Questa storia vi piacerà. E’ un misto inedito di realtà, ordine e magia.
Quando abbiamo presentato i racconti della settima settimana di #ioraccontobreve abbiamo detto che uno di quei tre racconti nascondeva un enigma. Alcuni di Voi hanno fatto delle ipotesi, con nostra grande soddisfazione tutte sbagliate (vuol dire che poi non era così ovvio indovinare),
Per meglio dire, non si trattava in fin dei conti di un’opera della fantasia, ma della rielaborazione, pure letterariamente assai valida, di un fatto vero, per quanto sconcertante.
Si trattava de LA TOVAGLIA NUZIALE di Francesca Condò, che vi invitiamo a rileggere.
Cosa c’è di misterioso o magico in un’antica tovaglia nuziale?
Ora, abbiamo parlato spesso del concetto di spazio, e proprio con Francesca ne abbiamo discusso in relazione agli spazi museali e alla loro ‘narrazione’. Per narrare un museo ci vuole tanta tecnica, tanta conoscenza, ma anche, crediamo, un pizzico di creatività al posto giusto e delle storie curiose che possano invogliare il pubblico non esperto alla visita. Vi ricordate il mio manifesto per il Museo Marino Marini? quello è stato un bell’esempio di coinvolgimento e creatività. Tanti Musei importanti hanno scelto la strada della gestione intelligente e consapevole dei social, esistono ad esempio bellissimi account Instagram che, giorno dopo giorno, lavorano proprio su piccoli oggetti e curiosità che scatenano l’interesse di milioni di follower (tra cui, insospettabilmente, tanti teenager)
Ora, leggete questa storia e diteci se non sareste invogliati a visitare il Museo cui appartiene la nostra famosa…tovaglia magica.
————————————————————————————
DALLA MATERIA AL RACCONTO: GLI OGGETTI HANNO UN’ANIMA? di F. Condò
Un lavoro di squadra può portare a risultati densi, spesso inattesi. Come nei romanzi complicati emergono, anche per chi si occupa di beni culturali, istanze diverse, dissapori e gelosie che portano fuori obiettivo. A volte, però, la squadra funziona, si verificano imprevisti fortunati e un oggetto conservato in deposito apre a mondi che vanno al di là della materia più o meno preziosa e della forma più o meno gradevole. Lasciarli emergere è compito collettivo: di chi decide di affrontare la sfida, di chi ha la competenza scientifica di decodificarli, di chi ha la capacità di andare oltre e vedere l’uomo al di là dell’oggetto, con le sue credenze, dolori e paure che esorcizza con azioni e riti.[1]
Dal deposito.
Nel 2016 il MiBACT ha avviato la ristrutturazione e riallestimento del Museo Nazionale Giovanni Antonio Sanna di Sassari. Come molti dei musei italiani il Sanna nasce da una donazione privata mista di arte e archeologia e si arricchisce negli anni con altre cesssioni e acquisti, molte di beni di interesse etnoantropologico, con una successiva prevalenza di materiali archeologici provenienti dagli scavi della Soprintendenza nel nord Sardegna[2]. Il lavoro di riallestimento prevedeva che, senza togliere importanza ai contresti provenienti da scavi recenti, si mettesse in luce la figura del fondatore e il fenomeno del collezionismo, la cui memoria nei primi anni dell’archeologia scientifica si era scelto di ignorare, forse perchè modus operandi superato ma ancora troppo vicino per essere valutato in una prospettiva storica.
Molti reperti di interesse etnografico erano stati nel tempo posti in deposito per lasciare spazio a quelli archeologici di recente scoperta e, forse, perchè considerati, in una certa fase, meno rilevanti per la mission del museo[3]. Già nel 2011 l’allora Soprintendente Bruno Massabò lo aveva notato e aveva operato in modo che si tornasse a esporre al pubblico almeno una selezione scelta di abiti tradizionali. Per la raccolta etnografica non si era ancora verificato, come avvenuto altrove, un passaggio da “oggetti del come eravamo”, testimonianza fossile di usi cambiati rapidamente nel secondo dopoguerra, allo status di “museo interpretativo”[4] con quel valore dinamico che, anche attingendo alla lettura degli oggetti del passato recente, permette di comprendere e ripensare quanto ritenuto fondativo per una comunità e di comunicarlo all’esterno.
