Macerie


Di Francesca Condò, architetto specialista in restauro dei monumenti in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT, abbiamo pubblicato storie e articoli di grande interesse. E’ con piacere che ora pubblichiamo questa storia.

“Le rovine dei terremoti somigliano a quelle delle guerre”

“Le rovine sono rovine. E poi non lo sa che la natura ce l’ha con noi?” Sladjo si voltò. Credeva di essere solo. Doveva toglierselo quel vizio di pensare a voce alta. L’uomo si avvicinò e gli tese la mano.

“Piacere, Giovanni. È qui per la ricostruzione?”.

L’uomo fece un ultimo tiro, spense la sigaretta contro un pilastro di cemento rimasto in piedi ma non la buttò a terra. La passò nella mano sinistra e rispose al saluto. Portava a tracolla un borsone di tela blu che faceva rumore di ferraglia.

“Non so” rispose “in qualche modo, si”.

Due occhi azzurro intenso disegnati come se avessero attorno una linea di matita lo studiarono.

“C’è ancora parecchio da fare, qui. Il problema è che Campotosto è un paese quasi tutto di seconde case. I romani ci vengono d’estate, quando giù l’asfalto diventa appiccicoso. Ci venivano, anzi. C’è l’aria del lago e poi da Roma non ci si mette tanto”.

L’uomo incrociò le braccia. La camicia di lino era un po’ consumata ma pulita e in ordine. I pantaloni da lavoro pieni di polvere. Non portava un cappello anche se il sole a quell’ora non era piacevole.

“Lei non è di Roma?” chiese Sladjo, che aveva riconosciuto l’inflessione dell’uomo. Giovanni sorrise. Era difficile, evidentemente, camuffare la cadenza pigra e disillusa del romano, anche se si usavano parole e sintassi perfettamente italiane.

“Venga, le offro un caffè”. Sedettero su due panche, una di plastica e una di legno, nel bar arrangiato, sotto a un ombrellone di tela gialla che faceva pensare al mare degli anni sessanta più che alle montagne che li circondavano silenziose. Una piccola tendopoli di prefabbricati era da qualche anno la piazza. Un paio di bandiere al vento. Due alimentari, per i panini, la frutta e prodotti del posto più o meno autentici, a seconda della confezione: quelli che erano abituati a vendere agli escursionisti.

“A quest’ora veramente sarebbe meglio un panino e una birra. Li conosce i coglioni di mulo?”

L’uomo scosse la testa sollevando un sopracciglio. “no, non pensi male, niente di strano. È una specie di salame: lo chiamano così per la forma. In effetti sembra un sacchetto di pelle spiegazzata. C’è dentro, in mezzo, un pezzo di lardo. È buono. Un po’ grasso forse per chi fa ormai una vita da scrivania come me. Ma lei è giovane”.

Doveva avere poco più di una trentina d’anni. Lo guardò, sperando che gli raccontasse qualcosa. Si trovava bene coi suoi libri ma da qualche giorno si annoiava perchè gli ex colleghi, dopo il terremoto, non erano più saliti. Aveva voglia di parlare.

“Un caffè va benissimo” disse. “devo fare alcune cose e poi rimettermi in macchina”

“E’ con qualche ditta per la ricostruzione?”.

“No. Faccio l’architetto per uno studio a Roma. Ma in realtà oggi non sono qui per lavoro”. Fece un cenno verso la grande casa quadrata che era rimasta isolata, su una collinetta di macerie.

“Era sua?”.

Sladjo scosse la testa. Un ragazzo, poco più di un bambino, con un grembiule bianco che arrivava sotto alle ginocchia, si era accostato e aveva preso le ordinazioni. Si spicciò perchè la madre lo chiamava dal bancone dove erano appoggiati due vassoi pronti per gli altri tavoli.

“Mia sorella è venuta qui a fare una camminata in montagna con un gruppo di amici, tanti anni fa, e ha visto che quella la vendevano. Ha fatto di tutto per comprarla, perchè le ricordava casa di nostra madre vicino a Blagaj. ”.

“Dove?”.

“In Bosnia. Era in un posto in mezzo alla campagna non lontano da Blagaj. Ma io penso che le piacesse anche guardare il lago laggiù. Magari era quello che le ricordava il fiume e la sorgente”.

Le nuvole proiettavano ombre alla base della montagna. La parte di sopra però continuava a riflettere la luce.

“Da quando siete qui?”.

“Dalla fine del 1992. Abitavamo a Mostar, coi nostri genitori. Sembra una vita fa. Forse è una vita fa”.

“Mi ricordo le cronache. Quando hanno minato il ponte”.

“Lo Stari Most”

Una nuvola velò per qualche istante il sole. Sladjo guardò verso le montagne.

Il ragazzo appoggiò sul tavolo i caffè e un piattino con quattro ciambelline al vino pallide e irregolari. Giovanni versò mezza bustina di zucchero nel caffè. “All’inizio ero addolorato. E impaurito. Non riuscivo a pensare che non avrei più avuto attorno mio padre e mia madre, che erano morti veramente. Poi è venuta la rabbia. Avrei voluto poter sparare infaccia a quegli assassini. Ma non ai cecchini. Ai padroni dei cecchini. A quelli che giocano con la vita degli altri. Stati Uniti, Italia. Perchè lasciarci in un bagno di sangue? Poi dopo ci mandano i patroni per la ricostruzione, quelli che ci insegnano il restauro e ci scrivono le linee guida per la conservazione del patrimonio architettonico. Dopo aver lasciato che lo bombardassero”

Pensò al ponte che aveva rivisto solo nei servizi alla tv. Una copia tutta nuova. Una copia ipocrita. Gli venne improvvisamente voglia di baklava. Gli era tornato alla mente, quel sapore di miele fresco e nocciole, assieme all’odore della polvere e del metallo di quando erano scappati. Spezzò una ciambellina e ne mangiò un frammento.

“Le guerre seguono logiche loro. Se ne sbattono della buona architettura. Se ne sbattono della storia. E poi che avete fatto?”.

“Poi ho conosciuto Emilio, che stava con un gruppo di medici italiani. Quando i miei sono stati portati in ospedale l’ho visto al pronto soccorso che armeggiava con fili e guanti in mezzo a una pozza di sangue per salvare una bambina. La bambina è morta. Lui è sparito. Sono uscito per far prendere aria a mia sorella e l’ho visto in un angolo, nell’intercapedine tra due pareti alte, dove stavano le caldaie e le prese d’aria dell’ospedale. Stava appoggiato a un muro e piangeva. Piangeva come se fosse la figlia. Mi sa che non aveva ancora tanta esperienza come medico”.

Accese una sigaretta e fece un tiro, guardando la casa smezzata all’orizzonte. “E’ lui che ci ha portati qua. Non so ancora bene come c’è riuscito ma lo ha fatto. Io avevo diciassette anni e lei venti”.

“Anche sua sorella è venuta a vivere a Roma?” Scosse la testa. “Ana abitava a L’Aquila”

Giovanni si morse l’interno della guancia.

“Deve scusarmi. Questo modo di chiedere cose può dare fastidio. È un mio difetto. Mi viene voglia di scoprire, di sapere cose che sono difficili da scoprire e da raccontare. Penso che per quello ho scelto di fare l’archeologo quando ero giovane. Avevo la ricerca del detective ma non l’assillo del dover mettere in galera un colpevole. E adesso che sono in pensione mi manca la terra. Posso stare tante ore in archivio, e lo faccio. Ma l’odore della terra. Lo sporco della terra. Sentirsi sfiancati la sera, al tramonto, anche solo per il gusto di farsi una doccia. Veder venire fuori le cose. E imbastirci sopra un racconto, perchè, alla fine, molte sono congetture, prove o non prove”

“Viene con me a vedere?”.

Giovanni sorrise. Sladjo prese il portafogli ma Giovanni lo fermò con un cenno e lasciò cinque euro sul tavolo salutando da lontano i gestori.

“Quindi viene da Mostar…aspetti, le mostro una cosa buffa. Venga, tanto è qua dietro” Lo portò nella direzione opposta a quella della casa di Ana e si infilò in un vicolo. Si vedevano puntelli di legno. I puntelli salivano lungo la facciata e si piegavano a sostenere il balcone di un caseggiato degli anni venti del Novecento ingabbiandolo in un telaio di legno che ne trasformava la percezione. Da diverse angolazioni quella puntellatura trasformava una casa abruzzese in una casa ottomana.

Sladjo si mise a ridere. “Assurdo no? Uno fa una puntellatura contro il crollo e una casa abruzzese, un blocco parallelepipedo con un balconcino appena accennato, diventa una casa tradizionale balcanica”

Sladjo incrociò le braccia. “E’ stato all’est?”,

“Solo in Turchia. Quando viaggiavo ancora con mia moglie. Ma so che da voi la tradizione costruttiva è simile”.

Sladjo si fermò a guardare un’altro edificio, più grande, all’angolo della via principale, con un porticato a grandi arcate. Doveva avere una sua dignità, in origine. Si chiese se avesse abbastanza tempo per avvicinarsi e guardare meglio la pietra, un calcare marnoso con una sfumatura nocciola. Ora, a parte le lesioni a “x” portate dalle scosse forti, mostrava i segni di un riuso a ribasso, indifferente a qualunque forma di coerenza e di armonia: intonaco di cattiva qualità, rinzaffi di cemento tra le pietre, tirate fuori senza motivo nella parte bassa, le solette di cemento dei balconcini e infissi che il porticato non riusciva a nascondere – se fosse stato più profondo almeno li avrebbe accolti in un’ombra pietosa- messi forse negli anni Settanta, probabilmente al posto dei grandi portoni in legno da rimessa che proteggevano gli ambienti al piano terra. Si accarezzò la barba di un giorno.

“Secondo lei ha fatto più danni il terremoto o l’alluminio anodizzato?” “Touché” rispose Giovanni ridendo.

Ripresero a camminare lungo il marciapiede, diretti verso la casa di Ana. Passarono di nuovo davanti alla piazza provvisoria. Sladjo si mise a guardare la parete massiccia di un edificio in pietra di fattura nuova, rimasta in piedi assieme alla scala. Solo un pezzo di facciata con la scala. Il resto era raso a terra. Da lì, almeno, le macerie le avevano tolte.

“Non era una casa, era un hotel. Bello nuovo, sistemato da poco. Guardi là. Graniti” indicò una sala di cui restava intatto il pavimento. Un rivestimento diverso saliva lungo le pareti, mozzate a cinquanta centimetri dal piano di calpestio. “aspetti, ce ne ho un altro, di confronto interessante” Si mise a cercare sul telefono. “spero di non averla cancellata. Ecco”

Gli mostrò lo schermo. C’era un buco, in mezzo a palazzi nuovi, di cemento. Cinque o sei piani. E nel buco muri rasati, pile di mattoni. Un apparente disordine.

“Cos’è?”

