo tra due epoche storiche, come se quegli  spazi mi parlassero una lingua sempre meno comprensibile, ma un’altra stentasse ancora a  farsi largo.

Ho condiviso queste mie sensazioni con Francesca Condò, che abbiamo già avuto la fortuna di conoscere e leggere su queste pagine e che ha avuto la bontà di starmi ad ascoltare, aggiungendo ai miei magri concetti la sua grande esperienza e capacità di sintesi e riflessione. Ne è nato qualcosa di inedito, interessante e molto significativo, che leggeremo in due parti. Merita il tempo che vorrete dedicarvi. 

Francesca Condò è architetto specialista in restauro dei monumenti con esperienze nel campo della pianificazione territoriale e conservazione del paesaggio, degli allestimenti museali e della divulgazione scientifica.
Dopo gli studi, presso l’Università Sapienza di Roma, e la libera professione (storia dell’architettura, rilievo, restauro, valorizzazione del paesaggio, editing e ricerche per realizzazione musei, illustrazione e grafica) e collaborazioni col MiBACT ha lavorato presso la Soprintendenza Archeologica per le Province di Sassari e Nuoro (2012-2015) svolgendo lavoro di progettista e direttore dei lavori per interventi di restauro e per la realizzazione di mostre. Da settembre 2015 è in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT con incarichi relativi a rapporti internazionali bilaterali, progettazione di mostre in Italia e all’estero. È attualmente coordinatore presso la stessa direzione dell’unità organizzativa che si occupa di allestimenti museali, ambito nel quale si sta occupando di attività per il miglioramento del racconto museale.

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IL MUSEO DAI MILLE VOLTI

spunti di lavoro per una narrazione museale post covid-19

“We have only to follow the thread of the hero-path. And when we had thought to find an abomination, we shall find a god; where we had thought to slay another, we shall slay ourselves; where we had thought to travel outwards, we shall come to the center of our own existence; where we had thought to be alone, we shall be with all the world

Joseph Campbell, The hero with a thousand faces[1]

  1. Racconto museale / racconti museali.

Quale è il significato che diamo alla locuzione “narrazione museale”? Forse non a caso non se ne è data una definizione stretta, lasciando così la possibilità a ogni entità coinvolta dal tema di scegliere la direzione che più le si confacesse.  La definizione stessa di museo[2] si applica a  realtà anche molto diverse tra loro accomunate da uno scopo definito dall’ essere al servizio della società, dall’apertura, dalla ricerca, e non soltanto, come era in un passato non troppo remoto, dalla necessità di rappresentare un paese o conservare beni culturali mobili. Sulla definizione di museo l’estesa comunità dei membri di ICOM – International Council of Museums – costantemente discute, fino alle recenti e ancora controverse proposte emerse dal convegno di Kyoto[3].

Se partiamo quindi da un oggetto, il museo, di per sè difficilmente definibile in modo univoco, non si potrà pretendere di avere una definizione di “narrazione museale” stretta.   E forse, per il narratore, è meglio così.

wurmiani

  1. Museo come macchina.

Quando penso al museo non mi vengono in mente definizioni statiche. Quando penso a un museo penso a una macchina complessa, composta da elementi eterogenei che svolgono la loro mansione ai fini di un unico scopo: essere, appunto, al servizio della comunità umana e del suo sviluppo. Si entra nella macchina, si viene frullati o cullati, a seconda della natura della macchina, e si esce cambiati. 

La complessità della macchina fa si che la narrazione non possa essere affidata al solo linguaggio scritto: sono diverse le componenti che narrano, diversi per ognuna delle componenti i registri di lettura.

Distinguiamo le discipline per avere la possibilità di descriverle scientificamente, secondo un’attitudine classificatoria che aiuta la nostra memoria e la nostra tendenza a ordinare il caos del mondo; ma è davvero possibile separare gli ingranaggi di una macchina? Distinguere, come si è quasi sempre fatto finora, l’allestimento dall’ordinamento scientifico di un museo?

Nella macchina-museo la comunicazione del contenuto dovrebbe avvenire attingendo a tutti i mezzi espressivi a disposizione e scegliendo quale privilegiare a seconda del caso, e a più livelli:

– il linguaggio scritto e parlato (pannello e didascalia – in tutte le loro versioni – strumenti audio, teatro e lettura)

– lo spazio e gli arredi (organizzazione delle sale, morfologia di arredi e vetrine, organizzazione fisica dei percorsi)

– il linguaggio visuale (uso dei colori, uso dell’illuminazione)

– il linguaggio sonoro (musica, rumori)

– altri linguaggi sensoriali (tatto, olfatto, gusto)

– le installazioni complesse (fisiche o virtuali: installazioni interattive, realtà aumentata, ricostruzioni, gaming, performance in generale etc.)