Il museo conserva tra le altre la collezione donata da Gavino Clemente. Clemente, ebanista, direttore di un’affermata ditta di mobili artigianali, raccolse oggetti per la sezione dedicata alla Sardegna della rassegna etnografica seguita da Lamberto Loria per l’expo di Roma del 1911, rassegna che poi costituì il nucleo del Museo delle arti e tradizioni popolari[5]. Clemente disegnò la camera da pranzo di Grazia Deledda e presso il Museo Sanna è conservata una credenza che ha lo stesso disegno di quella realizzata per lei. Con Clemente fece amicizia Amelie Posse Brazdova, svedese,vera europea impegnata nella lotta per l’indipendenza ceca e, di seguito, in quella contro il nazismo, che descrive oggetti della collezione nel libro in cui racconta del suo confino in Sardegna tra 1915 e 1916[6]. Fu Grazia Deledda a consigliare alla Posse la scelta di Alghero come domicilio coatto. Queste, assieme agli oggetti, sono le storie che vorremmo tirar fuori dai depositi.
Il lavoro di studio in vista del riallestimento è in corso. Nuovi spunti di narrazione potrebbero emergere da qui in poi. Così come è accaduto per la tovaglia nuziale della storia di cui vi riporto, di seguito, la genesi.
L’antefatto.
Nel 1954 il Museo Sanna acquisisce la collezione di tessuti e merletti di Amilcare Dallay. Nella collezione è presente, seconto quanto recita l’inventario, un “piccolo telo ricamato a punto croce con disegni e diciture. 0,76×0,75”. Il telo non è ritenuto di grande importanza e, considerata anche la vulnerabilità dei manufatti in fibra naturale, subisce il destino di quasi tutti i tessuti della collezione, ossia viene conservato in deposito.
Nel 2007 l’antropologa V. Sanna Randaccio è incaricata di una schedatura dei manufatti tessili[7]; l’analisi, di cui si riporta il testo per intero, evidenzia gli aspetti tecnici e iconografici, indicando la presenza di una scritta:
“n.20-00157331 -donazione Dallay; XIX sec. Barbagia. Tela di lino, filo di cotone; Taglio, cucitura manuale, ricamo a punto croce.
Tovaglietta quadrata in tela ricamata a punto croce con cornice a motivi geometrici e ricamo centrale a motivi di alberi fioriti e un cavallino (?) stilizzati in colore verde e rosa. Presenta due scritte in rosa lungo i bordi di due lati opposti, mentre lungo gli altri sono ripetute in serie delle iniziali in verde. Alla fine delle scritte compaiono due ricami simili a figurine maschili stilizzate. L’estremità dei bordi è decorata da motivi geometrici simili a piccole arcate.”
Nel 2014 la storica dell’arte Alex Rusu, presente presso il museo per un tirocinio sui tessuti tradizionali, esamina il manufatto e lo aggiunge alla sua schedatura come:
“Tovaglietta in tela ricamata sui bordi con il motivo dela casa (o chiesa) e nel campo centrale con motivi fitomorfi e zoomorfi. I bordi sono ricamati anche con uno scritto. I colori del ricamo sono: azzurro, giallo, verde, arancione.”
* manufatto di particolare interesse antropologico, di cui non è sicuro l’uso come “tovaglietta”.
Qualcosa rispetto al presunto uso del manufatto non la convinceva del tutto.
Un mistero svelato?
Fino a un paio di generazioni fa le donne dedicavano molte ore al cucito e al ricamo: la preparazione del corredo nuziale era considerata di grande importanza. Ma che succede a una persona inserita in una realtà sociale e storica in cui il matrimonio è fondamentale e una donna è portata a investire tutto nel suo ruolo di sposa e custode della famiglia se, mentre prepara il corredo pensando alla persona che sta per sposare – e di cui magari è innamorata, quella persona la tradisce o cambia idea?