“Aspetti” allargò la foto coi polpastrelli. “È Beirut, ma non un posto bombardato e neanche crollato per il terremoto. Sono le terme romane. Guardi questa parete…” indicò i resti di un muro alto meno di un metro da terra. Un rivestimento in marmo chiaro venato correva su pavimento e parete. “Non è il risultato di una guerra, è uno scavo archeologico. Ce ne sono tanti, così, dappertutto: il pavimento resta intatto, magari spaccato ma è tutto là, perchè il crollo lo ricopre e andarsi a prendere i materiali per riusarli e difficile e faticoso. Allora chi viene dopo che il posto è stato abbandonato stacca fino dove può staccare, se restano in piedi le pareti, oppure cerca in superficie.

Invece quando si fa uno scavo archeologico succede come qua: arriva qualcuno con un camion e la pala meccanica e tira su le macerie, e lo scavo rimane vuoto. Di crolli e di persone”.

Sladjo si mise a ridere “Non mi fraintenda: ovviamente la tecnica è diversa, nello scavo si va più lenti per ricostruire la storia del posto, strato per strato, senza le pale meccaniche. Qui il terremoto c’è stato appena adesso, sono due anni, e non c’è molta storia da ricostruire. E per fortuna in questo caso neanche gente da tirare fuori. Però stanno tardando a intervenire. I ragazzini si sono abituati a giocare in mezzo alle macerie. Per loro è normale come fare i castelli di sabbia in riva al mare”.

“Che strano. Anche il Libano è un posto dove convivevano diverse genti con diverse religioni. E anche là a loro è venuto facile innescare una guerra. Disse Sladjo, quasi a sè stesso. “C’è da ricostruire le case” aggiunse ad alta voce, come a dare a sè stesso una spinta verso l’ottimismo. Poi gli venne in mente che anche la ricostruzione era un business. “Beh, in qualche caso a dire la verità è successo che le bombe tirassero fuori i resti antichi. Come a Palestrina. C’è stato?”.

“No. Mi piacerebbe”.

“Le bombe hanno distrutto le case moderne e sotto sono venuti fuori i resti del santuario. Uno dei più importanti dell’antichità”.

“Si, il Santuario della Fortuna. Questo lo so”.

“A quel punto hanno deciso di non ricostruire”.

Guardarono da lontano la casa, alta sul suo mucchio di macerie, pareva un piccolo castello su una collina. Dietro la montagna, coperta di boschi e ombre.

“Qui però non sono venuti fuori santuari”.

Girarono a destra, dopo il bar. Scesero lungo una stradina fino alla via parallela. Da là in giù la via ricoperta da un asfalto svogliato che si sfaldava in buche diventava un viottolo di campagna coperto di ciottoli calcarei e bordato da campi incolti. In fondo alla stradina c’era il lago. La luce calda faceva i verdi più verdi e l’azzurro denso contro le montagne sovrapposte all’infinito nella prospettiva aerea perfetta di un quadro quattrocentesco senza protagonisti. Si fermarono di fronte al cancello. Era in piedi, tra due colonnette di tufelli. A fianco c’era una finestra col telaio reso sbilenco dal peso. Dietro al vetro crepato e spaccato nel mezzo c’erano pezzi di pareti e solai, le frattaglie, le budella dell’edificio, assieme alle membra scomposte del crollo.

“Mi sa tanto che la chiave non serve” disse Sladjo. Giovanni scosse la testa. “Non è facile avere attorno queste cose. Però alla fine uno rimane ipnotizzato”. Fissò il quadro elettrico, intatto, appoggiato su pietre e pezzi di pavimento. Su uno di quei pezzi si leggevano gli strati: l’allettamento di cemento, le vecchie piastrelle, poi uno strato di colla recente e un parquet di quelli economici fatti da tanti listelli incollati assieme. “Pensa di poterla rimettere su?”

Silenzio. “Tutto, si può rimettere su. Sono ancora vivo, no? L’unica cosa..”

“L’unica cosa?”.

“Non so se sarà già a posto per quando mia sorella uscirà dall’ospedale. Mi piacerebbe farle unasorpresa. Ma ci vuole tempo. E soldi”. Giovanni rise. “Se ha bisogno di un operaio per scavare via queste macerie non faccia complimenti:mi fa piacere darle una mano. Così faccio un po’ di movimento”

“Le hanno dovuto ingessare tutte e due le gambe dopo il terremoto a l’Aquila. Però poi qualcosa è andato storto e adesso l’hanno dovuta operare di nuovo per sistemare un pezzo che si era saldato male. Ana non era contenta, di rientrare in ospedale. E ancora meno di dover stare di nuovo immobile. Sono felice che non sia mai venuta a vedere questo posto nè dopo il 2009 nè dopo il 2017. L’Aquila era già abbastanza”.

Camminarono per qualche metro senza parlare. Sladjo prese il pacchetto e offrì una sigaretta a Giovanni che la rifiutò. Si fermò ad accenderla e rimise il pacchetto nella tasca della camicia. Giovanni pensò alle cronache sulla guerra in Bosnia Tanti anni fa. Una vita fa. Cecchini appostati sui tetti. Macerie.

I terremoti, il tempo. Non sono già abbastanza? Perchè pure la guerra?

“Perchè ci hanno progettati male” rispose Sladjo, guardando il cielo in mezzo a due pareti in rovina dove era rimasta sospesa una nuvola bianca come un pezzo di cotone idrofilo.

Guardò verso il mucchio di macerie della casa. I tondini stavano nudi, sospesi nell’aria come bastoncini di liquirizia. Qualcuno penzolava in basso, frammenti di forati attaccati a distanza, come perline di una gigantesca collana. Giovanni pensò a certe opere di Kounellis.

“Mi sa che qui non c’è rimasto più niente” disse Sladjo.

“A volte le cose non sono quelle che sembrano”rispose Giovanni, alzando le spalle. Si arrampicò sulle macerie, nella parte in cui il muro era più basso, si chinò a raccogliere. Gli tese una cornice col vetro spaccato e dentro una fotografia con due bambini davanti al ponte di Mostar.

Lo Stari Most, ponte che attraversa la Neretva e che da il nome alla città di Mostar nell’attuale Bosnia, era stato costruito a metà Cinquecento per volere di Solimano I. Simbolo della città e della convivenza pacifica di culture diverse fu fatto saltare nel 1993 durante il corso della guerra della Bosnia-Erzegovina. La ricostruzione, finanziata dall’UNESCO, ha restituito alla città un simbolo ma non il vero monumento. Campotosto (AQ) sorge presso il lago artificiale omonimo. L’area è attraversata dalla faglia di Gorzano. Ad oggi non sono stati avviati lavori di ricostruzione dopo il sisma del 2017 che ha raso al suolo gran parte del paese.

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Il compianto

Prosegue una di quelle tante sperimentazioni cui teniamo particolarmente, legate alla narrazione e alle sue forme e ai suoi spazi, alla scrittura calata in spazi e contesti particolari. Con Francesca Condò continuiamo quella esperienza, iniziata qualche tempo fa  di approccio all’insolito e al meno noto nel mondo dell’arte sul limite sottile tra finzione e realtà. Potrebbe trattarsi di un diario di viaggio di pari passo nel reale e nell’immaginario o di altro… il tempo lo dirà. Il fatto che sia speciale ce lo confermano un fatto molto semplice: i diversi piani di lettura che si propongono e, al contempo, …quelli di osservazione . Sta di fatto che si tratta di una lettura davvero piacevole e per questo (e per tutto ciò che verrà) la ringraziamo.

compianto

Lo farete per me? Un cartone. Uno solo. Vi prego” accostò il volto per parlargli all’orecchio.
“Togliti. Sei un idiota, mi chiedi una cosa assurda. Davvero credi che non se ne accorgeranno?”
“Da queste parti non hanno mai visto Zorzi. Mai. E lui poi non voleva essere ritratto e anche di autoritratti mica ne ha fatti tanti”. Sebastiano si immalinconì.
“Avrei voluto averne un ritratto. Lo avrei tenuto per me. E ora invece niente. Se n’è andato. Possiamo essere così? Vento. Polvere. Qualche polvere colorata, se va bene”
“Hm. Non è lui il problema”, lo accarezzò sulla testa; accostò la mano alla gota e lo baciò con dolcezza. “Va bene. Avrai il tuo disegno. Almeno dopo fatti crescere la barba. Dannazione della mia vita. Non siete altro che sanguisughe. Tutti”.

compianto 4

Il ragazzo gridò la gioia della vittoria. Gli chiese se aveva già qualcosa in mente, se desiderasse qualcosa in particolare. Rispose di avere in sé solo immagini confuse. Tranne il suo volto, che stava inciso nella sua testa come se lo avesse di fronte, però prima che il male colpisse. Certamente il corpo perfetto, bello, amato, ai piedi della Madonna. Era morto proprio cogli stessi pochi anni di Cristo. Lo avrebbe poi fatto lui bianco, pallido, alla luce impietosa della luna, illuminato da un sudario ancora più bianco, bianco come il lenzuolo di Venere, in una notte cupa, buia e senza speranza. E così, fissato nella pala, non avrebbe mai smesso di piangerlo. Il maestro aveva scosso la testa, chiedendosi ancora come sperasse di non farsi riconoscere solo perchè portava un velo che neanche copriva il volto e una tunica azzurra, con quella sua mascella diritta, con quel collo taurino; quale idiota avrebbe potuto credere che quelle mani ossute e squadrate appartenessero a una donna? La vergine Maria, per giunta. Una sibilla, un angelo, va bene. Ma la Madonna?

Sebastiano non aveva sentito ragioni e quando il disegno fu completo si mise a guardarlo completamente assorbito, senza riuscire a spostare la testa da quel pensiero doloroso. Il Maestro pensò cupamente che se lo avessero riconosciuto nei panni di Maria lo avrebbero impiccato. Quasi si pentì di averglielo fatto, quel disegno. Poi però il giorno dopo gli era sembrato già più sereno, come se avesse finalmente iniziato a metabolizzare quella morte o almeno aveva finalmente smesso di parlare di Venezia e questo gli bastò. Quando finì il dipinto anche le sue lacrime erano asciutte, come se le avesse usate tutte per sciogliere i colori e fissare sul legno il dolore dell’assenza. A parte il fatto che sul fondo non c’erano le colline del nord con le case coloniche dalla perfezione maniacale, piuttosto scheletri di case e rami secchi – pure i bei resti antichi si erano fatti rovine, monconi che appena stavano in piedi. A parte lo sfondo infernale, però, era diventato bravo, il ragazzo. Niente da dire. E Zorzi, il magnifico veneziano, pensò il maestro guardando il corpo disteso a terra ai piedi della massiccia figura ammantata, era stato davvero una grande perdita.

Giorgio (Zorzo o Zorzi) da Castelfranco, noto come Giorgione, muore a Venezia nel 1510 a 33 anni durante un’epidemia. Sebastiano Luciani, che sarà poi soprannominato del Piombo, che lavorava presso la bottega di Giorgione, lascia Venezia e si trasferisce a Roma dove conosce Michelangelo. La Pietà della Chiesa di S. Francesco, ora nel Museo Civico di Viterbo, raffigura la Madonna col corpo del Cristo deposto ai piedi in un ambiente notturno. Il cartone sembra sia stato disegnato per Sebastiano da Michelangelo. Il volto del Cristo è assai simile a quello del San Giorgio raffigurato da Tiziano in una Sacra Conversazione ora al Museo del Prado.