La narrazione museale include tutte queste e magari altre forme espressive.

Una narrazione museale davvero efficace dovrebbe porsi l’obiettivo di attingere a queste forme senza pregiudizi selezionando, considerate anche le possiblità concrete di realizzarle, quello che di più si avvicina al contenuto da trasmettere, ossia a quel particolare museo, a quella particolare collezione.

  1. La narrazione scritta e parlata

I musei offrono infinite possibilità di racconto.  Partire da un oggetto è sempre un grandioso pretesto e i musei sono pieni di oggetti densi e quiescenti che aspettano di essere svegliati: è come avere in mano un mazzo di tarocchi con molte, molte più carte di quelle che ha utilizzato Calvino. Infinite alla infinito storie.

Pensiamo a una statua antica. Il primo soggetto che viene in mente al narratore è la storia del personaggio raffigurato o la storia del mito di cui quello rappresentato è uno dei personaggi. Si potrebbe invece attingere in via più diretta all’essenza di ciò che abbiamo di fronte, all’inconscio collettivo, ossia a un’invariante, a ciò che quel reperto rappresenta per il nostro essere umani a dispetto del tempo, come nelle poesie di Gabriele Tinti[4] o ancora a qualcosa che allude a un significato simbolico nascosto  – e che per noi è diventato incomprensibile, o a un elemento concreto che connetta l’opera alla regione di provenienza: il materiale – e da qui le cave, il paesaggio delle cave, la lavorazione, il paese dove quella lavorazione venne fatta per la prima volta, perchè venne adottata, l’operaio che morì in quella cava, la statua rimasta nella cava perchè era troppo grande e si ruppe durante la lavorazione, quella che mai raggiunse il posto a cui era destinata perchè la nave fece naufragio o perchè i pirati se la portarono per venderla altrove, come erano stivati questi pezzi nella nave perchè non venissero danneggiati. Può essere una descrizione ecfrastica esauriente e puntigliosa oppure una descrizione vaga e fluttuante che riflette analogie e differenze spezzandole in mille frammenti di specchio.

chiavi

E così, accanto alle classificazioni scientifiche, pullulano le classificazioni di un Linneo a nostro uso e consumo, come in un caleidoscopico manuale di zoologia fantastica. In fondo nulla ha impedito al chimico Levi, scrittore di cose tanto reali e concrete da ricordarci con dolore di che pasta è fatto l’uomo, di nuotare nella pura fantascienza di un parimenti inventato Damiano Malabaila. L’importante è che sussista un’intesa, un patto di sangue alla base, tra chi racconta e chi ascolta, un’intesa che permetta sempre, in fondo alla narrazione, di distinguere ciò che è racconto e ciò che è ipotesi da ciò che è invece il frutto di un’indagine scientifica: perchè non tutti quei peculiari viaggiatori che chiamiamo visitatori hanno bisogno della stessa cosa. E per questa ragione non è affatto detto che tutti bramino il videogioco: tra i visitatori ci sono anche quelli che in un’occhiata sono soddisfatti e passano a sedersi in caffetteria a fantasticare in assenza dell’oggetto, quelli che cercano ciò che conoscono per il piacere di ri-raccontarsi una storia mitologica, quelli che stanno tanto tempo a guardare solo la stessa opera (e per i motivi più diversi, dall’attrazione sessuale per il bel torace di un eroe all’estasi estetico-materica del marmo polito), o quelli che la guardano con la lente per vedere che forma hanno i cristalli o l’inclinazione della pennellata.

Così, come in un bar della mente, nel museo entrano pubblici diversi: qualcuno vorrà un caffè senza zucchero, qualcuno un bicchiere di vino strutturato di cui coglierà i profumi complessi, qualcun altro non saprà nulla di enologia ma entrerà ad annusare perchè va di moda e resterà prigioniero del gusto della scoperta. Prodotti diversi ci sono, possono convivere sullo stesso scaffale: possiamo berli nello stesso luogo – ognuno il suo, secondo le sue preferenze, oppure assaggiarle tutte noi, quelle bevande, in diversi momenti della nostra vita non necessariamente lontani nel tempo.