Che succede dentro di lei se il germoglio fiorito (che dall’antichità a oggi è simbolo evidente di fertilità) le muore tra le mani mentre lo sta ancora finendo di raffigurare?
Nel 2018 l’antropologa Gianna Saba è incaricata della redazione dei contenuti per la nuova sezione etnografica. In tale circostanza intraprende un esame approfondito dei materiali presenti in deposito e delle schedature pregresse e redige una nuova scheda tecnica.
“un pezzo unico, rarissimo e di grandissimo valore socio-antropologico. Si tratta indubbiamente di un’ingiuria o una maledizione scagliata da una donna verso un uomo e probabilmente anche verso un’altra donna. (…) L’iscrizione sembra recitare: “Flammasa tiene de provare no te llames gadoni mundane e traitori te deves llamare o vitoria palma chi gadoni se lama a ds no lo amas de su ferru is – ma chi provas su inferru no fes la gloria i es de sempre eternu no pasas agonia cun la virgen maria tiengo de cuntratari no te lames gadoni mundane e traitori te deves lamare”
Da questa base di lavoro nasce il testo, sempre a firma di Gianna Saba, chiaro e completo, che potremmo definire “narrazione museale scientifica” e di cui si prevede l’uso nell’allestimento con due diversi livelli di approfondimento:
- primo livello:
“UNA STRANA TOVAGLIETTA
Questa tovaglietta quadrata in tela ricamata a punto croce proveniente dalla collezione di tessuti di Amilcare Dallai veniva definita dal collezionista “rarissima”.
Il manufatto contiene, infatti, su due lati opposti, alcune frasi in lingua sarda di non facile interpretazione:
“MACHI PROVAS SU INFERRU NO FES LA GLORIA IES DE SEMPRE ETERNU NO PASAS AgONIA CON LA VIRGEN MARIA TIENgO DE CONTRATTARI NO TE LAMES GAdONI MUNDANU E TRAITORI TE PUEDES LAMARE [“Ma che tu provi l’inferno non (ti) faccia la gloria Gesù (IESus) di sempre eterno (riposo), (che tu abbia) un agonia interminabile (non abbia riposo l’agonia), con la Vergine Maria devo contrattare, non ti chiami Gadoni, mondano e traditore ti puoi chiamare”]
FLAMASA TIENES DE PROVARE NO TELAMES GADONI MUNDANE E TRAITORI TEPUEDES OVITORIA PALMA CHI GADONI SE LAMA A d.S NO LO AMAS DE SU FERRU IS. [Le fiamme devi provare, non ti chiami Gadoni mondano e traditore ti puoi chiamare. O Vitoria Palma che Gadoni si chiama a D.S. non lo ami, del ferro (inferno) [è] lui].
Negli altri due bordi, “AS [ripetuto più volte] AA [ripetuto più volte] I D E T I”
Il resto dell’oggetto è decorato da una cornice a motivi geometrici. Il motivo centrale pare essere una variante dell’albero della vita che sembra dipanarsi da una sorta di figura femminile stilizzata culminante in trifogli e girasoli. Compaiono poi altre figure, tra cui un leone rampante e delle figure di difficile interpretazione (scorpioni? esseri cornuti?)
- secondo livello o di approfondimento:
“Sull’oggetto sembra esser stata ricamata una vera e propria maledizione. Dopo averlo descritto come “mondano” e “traditore”, l’autrice del ricamo scaglia la propria ira verso un uomo (D.S.?) augurandogli di provare in eterno le fiamme dell’inferno.
Non è poi chiaro se la frase successiva “O Vitoria Palma chi gadoni se lama a d.s. no lo amas” [O Vittoria Palma/ che si chiama gadoni/ a d.s. (iniziali?) non lo ami”] costituisca un ammonimento a se stessa o ad una presunta rivale in amore.