La trama e l’ordito di un mistero

Questa storia vi piacerà. E’ un misto inedito di realtà, ordine e magia.

Quando abbiamo presentato i racconti della settima settimana di #ioraccontobreve abbiamo detto che uno di quei tre racconti nascondeva un enigma. Alcuni di Voi hanno fatto delle ipotesi, con nostra grande soddisfazione tutte sbagliate (vuol dire che poi non era così ovvio indovinare),

Per meglio dire, non si trattava in fin dei conti di un’opera della fantasia, ma della rielaborazione, pure letterariamente assai valida,  di un fatto vero, per quanto sconcertante.

Si trattava de LA TOVAGLIA NUZIALE di Francesca Condò, che vi invitiamo a rileggere.

Cosa c’è di misterioso o magico in un’antica tovaglia nuziale?

tovaglia

 

Ora, abbiamo parlato spesso del concetto di spazio, e proprio con Francesca ne abbiamo discusso in relazione agli spazi museali e alla loro ‘narrazione’. Per narrare un museo ci vuole tanta tecnica, tanta conoscenza, ma anche, crediamo, un pizzico di creatività al posto giusto e delle storie curiose che possano invogliare il pubblico non esperto alla visita. Vi ricordate il mio manifesto per il Museo Marino Marini? quello è stato un bell’esempio di coinvolgimento e creatività. Tanti Musei importanti hanno scelto la strada della gestione intelligente e consapevole dei social, esistono ad esempio bellissimi account Instagram che, giorno dopo giorno, lavorano proprio su piccoli oggetti e curiosità che scatenano l’interesse di milioni di follower (tra cui, insospettabilmente, tanti teenager)

Ora, leggete questa storia e diteci se non sareste invogliati a visitare il Museo cui appartiene la nostra famosa…tovaglia magica.

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DALLA MATERIA AL RACCONTO: GLI OGGETTI HANNO UN’ANIMA? di F. Condò

 

Un lavoro di squadra può portare a risultati densi, spesso inattesi.  Come nei romanzi complicati emergono, anche per chi si occupa di beni culturali, istanze diverse, dissapori e gelosie che portano fuori obiettivo. A volte, però, la squadra funziona, si verificano imprevisti fortunati e un oggetto conservato in deposito apre a mondi che vanno al di là della materia più o meno preziosa e della forma più o meno gradevole. Lasciarli emergere è  compito collettivo: di chi decide di affrontare la sfida, di chi ha la competenza scientifica di decodificarli,  di chi ha la capacità di andare oltre e vedere l’uomo al di là dell’oggetto, con le sue credenze, dolori e paure che esorcizza con azioni e riti.[1]

Dal deposito.

Nel 2016 il MiBACT ha avviato la ristrutturazione e riallestimento del Museo Nazionale Giovanni Antonio Sanna di Sassari. Come molti dei musei italiani il Sanna nasce da una donazione privata mista di arte e archeologia e si arricchisce negli anni con altre cesssioni e acquisti, molte di beni di interesse etnoantropologico, con una successiva prevalenza di materiali archeologici provenienti dagli scavi della Soprintendenza nel nord Sardegna[2]. Il lavoro di riallestimento prevedeva che, senza togliere importanza ai contresti provenienti da scavi recenti, si mettesse in luce la figura del fondatore e il fenomeno del collezionismo, la cui memoria nei primi anni dell’archeologia scientifica si era scelto di ignorare, forse perchè modus operandi superato ma ancora troppo vicino per essere valutato in una prospettiva storica.

Molti reperti di interesse etnografico erano stati nel tempo posti in deposito per lasciare spazio a quelli archeologici di recente scoperta e, forse, perchè considerati, in una certa fase, meno rilevanti per la mission del museo[3]. Già nel 2011 l’allora Soprintendente Bruno Massabò lo aveva notato e aveva operato in modo che si tornasse a esporre al pubblico almeno una selezione scelta di abiti tradizionali. Per la raccolta etnografica non si era ancora verificato, come avvenuto altrove, un passaggio da “oggetti del come eravamo”, testimonianza fossile di usi cambiati rapidamente nel secondo dopoguerra, allo status di  “museo interpretativo”[4] con quel valore dinamico che, anche attingendo alla lettura degli oggetti del passato recente, permette di comprendere e ripensare quanto ritenuto fondativo per una comunità e di comunicarlo all’esterno.

Il museo conserva tra le altre la collezione donata da Gavino Clemente. Clemente, ebanista, direttore di un’affermata ditta di mobili artigianali, raccolse oggetti per la sezione dedicata alla Sardegna della  rassegna etnografica seguita da Lamberto Loria per l’expo di Roma del 1911, rassegna che poi costituì il nucleo del Museo delle arti e tradizioni popolari[5].  Clemente disegnò la camera da pranzo di Grazia Deledda e presso il Museo Sanna è conservata una credenza che ha lo stesso disegno di quella realizzata per lei. Con Clemente fece amicizia Amelie Posse Brazdova, svedese,vera europea impegnata nella lotta per l’indipendenza ceca e, di seguito, in quella contro il nazismo, che descrive oggetti della collezione nel libro in cui racconta del suo confino in Sardegna tra 1915 e 1916[6]. Fu Grazia Deledda a consigliare alla Posse la scelta di Alghero come domicilio coatto. Queste, assieme agli oggetti, sono le storie che vorremmo tirar fuori dai depositi.

Il lavoro di studio in vista del riallestimento è in corso. Nuovi spunti di narrazione potrebbero emergere da qui in poi. Così come è accaduto per la tovaglia nuziale della storia di cui vi riporto, di seguito, la genesi.

dettaglio 2

L’antefatto.

Nel 1954 il Museo Sanna acquisisce la collezione di tessuti e merletti di Amilcare Dallay.  Nella collezione è presente, seconto quanto recita l’inventario,  un “piccolo telo ricamato a punto croce con disegni e diciture. 0,76×0,75”. Il telo non è ritenuto di grande importanza e, considerata anche la vulnerabilità dei manufatti in fibra naturale, subisce il destino di quasi tutti i tessuti della collezione, ossia viene conservato in deposito.

Nel 2007 l’antropologa V. Sanna Randaccio è incaricata di una schedatura dei manufatti tessili[7]; l’analisi, di cui si riporta il testo per intero, evidenzia gli aspetti tecnici e iconografici, indicando la presenza di una scritta:

“n.20-00157331 -donazione Dallay; XIX sec. Barbagia. Tela di lino, filo di cotone; Taglio, cucitura manuale, ricamo a punto croce.

Tovaglietta quadrata in tela ricamata a punto croce con cornice a motivi geometrici e ricamo centrale a motivi di alberi fioriti e un cavallino (?) stilizzati in colore verde e rosa. Presenta due scritte in rosa lungo i bordi di due lati opposti, mentre lungo gli altri sono ripetute in serie delle iniziali in verde. Alla fine delle scritte compaiono due ricami simili a figurine maschili stilizzate. L’estremità dei bordi è decorata da motivi geometrici simili a piccole arcate.”

Nel 2014 la storica dell’arte Alex Rusu,  presente presso il museo per un tirocinio sui tessuti tradizionali, esamina il manufatto e lo aggiunge alla sua schedatura come:

 “Tovaglietta in tela ricamata sui bordi con il motivo dela casa (o chiesa) e nel campo centrale con motivi fitomorfi e zoomorfi. I bordi sono ricamati anche con uno scritto. I colori del ricamo sono: azzurro, giallo, verde, arancione.”

* manufatto di particolare interesse antropologico, di cui non è sicuro l’uso come “tovaglietta”.

Qualcosa rispetto al presunto uso del manufatto non la convinceva del tutto.

Un mistero svelato?

Fino a un paio di generazioni fa le donne dedicavano molte ore al cucito e al ricamo: la preparazione del corredo nuziale era considerata di grande importanza. Ma che succede a una persona inserita in una realtà sociale e storica in cui il matrimonio è fondamentale e una donna è portata a investire tutto nel suo ruolo di sposa e custode della famiglia se, mentre prepara il corredo pensando alla persona che sta per sposare – e di cui magari è innamorata, quella persona la tradisce o cambia idea?

Che succede dentro di lei se il germoglio fiorito (che dall’antichità a oggi è simbolo evidente di fertilità) le muore tra le mani mentre lo sta ancora finendo di raffigurare?

Nel 2018 l’antropologa Gianna Saba è incaricata della redazione dei contenuti per la nuova sezione etnografica. In tale circostanza intraprende un esame approfondito dei materiali presenti in deposito e delle schedature pregresse e redige una nuova scheda tecnica.

“un pezzo unico, rarissimo e di grandissimo valore socio-antropologico. Si tratta indubbiamente di un’ingiuria o una maledizione scagliata da una donna verso un uomo e probabilmente anche verso un’altra donna.  (…)  L’iscrizione sembra recitare: “Flammasa tiene de provare no te llames gadoni mundane e traitori te deves llamare o vitoria palma chi gadoni se lama a ds no lo amas de su ferru is  – ma chi provas su inferru no fes la gloria i es de sempre eternu no pasas agonia cun la virgen maria tiengo de cuntratari no te lames gadoni mundane e traitori te deves lamare”

 Da questa base di lavoro nasce il testo, sempre a firma di Gianna Saba, chiaro e completo, che potremmo definire “narrazione museale scientifica” e di cui si prevede l’uso nell’allestimento con due diversi livelli di approfondimento:

  • primo livello:

“UNA STRANA TOVAGLIETTA

Questa tovaglietta quadrata in tela ricamata a punto croce proveniente dalla collezione di tessuti di Amilcare Dallai veniva definita dal collezionista “rarissima”.

Il manufatto contiene, infatti, su due lati opposti, alcune frasi in lingua sarda di non facile interpretazione:

 “MACHI PROVAS SU INFERRU NO FES LA GLORIA IES DE SEMPRE ETERNU NO PASAS AgONIA CON LA VIRGEN MARIA TIENgO DE CONTRATTARI NO TE LAMES GAdONI MUNDANU E TRAITORI TE PUEDES LAMARE [“Ma che tu provi l’inferno non (ti) faccia la gloria Gesù (IESus) di sempre eterno (riposo), (che tu abbia) un agonia interminabile (non abbia riposo l’agonia), con la Vergine Maria devo contrattare, non ti chiami Gadoni, mondano e traditore ti puoi chiamare”]

dettaglio 1

FLAMASA TIENES DE PROVARE NO TELAMES GADONI MUNDANE E TRAITORI TEPUEDES OVITORIA PALMA CHI GADONI SE LAMA A d.S NO LO AMAS DE SU FERRU IS. [Le fiamme devi provare, non ti chiami Gadoni mondano e traditore ti puoi chiamare. O Vitoria Palma che Gadoni si chiama a D.S. non lo ami, del ferro (inferno) [è] lui].