 

  1. A che serve il racconto museale? Dalla cittadella fortificata alla capanna delle riunioni

Il racconto museale è uno degli strumenti con cui il museo può parlare a più persone. Scrivere per più pubblici non vuol dire instupidire il linguaggio ma al contrario affrontare il difficile compito di veicolare contenuti anche complessi senza tradirne la scientificità per renderne palpabile l’importanza per tutte le persone che formano la comunità.

La necessità di scrivere per comunicare il proprio sapere – le proprie scoperte scientifiche, storiche, archeologiche, et c. a chi non conosce il linguaggio specialistico di una disciplina presuppone al contrario una capacità in più. Fino a qualche anno fa questa esigenza è stata nel nostro paese ignorata per diverse ragioni legate probabilmente a un particolare modo di considerare il ruolo della cultura. A questo modo era associata una concezione del museo come luogo riservato agli esperti in cui si concedeva di entrare ai non iniziati purchè restassero in rispettoso silenzio, senza chiedere nulla dei misteri: non comprendere un oggetto esposto, una didascalia, era considerato motivo di vergogna. Il visitatore è stato così non solo abituato a non chiedere ma anche, dopo i primi frustranti tentativi, indotto a disertare luoghi di cui non vedeva la necessità visto che conservavano oggetti di cui non riusciva a comprendere l’importanza.

Non è un caso se l’avvicinamento al pubblico dei non esperti è iniziato da musei legati alle scienze e ai valori naturalistici del territorio: in quel frangente, infatti, non si esponeva il bel quadro, che comunque si considerava suscettibile di apprezzamento anche in assenza di informazioni, ma ci si trovava a dover porgere oggetti – o a parlare di fenomeni in assenza di oggetti- di non immediata apparente comprensione. Musei scientifici, musei antropologici e centri visita-musei del territorio così hanno sviluppato una maggiore attitudine alla didattica e una capacità di raccontare che è rimasta a lungo esclusa dai nostri musei celebri e ricchi di opere d’arte.

Altro fattore  che per i musei scientifici risultava vitale e che è sembrato a torto inutile per quelli artistici o archeologici era la connessione diretta col territorio, la spinta a condurre il visitatore anche fuori dell’edificio-museo per ritrovare contesti di cui nel museo si faceva menzione: in un museo geologico posso esporre un campione di calcare a rudiste ma non – se non in foto – l’intera parete alta duecento metri contenente la fascia alta 5 metri del livello che contiene quei fossili, parete che però il visitatore, investito del ruolo attivo di esploratore, può andare a vedere di persona con una mappa su cui è tracciato un itinerario.

Col mutare del concetto di museo, di cui si è finalmente sottolineato il ruolo di servizio pubblico, e con uno sforzo, da noi recente, per arrivare al cuore dei visitatori di ogni tipo, ci si è cominciati a interrogare sulla necessità di porgere in modo diverso anche i contenuti dei musei artistici e archeologici, e più in generale di tutti i musei rimasti fermi a una concezione iniziatica.

Non si tratta di sminuire il ruolo del curatore scientifico: si tratta di affiancare all’esperto di una certa materia che magari non ha approfondito aspetti legati alla divulgazione e al racconto, un professionista in grado di comprendere, masticare e riformulare il contenuto in modo nuovo. Qui entra in gioco il narratore il cui ruolo – che può andare da quello dell’editor/comunicatore a quello dello scrittore vero e proprio, ossia di chi dà vita a un’opera indipendente che però, grazie al legame col museo, aggiunge valore al dato scientifico.

Lo scrittore può avere da ognuno dei soggetti che partecipano alla creazione di un museo (storico, antropologo, architetto, scenografo, archeologo, storico dell’arte, illuminotecnico, impiantista et c.)  oltre che dalla visione diretta delle opere e dei luoghi, le diverse chiavi di lettura, ossia ciò ognuno di quei soggetti ritenga importante comunicare, e lavorare il testo in modo che esse siano presenti e vitali.

(fine parte I)

[1]Joseph Campbell, The hero with a thousand faces, 1949; cit. Da ed.New World Library -2008, p.18

[2] art.1 DM 2014: 1. “Il museo è una istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. è aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone a fini di studio, educazione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica.”

[3]Nel corso del convegno è stata proposta una nuova definizione di museo non accettata da tutti i comitati nazionali partecipanti perchè spinta verso una funzione meno ancorata al patrimonio da trasmettere e più legata a funzioni per le quali esistono già altri luoghi deputati rispetto al museo, che perderebbe così la sua identità tipologica specifica.