Al di là delle circostanze specifiche, l’iscrizione ha chiaro intento malevolo. È presumibile immaginare uno scenario in cui l’oggetto potesse esser stato confezionato, in un primo momento, con intenti benefici, magari inizialmente destinato al corredo nuziale. In questo senso sembrano andare i ricami centrali e parte dei motivi ornamentali dispiegati sui bordi, di significato eminentemente protettivo, come il leone rampante, gli elementi vegetali e il ricamo da alcuni autori definito come “arca dell’alleanza” ripetuto sul bordo. In un secondo momento l’oggetto, persa l’originaria connotazione di “tovaglia della sposa”, si è trasformato in mezzo di attacco magico.
L’oggetto costituisce un’importante attestazione etnografica del rilievo conferito, nelle magie delle culture tradizionali, alla parola pronunciata, considerata forza agente. Ancor di più, scrivere qualcosa significa invocare il potere della parola. È variamente attestata dalle fonti, ad esempio, la capacità comunemente attribuita agli uomini di chiesa di utilizzare con intento magico le sacre scritture presso culture, come quella sarda, a forte maggioranza illetterata. In Sardegna la scrittura di formule magiche si ritrova in amuleti conosciuti come “breves” o “pungas”, che contengono spesso preghiere, invocazioni o formule magiche. Ricamare, come in questo caso, una maledizione, equivale a renderla eterna.”
L’oggetto, la vicenda e non ultima la capacità di intuizione e la chiarezza nel porgere i contenuti di questa narrazione scientifica hanno determinato l’urgenza di far emergere in superficie il dolore tutto umano e la rabbia della protagonista del breve racconto, nato quasi per germinazione spontanea.
La vicenda non è del tutto chiara e non sappiamo con crtezza assoluta chi fossero i protagonisti, quindi una parte di mistero rimane insoluta. Certamente non sono personaggi famosi. Sono uomini e donne ”normali” impegnati nella lotta del quotidiano e gettati nell’angoscia del veder negata la realizzaione di un sogno di normalità scandito da un sacramento.
NOTE
[1]Un ringraziamento a Gianna Saba, che ha lavorato sui materiali della collezione etnoantropologica del Museo Nazionale G.A. Sanna, nel frattempo divenuta funzionario antropologo per il MiBACT e ora in servizio presso la SABAP di Cagliari, per la gentile disponibilità e professionalità.
[2] Il progetto è nato mentre il museo era ancora gestito dalla Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro e col direttore Gabriella Gasperetti; il gruppo di lavoro che ha curato il progetto era composto da diverse professionalità; v. F. Condò, G. Gasperetti, L’eredità negata: il Museo Nazionale G.A. Sanna in Sassari dal recupero delle origini alle nuove connessioni, in – Romarchè. Roma 2016. Si ringrazia l’attuale direttore, Bruno Billeci, per la possibilità di pubblicare la foto della tovaglia e la ditta Fallani per aver fornito il fotogramma.
[3] Colpisce la lungimiranza di Antonio Taramelli, che nel 1927 afferma, a proposito dell’abito tradizionale sardo: “…questa grazia antica che non trova piu accoglienza che tra i buon gustai stranieri o nella claustrale pace delle Gallerie e dei Musei; necessità è quindi che nei Musei regionali si accolgano almeno le prineipali, se non le estreme reliquie di un mondo, scomparso forse senza ritorno” A. Taramelli, La collezione di merletti e tessuti sardi di Amilcare Dallay, in BA serie II, n. IV, ottobre 1927
[4]Essenziale su questo la riflessione degli antropologi, una sintesi operativa molto chiara in Vito Lattanzi, VincenzoPadiglione, Storie estreme, storie future, 2012
[5]Il Museo delle arti e tradizioni popolari, intitolato a Loria, è ora parte del MuCIV, Museo delle Civiltà.
[6]vi fa cenno V. Sanna Randaccio nella sua schedatura del 2007; Amelie Posse Brazdova, Interludio di Sardegna, 1933. v. un’efficace sintesi del personaggio in L. Candiani https://www.dols.it/2016/02/18/amelie-posse-brazdova/
[7] La schedatura contiene riferimenti a usi tradizionali e simbologie di grande interesse e che sono stati in parte inclusi nella sezione oggetto di riallestimento.