Negli altri due bordi, “AS [ripetuto più volte] AA [ripetuto più volte] I D E T I”

Il resto dell’oggetto è decorato da una cornice a motivi geometrici. Il motivo centrale pare essere una variante dell’albero della vita che sembra dipanarsi da una sorta di figura femminile stilizzata culminante in trifogli e girasoli. Compaiono poi altre figure, tra cui un leone rampante e delle figure di difficile interpretazione (scorpioni? esseri cornuti?)

  • secondo livello o di approfondimento:

“Sull’oggetto sembra esser stata ricamata una vera e propria maledizione. Dopo averlo descritto come “mondano” e “traditore”, l’autrice del ricamo scaglia la propria ira verso un uomo (D.S.?) augurandogli di provare in eterno le fiamme dell’inferno.

Non è poi chiaro se la frase successiva “O Vitoria Palma chi gadoni se lama a d.s. no lo amas” [O Vittoria Palma/ che si chiama gadoni/ a d.s. (iniziali?) non lo ami”] costituisca un ammonimento a se stessa o ad una presunta rivale in amore.

Al di là delle circostanze specifiche, l’iscrizione ha chiaro intento malevolo. È presumibile immaginare uno scenario in cui l’oggetto potesse esser stato confezionato, in un primo momento, con intenti benefici, magari inizialmente destinato al corredo nuziale. In questo senso sembrano andare i ricami centrali e parte dei motivi ornamentali dispiegati sui bordi, di significato eminentemente protettivo, come il leone rampante, gli elementi vegetali e il ricamo da alcuni autori definito come “arca dell’alleanza” ripetuto sul bordo. In un secondo momento l’oggetto, persa l’originaria connotazione di “tovaglia della sposa”, si è trasformato in mezzo di attacco magico.

L’oggetto costituisce un’importante attestazione etnografica del rilievo conferito, nelle magie delle culture tradizionali, alla parola pronunciata, considerata forza agente. Ancor di più, scrivere qualcosa significa invocare il potere della parola. È variamente attestata dalle fonti, ad esempio, la capacità comunemente attribuita agli uomini di chiesa di utilizzare con intento magico le sacre scritture presso culture, come quella sarda, a forte maggioranza illetterata. In Sardegna la scrittura di formule magiche si ritrova in amuleti conosciuti come “breves” o “pungas”, che contengono spesso preghiere, invocazioni o formule magiche. Ricamare, come in questo caso, una maledizione, equivale a renderla eterna.”

L’oggetto, la vicenda e non ultima la capacità di intuizione e la chiarezza nel porgere i contenuti di questa narrazione scientifica hanno determinato l’urgenza di far emergere in superficie il dolore tutto umano e la rabbia della protagonista del breve racconto, nato quasi per germinazione spontanea.

La vicenda non è del tutto chiara e non sappiamo con crtezza assoluta chi fossero i protagonisti, quindi una parte di mistero rimane insoluta. Certamente non sono personaggi famosi. Sono uomini e donne ”normali” impegnati nella lotta del quotidiano e gettati nell’angoscia del veder negata la realizzaione di un sogno di normalità scandito da un sacramento.

NOTE

[1]Un ringraziamento a Gianna Saba, che ha lavorato sui materiali della collezione etnoantropologica del Museo Nazionale G.A. Sanna, nel frattempo divenuta funzionario antropologo per il MiBACT e ora in servizio presso la SABAP di Cagliari, per la gentile disponibilità e professionalità.

[2] Il progetto è nato mentre il museo era ancora gestito dalla Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro e col direttore Gabriella Gasperetti; il gruppo di lavoro che ha curato il progetto era composto da diverse professionalità; v. F. Condò, G. Gasperetti, L’eredità negata: il Museo Nazionale G.A. Sanna in Sassari dal recupero delle origini alle nuove connessioni, in  – Romarchè. Roma 2016. Si ringrazia l’attuale direttore, Bruno Billeci, per la possibilità di pubblicare la foto della tovaglia e la ditta Fallani per aver fornito il fotogramma.

[3] Colpisce la lungimiranza di Antonio Taramelli, che nel 1927 afferma, a proposito dell’abito tradizionale sardo: “…questa grazia antica che non trova piu accoglienza che tra i buon gustai stranieri  o nella claustrale pace delle Gallerie e dei Musei; necessità è quindi che nei Musei regionali si accolgano almeno le prineipali, se non le estreme reliquie di un mondo, scomparso forse senza ritorno” A. Taramelli, La collezione di merletti e tessuti sardi di Amilcare Dallay, in BA serie II, n. IV, ottobre 1927

[4]Essenziale su questo la riflessione degli antropologi, una sintesi operativa molto chiara in Vito Lattanzi, VincenzoPadiglione, Storie estreme, storie future, 2012

[5]Il Museo delle arti e tradizioni popolari, intitolato a Loria, è ora parte del MuCIV, Museo delle Civiltà.

[6]vi fa cenno V. Sanna Randaccio nella sua schedatura del 2007; Amelie Posse Brazdova, Interludio di Sardegna, 1933. v. un’efficace sintesi del personaggio in L. Candiani https://www.dols.it/2016/02/18/amelie-posse-brazdova/

[7]     La schedatura contiene  riferimenti a usi tradizionali e simbologie di grande interesse e che sono stati in parte inclusi nella sezione oggetto di riallestimento.

 

#ioraccontobreve: settima settimana!

Ed ecco anche il settimo sigillo su questa bella manifestazione online.

     SETTE

Diciamo subito che uno di questi racconti nasconde un fatto molto curioso, ma assolutamente reale. Un mistero che sveleremo più avanti.

Per ora, lasciando intatta la suspense, visto che si parla anche di settimo sigillo, diciamo che il filo conduttore dei premiati di questa settimana, è stato il tempo e l’inesorabilità delle cose. Viene il dubbio che vi siate parlati, prima di spedirci i racconti, perché, come vi sarete accorti leggendo i testi delle precedenti 6 settimane, non è stato poi difficile trovarvi temi e situazioni assai vicine. I pensieri a volte sono davvero contagiosi, riecheggiano di testa in testa per giungere fino a noi.

Il tempo nelle sue manifestazioni, si sa, va preso al volo. Dare tempo al tempo, quando di può, ci porta a sedimentare le idee e a volte a cambiarle.  Ma attenti allora, in quel fatidico momento, ad afferrare l’occasione e fare la mossa giusta, potrebbe non esserci ‘tempo’ per rimediare! Ce lo spiega, con humour stile oltremanica, Romeo Lucchi, genovese, uomo di teatro, affabulatore che da trent’anni si dedica ad attività legate al palcoscenico e al movimento espressivo. Suoi racconti sono stati premiati e antologizzati (La farinata, Se tornassi indietro), alcuni li trovate in rete e sulle principali piattaforme di podcasting.

LA TAZZA DEL VATE

TAZZINA CAPODIMONTE

Era la prima volta che partecipava a un’asta. Aveva con sé contanti e libretto degli assegni. Il battitore presentò l’articolo: tazza da tè appartenuta al sommo poeta. Unico pezzo rimasto di un prezioso servizio in porcellana di Capodimonte. Base d’asta: cento euro. Accarezzò l’idea di acquistarla. Col Gabriele erano conterranei anche se lui era milanese d’adozione. Magari l’aveva portata alle labbra la Duse, pensò. A cinquecento euro ebbe un’epifania: come faceva a essere certo che fosse veramente del Gabriele? Decise di lasciar perdere. Fanculo la tazza– disse tra sé con un gestaccio che gli assicurò il pezzo per seicento euro. 

Poi c’è il tempo fra i tempi: il tempo della vita e quello della morte. Il tempo possiede una soluzione di continuità? Riflessioni macabre? Forse, ma in questi mesi c’è stato tempo per riflettere su tutto, come non si faceva da lungo tempo.  Qui è Daniele Possanzini Daniele Possanzini pisano, manager ed esperto forense di informatica e di sicurezza informatica, a prendersi la patata bollente e tentare di spiegarcelo. Il suo romanzo d’esordio,  Pervinca – enigma della molestia per una donna geniale, è stato pubblicato nel 2019.

SENZA SOLUZIONE DI INCOMPRENSIBILITA’.

Non c’è mai tempo di chiedere informazioni a chi muore, di chiederle proprio in quell’istante misterioso in cui sta vivendo la sua morte. Prima e dopo non è come nell’istante in cui esattamente accade.

VITA MORTE

È come quando ci si addormenta. Prima si è svegli e poi si è addormentati. Ma nel passaggio?Chi si è mai fermato a gustare quel momento sottile, guardando di qua e di là?Dove sono il tempo e lo spazio quando si perde coscienza?

Non è anche quello un immenso silenzio improvviso che avvolge? Non è un mistero anche quello?

E poi c’è l’amore, che talvolta supera il tempo, ma qualche volta invece non gli resiste e poi c’è l’immortalità…perché qualcosa ci lasciamo sempre dietro, le nostre opere restano. Ma non è detto che questo, come si potrebbe pensare, abbia sempre una connotazione positiva e rosea: anche le maledizioni per le promesse tradite del tempo e dell’amore, a volte restano eterne. Francesca Condò, nell’inviarci questo racconto, il suo terzo per #ioraccontobreve, ci dice che si sta abituando a prendere il caffè da voi. Me lo immagino coi tavoli di legno consumati, il Caffè letterario 19, una bella luce come è in questa stagione, e qualche tavolo fuori in mezzo a vasi di fiori un po’ in disordine. Bella immagine. Grazie, queste 41 parole ce le teniamo con piacere per noi!!!! Può tornare quando vuole, come tutti Voi!

LA TOVAGLIA NUZIALE

Aveva consumato tutte le sue ore di luce su quel ricamo. Aveva scelto i disegni uno a uno: fiori, foglie, anche l’arca dell’alleanza perché come nella Bibbia il loro sarebbe stato un patto eterno. Forte come la morte. E invece l’amore non era durato.

LA CASSAPANCA

E della forza era rimasta solo la morte. E l’odio. Lo aveva proseguito, il ricamo. Lo aveva proseguito e punto dopo punto aveva intessuto lacrime e sangue e la promessa d’amore era diventata maledizione; l’albero della vita era ora mandragora che la lacerava, un infinito lamento. Prima solo nella mente. Dopo si era fatta verbo nella sua bocca. Aveva evocato tutte le forze celesti perché la aiutassero a dannarlo. A dimenticare il traditore. Mundane e traitori! Ma la maledizione si era fatta parola scritta e il dolore, intessuto, era diventato anche lui eterno.

Narrazione ex machina: il museo dai mille volti/2 parte

Abbiamo già detto che questo è un articolo che non dovete perdervi. Lo ribadiamo ma non ce n’è bisogno perchè gli apprezzamenti ricevuti ci hanno ampiamente confermato che è un tema da seguire e lo toccheremo ancora.

Intanto, per chi si fosse perso la prima parte, eccola qui.

Il concetto di come ripensare tutti assieme con originalità ed efficacia  lo spazio, forzati certo da questo momento di emergenza ma seguendo una linea di pensiero ed un’esigenza ben più antica, ci coinvolge tutti, e con grande, grandissima urgenza.