[4]https://www.raicultura.it/arte/articoli/2019/09/Poesia-e-Arte—3d975ccc-fbd7-402f-a89d-3e2ed0004350.html; http://www.raiscuola.rai.it/articoli/rovine-di-gabriele-tinti-legge-alessandro-haber/38484/default.aspx

Anatomia di un racconto Nr. 3: la prospettiva dei giorni perduti

Appena due giorni fa, a conferma del fatto che non è andato affatto tutto bene, e che in tanti siamo usciti dal guscio più stanchi e stressati che mai, e per di più con le solite vecchie idee in testa, (perchè le idee le cambi se apri le finestre e fai entrare aria fresca, ovvero fuor di metafora se incontri gente e viaggi, non se stai chiuso nell’ovattato ombelico domestico, mummificato davanti a un pc o in gabbia come i cardellini in terrazzo a cantare) mi son sentito ancora dire da addetti ai lavori che i racconti hanno un pubblico esiguo. Certo, può succedere, specialmente se non li leggiamo o se pubblichiamo solo quelli tradotti, magari di qualche decennio fa. E’ una delle più lampanti dimostrazioni del nostro provincialismo letterario. Ma lasciamo stare.

Nelle due puntate precedenti abbiamo parlato di varie cose. L ‘altra volta di che cos’è un racconto, la volta successiva, usando come apripista Thomas Bernhard, di come a volte basti una scena, una frase, un contrasto a ‘fare’ un racconto.  Questa volta  il discorso si fa più sottile, e lo introduce Buzzati. Questa rubrica, che Mirko Tondi ci sta regalando con una cadenza fissa, si chiama come ormai sapete  Anatomia di un racconto. Grazie di nuovo, Mirko, per gli spunti che ci dai!

Da parte mia e da disturbatore qual sono aggiungo che da questo testo di Buzzati emerge come ogni Editore dovrebbe pubblicare racconti di qualità, perchè chi li scrive deve possedere non solo talento, ma un bagaglio tecnico completo e fine, e non si può permettere errori (forse invece a pensar male scrivendo 500 o mille pagine, sì). Non si tratta solo di pennellare, nè di accostare colori sgargianti, come si potrebbe pensare, ma di prospettiva:  soffermatevi su quel che dice Mirko e vi accorgerete che il testo è una ablissima, fantastica sequela di vedute prospettiche, di punti di fuga che si inanellano e di susseguono, prima dalla villa, poi verso il parco, dal parco verso la discarica, dalla discarica al ventre del lettore (quel bellissimo ‘qui’ di cui Mirko parla magistramente) e infine…verso un punto irraggiungibile…

…e  poi scusare, ma oggi anche se qualcuno graziosamente legge, chi ‘rilegge’? un racconto invece da modo di farlo, e anche tante volte, dai punti di vista e dall’alto degli stati d’animo più disparati.

anatomia

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Anatomia di un racconto –I giorni perduti 

 

i giorni perduti

In questo brevissimo, microscopico (per dimensioni ma non certo per temi e significati) racconto di Dino Buzzati, tratto dalla raccolta Le notti difficili (1971), abbiamo un protagonista dal nome insolito, Ernst Kazirra, e sappiamo che da poco si è trasferito in una “sontuosa villa”. Il racconto comincia così, con l’avvistamento di un uomo misterioso, il quale porta sulle spalle una cassa uscendo da una porticina secondaria e la carica sul camion. Kazirra lo insegue a piedi, e non riuscendo a raggiungerlo lo segue in auto. Il camion giunge alla periferia della città, fermandosi al bordo di un fosso. “Lo sconosciuto”, come viene definito da Buzzati, scarica la cassa e la getta nel dirupo, cosicché questa vada a fare compagnia a migliaia di altre. A questo punto Kazirra si avvicina e rivolge la parola all’uomo, chiedendogli cosa ci sia in quelle casse. L’uomo, con un sorriso che stride con la situazione, risponde che là dentro ci sono i giorni. I dialoghi sono pochi e tutti serrati, e da questi si rivela che i giorni contenuti nelle casse non siano

 

perspettiva

giorni qualsiasi, ma i suoi giorni, quelli di Kazirra. Non solo: si tratta dei suoi giorni perduti. Siamo a metà di questo piccolo racconto (una paginetta in tutto) e siamo nel cuore della storia, laddove si scopre il mistero che ha condotto il protagonista a seguire uno sconosciuto. Kazirra guarda le casse ammucchiate laggiù nella scarpata, questo disordine fisico che ne riflette uno interiore, scende e ne apre una. Ecco che spunta “una strada d’autunno”, ma soprattutto Graziella, “la sua fidanzata che se n’andava per sempre”, e lui non riesce nemmeno a chiamarla.