Lo spazio come cornice, setting, ambientazione, contesto, tutti da ripensare, praticamente in ogni ambito professionale e sociale.

spazio4

Lo spazio sconvolto dall’emergenza che diventa un’allegoria e una figura dell’inversione, questa strana inversione di ruoli che viviamo tra quinte e personaggi, per cui quel mondo caotico che cercavamo di tenere a distanza avvolti nel nostro guscio adesso è precisamente ciò che rivogliamo indietro, e il guscio ci fa paura, perchè ci ricorda l’isolamento, quello passato e quello prossimo venturo. La comfort zone divenuta prigione, chi l’avrebbe mai detto?

Lo spazio di fruizione dei nostri territori, da ripensare perchè la grande bellezza non diventi una grande (e incolmabile) distanza.

Francesca Condò, ci propone la seconda parte del suo lavoro. La ringraziamo nuovamente per il suo contributo.  Merita il tempo che vorrete dedicarvi. 

Francesca Condò è architetto specialista in restauro dei monumenti con esperienze nel campo della pianificazione territoriale e conservazione del paesaggio, degli allestimenti museali e della divulgazione scientifica.
Da settembre 2015 è in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT con incarichi relativi a rapporti internazionali bilaterali, progettazione di mostre in Italia e all’estero. È attualmente coordinatore presso la stessa direzione dell’unità organizzativa che si occupa di allestimenti museali, ambito nel quale si sta occupando di attività per il miglioramento del racconto museale.

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IL MUSEO DAI MILLE VOLTI/2

spunti di lavoro per una narrazione museale post covid-19

  1. Cosa e come raccontare?

Essendo il termine racconto museale ancora in corso di definizione, o avendone accettato la polisemia o, meglio, il suo essere un termine che include tante categorie, possiamo considerare tutte le possibilità che ci si offrono vedendo quale di esse sia più vicina al museo in questione. Romanzo o racconto? Racconto breve? Poesia? Una guida oggettiva? Un diario di viaggio? Una guida di viaggio su micro itinerari tematici? Di un viaggio lungo un percorso a bivi in cui diventiamo parte della narrazione?

Nella scrittura non è corretto imporre una regola. Se la narrazione però ha lo scopo di essere a servizio di un preciso obiettivo la regola si dovrà invece scegliere. Quello che importa è che, una volta scelta, essa venga seguita con coerenza.

Pongo sul piatto la mia versione della regola, una scelta accanto alle tante possibili.

Raccontare per il museo. Per raccontare nel museo o raccontare il museo si dovrebbe partire da qualcosa che ne è parte. Sembra una banalità ma non lo è. Siamo circondati, specie dopo il lancio delle aziende che si occupano di realtà virtuale, da numerose animazioni che non hanno un legame reale con l’istituzione che le ospita. Non ritengo corretto prendere a pretesto un elemento del museo per non dire di fatto nulla né su esso, né sul museo. Il museo diventerebbe l’astratta cornice di un esercizio letterario che potrebbe essere svolto in qualsiasi altro luogo.

Riconoscibilità dell’integrazione artistica. La narrazione museale non può inventare una realtà che induca il visitatore a credere in un’informazione non verificata. Esattamente come avviene nel restauro, la riconoscibilità, in un’istituzione scientifica, è fondamentale. La narrazione può e deve essere meravigliosa e onirica ma in quel caso deve sempre essere riconoscibile in quanto tale, ossia come narrazione o interpretazione e non come verità oggettiva se gli elementi a nostra disposizione sono insufficienti a porgerla al pubblico come dato scientifico. Vale per la realtà virtuale visuale, per le installazioni artistiche e vale anche (o forse di più, dato il valore testimoniale che storicamente ancora attribuiamo alla scrittura in questa parte di mondo) per un testo.

Tutti questi potenziali veicoli di coinvolgimento sono utili a creare un rapporto emozionale e a suggerire interpretazioni ma vanno, in ogni caso, chiaramente letti come opere d’arte legate al proprio tempo di creazione e non devono generare falsi verosimili deformando la storia e la morfologia di quello che è esposto.

Cercare l’uomo dietro al reperto.  Spesso guardiamo a ciò che esposto come a oggetti inerti perchè abbiamo dimenticato che chi li ha fatti ci assomigliava. Averli pensati e fatti nasce da esigenze simili alle nostre. Le epigrafi che lamentano la morte di un compagno, i recipienti per cucinare e conservare, le tabulae honestae missionis dell’agognato e raggiunto pensionamento dopo i pericoli della guerra. Questa umanizzazione degli oggetti esposti  sta già emergendo in forme narrative che si stanno sperimentando in diversi istituti museali[1]. Leggere l’uomo dietro all’oggetto ce lo rende familiare e crea un’affezione più difficilmente attingibile attraverso un testo puramente scientifico-descrittivo.

uomo nell'ombra

Parola e segno. L’iconografia dimenticata. In Italia negli ultimi anni il lavoro degli illustratori è stato ritenuto marginale, come se il disegno dovesse servire unicamente ad abbellire un pannello o un testo. Da poco tempo stanno emergendo libri in cui l’immagine ha riacquisito un ruolo importante. Salvo rari casi, nei musei italiani questo strumento narrativo è molto trascurato pur essendo una potente modalità di amplificazione nella trasmissione del contenuto permettendo anche di limitare la traduzione.

Lo scarso uso dell’immagine per comunicare un contenuto ha una sorta di triste parallelo nella diffusa perdita di capacità di decodificare il linguaggio visuale delle opere. Non siamo più abituati a leggere oltre, non siamo più abituati a interpretare i simboli del passato. È un fenomeno da non trascurare: l’arte e la raffigurazione, dall’antichità a oggi, attinge a piene mani al doppio, al simbolo, al segno significante.  Perdere questa capacità interpretativa non è soltanto perdere frammenti di conoscenza: è come perdere materialmente pezzi dell’opera[2]. Questa incipiente perdita costituisce paradossalmente una grande occasione di narrazione. Permette di raccontare interi mondi nascosti e seppelliti in opere che, per la maggior parte delle persone, ormai sono solo quello che sembrano.

  1. Governare la barca: apologia del timone

“Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”

 J.L. Borges, L’aleph[3]

Dal punto di vista oggettivo è utile, nel momento in cui si affronta un nuovo allestimento, ossia una nuova narrazione (penso infatti che non sia possibile distinguere le due cose: nella macchina-museo si narra con tutto: con lo spazio, coi colori, con la scrittura, con la musica, con la poesia, con le superfici lisce o ruvide, con odori e sapori) avviare l’operazione con la redazione di un timone.

borges

Timone, oltre che un termine nautico, è un termine del gergo tipografico che funziona perfettamente anche per la gestione di un racconto museale più o meno complesso.

È spesso difficile, in media, far accettare l’idea di uno strumento potentemente organizzativo e progettuale al direttore di un museo o ad amministratori che hanno molta fretta e poco tempo a disposizione e che sono abituati a gestire l’emergenza innescando un accrescimento caotico nella fretta di dimostrare l’efficienza.

Il timone può essere un potente e versatile strumento di organizzazione dei contenuti.

Contiene ogni elemento, ogni oggetto, ogni testo, ogni impianto analogico o virtuale che costituisca la macchina-museo inserito nello spazio; non è rigido perchè può essere nel tempo arricchito, deformato, modificato in una dilatazione potenzialmente infinita. Ci permette però, allo stesso tempo, una visione d’insieme, ossia di essere consapevoli in ogni momento e per ogni pezzetto di spazio che cosa c’è e accade, di immaginare come e cosa ci potrebbe essere, e, soprattutto, di valutare le parti nelle loro relazioni reciproche e in relazione al fruitore.

Lo si può considerare un ibrido fra la composizione grafica di un libro e l’organizzazione dello spazio scenico di uno spettacolo teatrale -spazio e movimento degli attori- o la sceneggiatura di un film.

Avere un timone per ogni museo – che associa la descrizione, anche grafica, dello spazio fisico, alla narrazione che genera i percorsi, permetterebbe oggi, superato lo scoglio iniziale della prima redazione, una più facile gestione, inclusa la modifica degli spazi per il contenimento di un’emergenza.  È probabile ad esempio che, per ragioni di sicurezza, almeno in alcuni casi, si debba accantonare la fruizione libera dei siti e favorire quella vincolata a un percorso che proceda a senso unico dall’entrata all’uscita.

Un timone permette di gestire nel complesso cosa vogliamo raccontare, come vogliamo farlo, dove vogliamo lasciare maggiore spazio di libertà e dove invece, per le ragioni più varie (dalla conservazione dei pezzi alla sicurezza delle persone, dalla limitazione del tempo alla difficoltà interpretativa) decidiamo di condurre il visitatore su binari precisi. E permette soprattutto di lavorare a più mani: come in una barca a vela, se si è in grado, si può stare alla barra a turno; in ogni caso l’apporto di tutti è essenziale a manovrare in modo da godere del viaggio ma anche di arrivare salvi in porto. Il covid-19 è un’inattesa tempesta: probabilmente passerà, ma nulla ci esime dal considerare la possibilità che il mare torni ad agitarsi.

La strutturazione fisica del timone è semplice: una tabella elettronica, un foglio dedicato a ogni sezione del museo. Il foglio conterrà, per ogni sezione e nell’ordine di percorrenza, il tema principale, i sottotemi, il testo generale, I testi specifici, ogni oggetto con le sue dimensioni fisiche, la descrizione, la relativa didascalia, gli approfondimenti e la bibliografia. Per ogni ambiente o porzione di ambiente dovranno essere descritte le modalità di comunicazione e le possibili interazioni fra esse.

Il timone, quindi, viene a contenere non solo la descrizione di ogni tematica e di ogni strumento presente, ma avrà in sè loci deputati a ospitare i testi di ogni livello di lettura in una casella che corrisponde a una precisa localizzazione dello spazio fisico (dalla didascalia al pannello grafico complesso, dallo storyboard del filmato alla musica di sottofondo) a cui ognuno dei partecipanti alla formazione dei contenuti e degli strumenti veicolo di contenuti potrà lavorare in tempo reale aggiungendo e modificando fino al varo finale e nella contemporanea consapevolezza di quello che apportano gli altri. Il timone, infatti, può essere gestito come un unico contenitore/portale coordinato da un responsabile e accessibile ai partecipanti con chiavi che permettono la modifica dei settori di pertinenza.

  1. Fuori dopo il virus: dallo spazio concluso ai legami col territorio; dalla visita collettiva alla visita selettiva.

Cosa cambia con un’emergenza di tipo virale? Alcune riflessioni e spunti di lavoro

Le regole legate al rischio di contagio impongono di considerare nuove soluzioni per I luoghi aperti al pubblico. Questo coinvolge direttamente i musei per i quali, oltre ai dispositivi cha abbiamo imparato a conoscere negli ultimi mesi e che in ogni caso verranno adottati – mascherine, distanziamento, possibilità di disinfettare le mani, et c. – dobbiamo chiederci come il percorso/la narrazione si possano relazionare alle nuove esigenze in modo da garantire una fruizione soddisfacente.

percorso museale

Se il percorso tornerà obbligato non sarà comunque un ritorno al percorso ottocentesco. Non è infatti solo la possibilità di libera fruizione quello che ha connotato il mutamento – diversi musei conservano un percorso lineare e non tutti gli utenti lo disprezzano. Quello che è cambiato (o sta cambiando) è il modo di porgere i contenuti, il modo di interagire con le opere; e tale flusso informativo, direttamente collegato alla narrazione, prescinde dall’orientamento del percorso.

Itinerari selettivi paralleli

La narrazione può suggerire itinerari tematici che connettano alcune delle opere o ne prendano in esame un numero preciso, o anche una soltanto, favorendo l’approccio approfondito attraverso un percorso. Il percorso potrà essere attivato in parallelo ad altri percorsi con cui non si presentino interferenze.

Questo lavoro di scelta e sviluppo narrativo verrebbe enormemente agevolato dalla mappatura delle tematiche e delle opere data da un rilievo multilayer legato al timone cui si è sopra accennato permettendo una prima verifica virtuale sul modello 3D in merito alle possibili interferenze.

La modalità di “visita selettiva”, già sperimentata in alcuni musei in circostanze normali per chi avesse poco tempo per visitare un determinato museo e per aiutarlo a selezionare le opere da vedere in base ai suoi interessi, potrà essere in circostanze come quella che stiamo vivendo, incoraggiata.

Se non risulterà pensabile evitare che il visitatore che arriva da lontano possa vedere I capolavori per I quali ha intrapreso il viaggio, con rinnovata energia si dovrà percorrere la via tracciata negli scorsi anni che incoraggia la fidelizzazione attraverso abbonamenti e carte per chi non vive troppo lontano. Questo permetterà non solo di creare comunità, anche attraverso eventi, ma di favorire una fruizione slow, in cui si torna al museo più volte per soffermarsi su un numero limitato e sempre diverso di opere o per seguire itinerari suggeriti da narrazioni sviluppate ad hoc.

Rivalutazione dello spazio esterno

L’arrivo del covid e la conseguente esigenza di distanziamento sociale potrebbe portare a una nuova attenzione verso i musei all’aperto e a una loro migliore fruizione. Non tutte le aree archeologiche o storiche o di interesse paesaggistico sono dotate di una narrazione sufficiente. Lo stesso vale per le pertinenze esterne dei musei, considerate, salvo rare eccezioni, un’appendice meno importante della parte “al chiuso”.

Le aree di questo tipo sono state spesso vissute come luogo di scampagnata o meta della visita scolastica outdoor. Forse l’occasione, considerando che nelle aree aperte il distanziamento sociale risulta più facile e il contagio meno pericoloso, è preziosa per dotarle di quella narrazione che è stata affidata, nella maggior parte dei casi, alla visita guidata o a scarsi pannelli costantemente in stato di degrado per l’impossibilità di manutenerli.

Ancora di più rispetto a prima si potrebbe sollecitare il turista a visitare non solo l’opera all’interno del museo ma i luoghi che ne hanno determinato la nascita, ossia approfittare della circostanza attuale per ricucire finalmente le connessioni con l’esterno, facendo del museo un organismo che convive con ciò che è fuori (sfruttando la peculiarità del nostro paese che conserva molto dei monumenti, dei tessuti urbani e dei paesaggi storici che erano cornice o luogo di origine di quelle opere[4]), rendendo ogni museo un ecomuseo.

Nei casi in cui questo fosse possibile si potrebbe pensare a una redistribuzione sul territorio almeno di alcune opere che sono state negli anni scorsi, per diversi motivi, accentrate in uno stesso edificio museale importante a livello regionale[5].

Incremento degli spazi introduttivi

 Con le nuove esigenze di limitazione del numero orario di fruitori sarà necessario ampliare la comunicazione all’esterno, sia quella disponibile su web e reti museali dedicate, che quella informativa generale che introduce agli ambienti da visitare, dando, ove possibile, maggiore spazio per la sosta agevole e dotazioni informative (dai video alle brochure tematiche, anche come gioco o narrazione) alle “sale d’attesa” in caso si dovessero rispettare turnazioni per gli ingressi. Si andrebbe in sostanza a realizzare ex novo oppure ad ampliare quegli ambienti introduttivi che già esistono per quei monumenti in cui, per ragioni di conservazione, ci si mette di buon grado ad aspettare il proprio turno ascoltando una narrazione che ci permetterà, una volta all’interno, di cogliere dettagli che altrimenti potremmo trascurare a causa del tempo regolamentato della visita[6].

Incremento dell’uso dei mezzi elettronici

Saranno necessariamente potenziati gli strumenti che permettono di prenotare e acquistare biglietti on line, esigenza su cui il MiBACT stava già lavorando prima dell’emergenza.

Il pannello, la didascalia, le narrazioni scritte e parlate in via indiretta restano, salvo la necessità di trasferire le informazioni di ognuno di questi livelli informativi su un portale da cui il visitatore possa liberamente attingere attraverso il suo dispositivo per evitare assembramenti.  L’uso del dispositivo personale offre maggiore sicurezza ed ha già di fatto in molti casi sostituito l’audioguida; nei nuovi interventi si dovrà agevolare la predisposizione di connessioni wi-fi e reti interne utili alla trasmissione di tutti i contenuti della visita.

museo informatico

Per chi preferisse comunque la lettura tradizionale si dovranno predisporre fogli di sala plastificati che permettano la disinfezione, oppure lasciare la possibilità di acquistare con un costo contenuto fogli di sala in formato di semplice riproduzione.

Si dovrà ampliare la disponibilità di supporti tattili ad personam come schede di sala a rilievo piuttosto che l’uso di dispositivi comuni per tutti, in modo da poterli disinfettare adeguatamente ad ogni uso.

Una lancia si può spezzare a favore di dispositivi come I visori del tipo oculus: essi, nonostante la grande qualità di riproduzione che permettono (si veda l’impianto realizzato per un ambiente della Domus Aurea a Roma) sono stati spesso accantonati nelle scelte allestitive non tanto per i costi quanto per la limitata possibilità di farne fruire contemporaneamente un grande numero di persone. In questa fase potremmo dunque riguadagnare in qualità approfittando del fatto che il gruppo di persone che può fruire dell’animazione è già di per sé limitato dalla disponibilità di postazioni. La necessità di prenotazione e organizzazione di gruppi limitati non scoraggia la domanda se l’esperienza che si ottiene dalla visita è di grande soddisfazione.

Anche in questo caso si dovrà aggiungere ai costi di gestione la disinfezione del visore e della postazione prima della fruizione da parte del gruppo successivo.

Visite guidate

La narrazione diretta affidata alla guida è difficilmente sostituibile: l’interazione con una persona cui si possono porre domande è per una parte di pubblico gradita e normalmente utilizzata; non dovrebbe comunque risultare difficile, ferma restando la necessità di dotare il gruppo di dpi, rispettare il distanziamento prescritto attraverso l’uso, già diffuso, di trasmettitori audio con cuffie. La visita guidata in ogni caso permette una migliore gestione del tempo e del percorso. Più complicata la possibilità di interazione per lo spettacolo dal vivo  nella modalità di visita teatrale: prima del covid si è iniziato infatti a progettare sperimentazioni di interpretazione teatrale dei luoghi della cultura, tema in cui il lavoro del narratore/sceneggiatore diventerebbe vitale. Sarà purtroppo necessario limitare gli spostamenti degli artisti coinvolti mantenendo la giusta distanza dai visitatori.

Due piccoli vantaggi

Accanto ai numerosi problemi possiamo considerare le occasioni di rinnovamento: dovremo attenerci a un orario stabilito, ma quell’orario ci permetterà finalmente di godere di capolavori con la corretta distanza e senza dover assalire I nostri vicini; la concentrazione sarà stimolata dalla limitatezza temporale della visita. La condivisione consisterà non nel contendersi una sala con altre cento persone ma nel rispettare il tempo a propria disposizione per poi cedere il passo agli altri.

Altra conseguenza interessante potrebbe essere l’incentivo verso la visione di opere diverse da quelle più note e pubblicizzate. Il processo che stava lentamente portando il fruitore verso un maggiore interesse per la comprensione di un contesto più ampio era in corso e ora forse subirà un’accelerazione: il  museo non potrà più coincidere con l’opera-icona[7]Forse il virus riuscirà a farci uscire dall’idea romantica del genio isolato e a farci entrare, per tutelare le opere e noi stessi, in una logica di comunità, in cui Leonardo, Raffaello, Michelangelo sono, oltre che uomini eccezionali, il frutto della cultura del loro tempo, di chi c’era a fianco e attorno a loro e di quanto detto e fatto da chi li ha preceduti: contesto che merita di essere anch’esso apprezzato e conosciuto.

intreccio

Work in progress

L’anno scorso ha portato al varo del Sistema museale nazionale. L’emergenza covid ha rallentato il processo ma stimolato il MiBACT a riflettere sugli strumenti adottati e a chiedere agli utenti in via diretta, attraverso un questionario ad hoc da poco diffuso, cosa si vorrebbe per il prossimo futuro[8].

La Direzione generale musei si sta muovendo in diverse direzioni, molte le sperimentazioni concluse o in atto. Una di esse è il concorso che ha coinvolto I giovani designer[9] nella progettazione di oggetti per il merchandising e di servizi museali. Oltre a discutere e raffinare le indicazioni per migliorare il racconto museale, o, meglio, per l’allestimento e I suoi molti racconti, si potrebbero favorire gare e premi per elementi narrativi specifici, ad esempio la redazione di didascalie e pannelli, come avviene in altri paesi, con interessanti stimoli e risultati[10].

L’emergenza in atto ci porta ad aggiustare il tiro ma non ferma il percorso verso l’obiettivo che ci siamo posti: provare, quando usciamo dal museo, complessa macchina culturale, soddisfazione e arricchimento, ossia quello che avviene quando leggiamo un buon libro: iniziamo senza sapere bene cosa aspettarci e all’ultima pagina ne vorremmo avere ancora altre perchè senza di lui ci sentiamo incompleti.

[1]     Ad esempio presso il Museo Nazionale Romano

[2]     Questo porta a gravi conseguenze anche nelle operazioni di conservazione: il restauro infatti è strettamente legato alla capacità di riconoscere l’opera. Se non si riconoscono parti importanti si rischia di cancellarle anche solo con un banale intervento di pulitura.