Forse non vuole chiamarla. Preso da questa smania di scoprire quali altri giorni perduti contengano le casse, ne apre una seconda e ne esce una camera d’ospedale: questa volta l’immagine è dedicata al fratello morente e in sua attesa, ma lui è troppo concentrato sui suoi affari per recarsi a trovarlo. Terza cassa: c’è una “vecchia misera casa” – simbolo di un passato lontano, le umili origini abbandonate in virtù di agi e ricchezze – e davanti a un cancelletto Duk, il cane che lo attende da due anni, ormai rinseccolito e malandato.

Ed ecco la frase che cambia le carte in tavola, anzi la parola, una parola talvolta striminzita e insignificante e invece ora potente perché utilizzata nel posto giusto al momento giusto, e per questo in grado di fare la differenza: “Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco”. La parola è “qui”, perché d’improvviso avvicina incredibilmente chi legge al narratore, fino a rendere universale quella sensazione, che in fondo abbiamo provato tutti almeno una volta nella vita, di aver perso un’occasione importante o magari più d’una, un rimpianto che comincia a circolare dentro di noi ed esplode nello stomaco. È come se il narratore si spogliasse dei suoi panni di cronista distaccato e ci indicasse sul suo corpo il punto esatto in cui si materializza quella “certa cosa”. Buzzati avrebbe potuto dire “lì”, oppure avrebbe potuto dire “Si sentì prendere da una certa cosa alla bocca dello stomaco”. Invece no: la frase rimane semplicissima nella sua costruzione e nel linguaggio, eppure quella parola piazzata in quel punto la rende decisiva.

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La figura dello scaricatore di casse adesso viene descritta “come un giustiziere”. Chi incarna allora lo sconosciuto? La sua coscienza, la voce della ragione, una giustizia terrena, il suo doppio, la morte, il tempo scaduto? Kazirra ora inizia a supplicarlo, chiedendo di lasciargli almeno quei giorni, solo quei tre. Crediamo che il protagonista abbia realizzato ormai i suoi errori e speriamo in una svolta dettata dai suoi sentimenti, ma ecco che invece propone in cambio dei soldi dicendo di essere ricco, di essere disposto a dare tutto quello che serve per ottenere quei giorni.

Vorrebbe contrattare con lo scaricatore, vorrebbe comprarlo così come ha comprato tutte le altre cose materiali, compresa la sua sontuosa villa. Ma no, non è possibile. Poi il finale: un gesto dell’uomo a indicare che è ormai troppo tardi, tutto ciò che è stato ha assunto il carattere dell’irreparabile, e dopo avviene la sua scomparsa insieme alle casse. Tutto svanisce, come in un racconto di fantasmi o in una scena immaginaria. Infine c’è un’ultima, eloquente frase: “E l’ombra della notte scendeva”. Kazirra, non c’è nessuna speranza per te in questa notte impietosa.

Numerose sono le domande alla fine della lettura nonostante la brevità del racconto, ma una necessaria selezione mi impone di privilegiarne alcune più di altre, e allora eccone un paio: visto che Buzzati sognava molto e da quanto riferisce in delle interviste scriveva anche dei suoi sogni, può darsi che queste atmosfere angosciose e rarefatte siano state proprio ispirate da un sogno? Considerato l’impianto kafkiano del racconto e l’adorazione di Buzzati per il genio praghese, sarà mica un caso che il nome del protagonista cominci con la lettera K?

I giorni perduti è un racconto fantastico e allegorico, ma anche capace di lanciare messaggi precisi, indiscutibili. Il protagonista ha passato la sua vita ad accumulare soldi e in preda all’avidità del possesso, e questo lo sappiamo da pochi ed efficaci elementi. I giorni che ha vissuto rappresentano il simbolo di tutti quelli che al contrario non è riuscito a vivere, perché troppo impegnato su sé stesso. Vien da dire che oltre ai suoi giorni, Kazirra abbia perso per sempre anche la felicità. O che, magari, non l’abbia mai trovata.