[3]      J.L. Borges, L’aleph, 1952; citazione da ed. Feltrinelli 1989

[4]Ad esempio,vedere la Pietà Bandini è un’esperienza che non necessariamente si conclude nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze: posso visitare le Alpi Apuane, vedere le cave di Carrara, scoprire la vita dei cavatori dal 1500 a oggi, imparare che cos’è il marmo e cosa lo rende diverso da altri materiali, quando si è cominciato a utilizzare quel particolare marmo e le politiche protezionistiche dei Romani , cosa mangiavano i cavatori e assaggiare cosa si mangia oggi in lunigiana: le diramazioni nello spazio e nel tempo sono infinite e le occasioni di narrazione si moltiplicano di conseguenza

[5]     Il MiBACT aveva avviato progetti in tal senso per le opere conservate nei depositi dei grandi musei; v. I progetti Sleeping Beauty (http://musei.beniculturali.it/progetti/progetto-sleeping-beauty )  per la valorizzazione all’estero e un nuovo progetto rivolto ai musei italiani attualmente in corso

[6]     Si veda ad es. La Cappella degli Scrovegni dove, dopo il delicato restauro, per motivi conservativi si è limitato l’accesso che avviene a orari prestabiliti. nell’attesa del proprio turno di visita si può vedere un video introduttivo in una sala appositamente predisposta.

[7]Quanto è bello e importante in sè, per la cultura, per la bellezza, per la storia, e quanto viene invece cercato dal visitatore per la notorietà mediatica? Riporto l’esperienza fatta dalla collega storica dell’arte Federica Zalabra in merito a una sua visita al Louvre lo scorso anno durante la quale risultava impossibile riuscire a vedere propriamente la Monna Lisa per l’affollamento nella sala ma si poteva in compenso stare da soli a guardare i Caravaggio e gli altri seicenteschi dimenticati nella sala  accanto.

[8]il questionario è in atto e può essere compilato a questo link: https://docs.google.com/forms/d/1nqaT_Ge9MraJIoCeTZWYDD9kCZ3yiow7_ES84URPn04/viewform?edit_requested=true

[9]     http://musei.beniculturali.it/notizie/notifiche/dam-design-and-museums-2018

[10]   Si veda ad es. Il concorso annuale dell’Amarican Alliance for Museums, https://www.aam-us.org/programs/awards-competitions/excellence-in-exhibition-label-writing-competition/

#ioraccontobreve: i vincitori della sesta settimana

Mai e poi mai pensavamo di andare così avanti con #ioraccontobreve. Questa passione sincera e disinteressata per raccontare di tutto, da ambiti personali a fatti del passato, da oggetti ad emozioni, merita molta attenzione, merita l’ascolto che in effetti sta avendo.

Oggi partiamo da quelle piccole e grandi scelte che ogni tanto nella vita, si impongono. Anche se stavolta è doloroso, per il protagonista di questo racconto, scegliere tra Lei e…lei.

Di Letizia Lusini di Monteroni d’Arbia, si nota subito una certa dimestichezza con la scrittura e un taglio sottilmente ironico. Ha gestito per molti anni un banco nei mercati antiquari, scrive da oltre dieci anni con alcune pubblicazioni al suo attivo.

LA SCELTA

Scelta

Erano stati insieme per diciotto anni. Lui l’aveva curata, coccolata, amata. Era orgoglioso di lei anche dopo tanto tempo, la portava con fierezza ad ogni evento; e lei cresceva forte, decisa, senza difetti. Poi, un giorno, arrivò Lei. Guardò lei subito con disprezzo, e dette a Lui un aut-aut. Fu costretto a scegliere.  Lui la guardava ora: lei era ai suoi piedi, distrutta. Gli venne da piangere, poi “Caro, hai finito?” Lei lo chiamò dal soggiorno. “Sì, arrivo subito” rispose. Gli salirono agli occhi due lacrime, prima che uscisse dal bagno, e scivolarono giù, finendo sulla sua barba tagliata.

Di tutt’altro ambito e certo di tutt’altra scelta si parla in questa storia, in cui torna sui nostri schermi Francesca Condò, architetto specialista in restauro dei monumenti in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT, bissando il successo della terza settimana con un racconto elegante (interessante la sequenza del titolo che se si vuole è in sé un’altra narrazione sintetica) e di gran ritmo.

ACQUA, ARIA, FUOCO, TERRA.

La gamba legata si faceva spazio nell’acqua trascinandolo verso il fondo. Sergius pensò che aveva fatto qualcosa di non rimediabile. Lo pensò con la testa e col corpo che cominciava a cercare aria prima ancora di averne bisogno. Lo aveva fatto, doveva accettarlo. Lo aveva fatto. Non ci sarebbe stato più quel dolore ottuso ma neanche l’odore dei fiori e il senso di attesa della primavera. Quando sentì il flusso addensarsi attorno al corpo pensò che l’acqua stesse spietatamente prendendo il posto dell’aria. L’acqua invece lo respinse. La gamba smise di pesare e il corpo di dibattersi e cercare aria. Salì in superficie, al canneto. Sentiva la testa vuota riempirsi di braccia o serpi o animali sinuosi. Nel suo corpo affiorò un ricordo che non trovò una collocazione nel tempo o in uno spazio fisico. Era un ricordo solido, sessuale, pieno di energia e di forza che rasentava la violenza fisica. Le braccia afferrarono l’acqua e trovarono i fusti fitti delle canne.

4 elementi

E di bis in bis ecco un altro ‘narratore seriale’ del nostro contest, Kevin Tushe, vincitore della quarta settimana, senese e Liceale che a soli16 anni, che ama rievocare con ottima tecnica momenti di un passato certamente non vissuto ma di cui non gli sfugge l’intensità. Stavolta sono l’amore e la nostalgia a fare da padroni, ma anche un fatto storico accaduto quell’anno: per la prima volta nella storia a Città del capo un droghiere di mezza età, Louis Washkansky subisce un trapianto di cuore ad opera di Christiaan Barnard, carismatico e trasgressivo chirurgo 45enne.

Città del Capo,

Dicembre 1967, la calda brezza oceanica scompigliava i tuoi capelli corvini, il sole faceva rilucere la tua pelle color dell’ebano sotto quel tiepido crepuscolo d’estate australe. La Baia del Capo era il nostro anfiteatro, noi protagonisti di un’opera che pareva infinita, il mondo spettatore inconsapevole di una vicenda dai toni fiabeschi, predestinata a vita effimera.

Barnard

In quel mio breve soggiorno in Sudafrica l’apartheid ci aveva resi trasgressivi, seppur giovani e innocenti le nostre anime si intrecciavano, le nostre pelli si mescolavano alla stregua della costa con le onde dorate, in cui il tuo sguardo ambrato si confondeva. La sera della mia partenza la televisione racconta del primo trapianto di cuore, io che a te soltanto, a Città del Capo, ho aperto il mio cuore, perché tu del mio cuore eri diventata il capo, la mia anima, ora sbiadita nei flutti sanguigni dell’Atlantico.

Narrazione ex machina: il museo dai mille volti

Questo è un articolo che non dovete perdervi. Pochi giorni fa, nel corso di un riuscitissimo seminario, mi sforzavo insieme ad altri conosciuti e assai competenti ospiti di capire (e far capire), che fine avrebbe fatto il turismo nel nostro Paese.  Gira e rigira, le parole ricorrenti, a parte quella scontata di ‘crisi’: erano ‘parola’, ‘narrazione’, ‘accoglienza‘, ‘ rispensare gli spazi‘, ‘turismo diffuso’.

Il concetto di come ripensare tutti assieme con originalità ed efficacia  lo spazio, forzati certo da questo momento di emergenza ma seguendo una linea di pensiero ed un’esigenza ben più antica, ci coinvolge tutti, e con grande, grandissima urgenza.

Provate a pensarci, non riuscirete a smentirci. E’ la gestione dello spazio la vera frontiera del mondo nel contesto attuale.

spazio vuoto

Lo spazio come cornice, setting, ambientazione, contesto, tutti da ripensare, praticamente in ogni ambito professionale e sociale.

Lo spazio sconvolto dall’emergenza che diventa un’allegoria e una figura dell’inversione, questa strana inversione di ruoli che viviamo tra quinte e personaggi, per cui quel mondo caotico che cercavamo di tenere a distanza avvolti nel nostro guscio adesso è precisamente ciò che rivogliamo indietro, e il guscio ci fa paura, perchè ci ricorda l’isolamento, quello passato e quello prossimo venturo. La comfort zone divenuta prigione, chi l’avrebbe mai detto?

Lo spazio di fruizione dei nostri territori, da ripensare perchè la grande bellezza non diventi una grande (e incolmabile) distanza.

wunderkammer

Stiamo affrontando e affronteremo questo tema da varie angolature, perchè lo riteniamo letterariamente e materialmente fondamentale. Nello spazio, il materiale e l’immaginario si saldano. La narrazione museale è un fantastico modo per entrare nel tema: pochi ne sanno davvero qualcosa, molti ne sottovalutano l’importanza.  Dopo il 18 Maggio, in compagnia di pochi guardinghi e mascherati temerari, mi sono recato in un noto Museo d’arte contemporanea, che riapriva dopo mesi: c’era la voglia di riappropriarsi della vita, anche di quella culturale, di ridare un senso a quei bellissimi luoghi da troppo tempo vuoti. Ma percorrendo le sale smisuratamente vuote, le installazioni concepite per folle di visitatori, gli spazi esterni concepiti come mere vie di deflusso e respiro tra un’orda di pullman, ho avuto come la sensazione di trovarmi a cavallo tra due epoche storiche, come se quegli  spazi mi parlassero una lingua sempre meno comprensibile, ma un’altra stentasse ancora a  farsi largo.

Ho condiviso queste mie sensazioni con Francesca Condò, che abbiamo già avuto la fortuna di conoscere e leggere su queste pagine e che ha avuto la bontà di starmi ad ascoltare, aggiungendo ai miei magri concetti la sua grande esperienza e capacità di sintesi e riflessione. Ne è nato qualcosa di inedito, interessante e molto significativo, che leggeremo in due parti. Merita il tempo che vorrete dedicarvi. 

Francesca Condò è architetto specialista in restauro dei monumenti con esperienze nel campo della pianificazione territoriale e conservazione del paesaggio, degli allestimenti museali e della divulgazione scientifica.
Dopo gli studi, presso l’Università Sapienza di Roma, e la libera professione (storia dell’architettura, rilievo, restauro, valorizzazione del paesaggio, editing e ricerche per realizzazione musei, illustrazione e grafica) e collaborazioni col MiBACT ha lavorato presso la Soprintendenza Archeologica per le Province di Sassari e Nuoro (2012-2015) svolgendo lavoro di progettista e direttore dei lavori per interventi di restauro e per la realizzazione di mostre. Da settembre 2015 è in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT con incarichi relativi a rapporti internazionali bilaterali, progettazione di mostre in Italia e all’estero. È attualmente coordinatore presso la stessa direzione dell’unità organizzativa che si occupa di allestimenti museali, ambito nel quale si sta occupando di attività per il miglioramento del racconto museale.

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IL MUSEO DAI MILLE VOLTI

spunti di lavoro per una narrazione museale post covid-19

“We have only to follow the thread of the hero-path. And when we had thought to find an abomination, we shall find a god; where we had thought to slay another, we shall slay ourselves; where we had thought to travel outwards, we shall come to the center of our own existence; where we had thought to be alone, we shall be with all the world

Joseph Campbell, The hero with a thousand faces[1]

  1. Racconto museale / racconti museali.

Quale è il significato che diamo alla locuzione “narrazione museale”? Forse non a caso non se ne è data una definizione stretta, lasciando così la possibilità a ogni entità coinvolta dal tema di scegliere la direzione che più le si confacesse.  La definizione stessa di museo[2] si applica a  realtà anche molto diverse tra loro accomunate da uno scopo definito dall’ essere al servizio della società, dall’apertura, dalla ricerca, e non soltanto, come era in un passato non troppo remoto, dalla necessità di rappresentare un paese o conservare beni culturali mobili. Sulla definizione di museo l’estesa comunità dei membri di ICOM – International Council of Museums – costantemente discute, fino alle recenti e ancora controverse proposte emerse dal convegno di Kyoto[3].

Se partiamo quindi da un oggetto, il museo, di per sè difficilmente definibile in modo univoco, non si potrà pretendere di avere una definizione di “narrazione museale” stretta.   E forse, per il narratore, è meglio così.

wurmiani

  1. Museo come macchina.

Quando penso al museo non mi vengono in mente definizioni statiche. Quando penso a un museo penso a una macchina complessa, composta da elementi eterogenei che svolgono la loro mansione ai fini di un unico scopo: essere, appunto, al servizio della comunità umana e del suo sviluppo. Si entra nella macchina, si viene frullati o cullati, a seconda della natura della macchina, e si esce cambiati. 

La complessità della macchina fa si che la narrazione non possa essere affidata al solo linguaggio scritto: sono diverse le componenti che narrano, diversi per ognuna delle componenti i registri di lettura.

Distinguiamo le discipline per avere la possibilità di descriverle scientificamente, secondo un’attitudine classificatoria che aiuta la nostra memoria e la nostra tendenza a ordinare il caos del mondo; ma è davvero possibile separare gli ingranaggi di una macchina? Distinguere, come si è quasi sempre fatto finora, l’allestimento dall’ordinamento scientifico di un museo?

Nella macchina-museo la comunicazione del contenuto dovrebbe avvenire attingendo a tutti i mezzi espressivi a disposizione e scegliendo quale privilegiare a seconda del caso, e a più livelli:

– il linguaggio scritto e parlato (pannello e didascalia – in tutte le loro versioni – strumenti audio, teatro e lettura)

– lo spazio e gli arredi (organizzazione delle sale, morfologia di arredi e vetrine, organizzazione fisica dei percorsi)

– il linguaggio visuale (uso dei colori, uso dell’illuminazione)

– il linguaggio sonoro (musica, rumori)

– altri linguaggi sensoriali (tatto, olfatto, gusto)

– le installazioni complesse (fisiche o virtuali: installazioni interattive, realtà aumentata, ricostruzioni, gaming, performance in generale etc.)

La narrazione museale include tutte queste e magari altre forme espressive.

Una narrazione museale davvero efficace dovrebbe porsi l’obiettivo di attingere a queste forme senza pregiudizi selezionando, considerate anche le possiblità concrete di realizzarle, quello che di più si avvicina al contenuto da trasmettere, ossia a quel particolare museo, a quella particolare collezione.

  1. La narrazione scritta e parlata

I musei offrono infinite possibilità di racconto.  Partire da un oggetto è sempre un grandioso pretesto e i musei sono pieni di oggetti densi e quiescenti che aspettano di essere svegliati: è come avere in mano un mazzo di tarocchi con molte, molte più carte di quelle che ha utilizzato Calvino. Infinite alla infinito storie.

Pensiamo a una statua antica. Il primo soggetto che viene in mente al narratore è la storia del personaggio raffigurato o la storia del mito di cui quello rappresentato è uno dei personaggi. Si potrebbe invece attingere in via più diretta all’essenza di ciò che abbiamo di fronte, all’inconscio collettivo, ossia a un’invariante, a ciò che quel reperto rappresenta per il nostro essere umani a dispetto del tempo, come nelle poesie di Gabriele Tinti[4] o ancora a qualcosa che allude a un significato simbolico nascosto  – e che per noi è diventato incomprensibile, o a un elemento concreto che connetta l’opera alla regione di provenienza: il materiale – e da qui le cave, il paesaggio delle cave, la lavorazione, il paese dove quella lavorazione venne fatta per la prima volta, perchè venne adottata, l’operaio che morì in quella cava, la statua rimasta nella cava perchè era troppo grande e si ruppe durante la lavorazione, quella che mai raggiunse il posto a cui era destinata perchè la nave fece naufragio o perchè i pirati se la portarono per venderla altrove, come erano stivati questi pezzi nella nave perchè non venissero danneggiati. Può essere una descrizione ecfrastica esauriente e puntigliosa oppure una descrizione vaga e fluttuante che riflette analogie e differenze spezzandole in mille frammenti di specchio.

chiavi

E così, accanto alle classificazioni scientifiche, pullulano le classificazioni di un Linneo a nostro uso e consumo, come in un caleidoscopico manuale di zoologia fantastica. In fondo nulla ha impedito al chimico Levi, scrittore di cose tanto reali e concrete da ricordarci con dolore di che pasta è fatto l’uomo, di nuotare nella pura fantascienza di un parimenti inventato Damiano Malabaila. L’importante è che sussista un’intesa, un patto di sangue alla base, tra chi racconta e chi ascolta, un’intesa che permetta sempre, in fondo alla narrazione, di distinguere ciò che è racconto e ciò che è ipotesi da ciò che è invece il frutto di un’indagine scientifica: perchè non tutti quei peculiari viaggiatori che chiamiamo visitatori hanno bisogno della stessa cosa. E per questa ragione non è affatto detto che tutti bramino il videogioco: tra i visitatori ci sono anche quelli che in un’occhiata sono soddisfatti e passano a sedersi in caffetteria a fantasticare in assenza dell’oggetto, quelli che cercano ciò che conoscono per il piacere di ri-raccontarsi una storia mitologica, quelli che stanno tanto tempo a guardare solo la stessa opera (e per i motivi più diversi, dall’attrazione sessuale per il bel torace di un eroe all’estasi estetico-materica del marmo polito), o quelli che la guardano con la lente per vedere che forma hanno i cristalli o l’inclinazione della pennellata.

Così, come in un bar della mente, nel museo entrano pubblici diversi: qualcuno vorrà un caffè senza zucchero, qualcuno un bicchiere di vino strutturato di cui coglierà i profumi complessi, qualcun altro non saprà nulla di enologia ma entrerà ad annusare perchè va di moda e resterà prigioniero del gusto della scoperta. Prodotti diversi ci sono, possono convivere sullo stesso scaffale: possiamo berli nello stesso luogo – ognuno il suo, secondo le sue preferenze, oppure assaggiarle tutte noi, quelle bevande, in diversi momenti della nostra vita non necessariamente lontani nel tempo.

 

  1. A che serve il racconto museale? Dalla cittadella fortificata alla capanna delle riunioni

Il racconto museale è uno degli strumenti con cui il museo può parlare a più persone. Scrivere per più pubblici non vuol dire instupidire il linguaggio ma al contrario affrontare il difficile compito di veicolare contenuti anche complessi senza tradirne la scientificità per renderne palpabile l’importanza per tutte le persone che formano la comunità.

La necessità di scrivere per comunicare il proprio sapere – le proprie scoperte scientifiche, storiche, archeologiche, et c. a chi non conosce il linguaggio specialistico di una disciplina presuppone al contrario una capacità in più. Fino a qualche anno fa questa esigenza è stata nel nostro paese ignorata per diverse ragioni legate probabilmente a un particolare modo di considerare il ruolo della cultura. A questo modo era associata una concezione del museo come luogo riservato agli esperti in cui si concedeva di entrare ai non iniziati purchè restassero in rispettoso silenzio, senza chiedere nulla dei misteri: non comprendere un oggetto esposto, una didascalia, era considerato motivo di vergogna. Il visitatore è stato così non solo abituato a non chiedere ma anche, dopo i primi frustranti tentativi, indotto a disertare luoghi di cui non vedeva la necessità visto che conservavano oggetti di cui non riusciva a comprendere l’importanza.

Non è un caso se l’avvicinamento al pubblico dei non esperti è iniziato da musei legati alle scienze e ai valori naturalistici del territorio: in quel frangente, infatti, non si esponeva il bel quadro, che comunque si considerava suscettibile di apprezzamento anche in assenza di informazioni, ma ci si trovava a dover porgere oggetti – o a parlare di fenomeni in assenza di oggetti- di non immediata apparente comprensione. Musei scientifici, musei antropologici e centri visita-musei del territorio così hanno sviluppato una maggiore attitudine alla didattica e una capacità di raccontare che è rimasta a lungo esclusa dai nostri musei celebri e ricchi di opere d’arte.

Altro fattore  che per i musei scientifici risultava vitale e che è sembrato a torto inutile per quelli artistici o archeologici era la connessione diretta col territorio, la spinta a condurre il visitatore anche fuori dell’edificio-museo per ritrovare contesti di cui nel museo si faceva menzione: in un museo geologico posso esporre un campione di calcare a rudiste ma non – se non in foto – l’intera parete alta duecento metri contenente la fascia alta 5 metri del livello che contiene quei fossili, parete che però il visitatore, investito del ruolo attivo di esploratore, può andare a vedere di persona con una mappa su cui è tracciato un itinerario.

Col mutare del concetto di museo, di cui si è finalmente sottolineato il ruolo di servizio pubblico, e con uno sforzo, da noi recente, per arrivare al cuore dei visitatori di ogni tipo, ci si è cominciati a interrogare sulla necessità di porgere in modo diverso anche i contenuti dei musei artistici e archeologici, e più in generale di tutti i musei rimasti fermi a una concezione iniziatica.

Non si tratta di sminuire il ruolo del curatore scientifico: si tratta di affiancare all’esperto di una certa materia che magari non ha approfondito aspetti legati alla divulgazione e al racconto, un professionista in grado di comprendere, masticare e riformulare il contenuto in modo nuovo. Qui entra in gioco il narratore il cui ruolo – che può andare da quello dell’editor/comunicatore a quello dello scrittore vero e proprio, ossia di chi dà vita a un’opera indipendente che però, grazie al legame col museo, aggiunge valore al dato scientifico.

Lo scrittore può avere da ognuno dei soggetti che partecipano alla creazione di un museo (storico, antropologo, architetto, scenografo, archeologo, storico dell’arte, illuminotecnico, impiantista et c.)  oltre che dalla visione diretta delle opere e dei luoghi, le diverse chiavi di lettura, ossia ciò ognuno di quei soggetti ritenga importante comunicare, e lavorare il testo in modo che esse siano presenti e vitali.

(fine parte I)

[1]Joseph Campbell, The hero with a thousand faces, 1949; cit. Da ed.New World Library -2008, p.18

[2] art.1 DM 2014: 1. “Il museo è una istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. è aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone a fini di studio, educazione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica.”

[3]Nel corso del convegno è stata proposta una nuova definizione di museo non accettata da tutti i comitati nazionali partecipanti perchè spinta verso una funzione meno ancorata al patrimonio da trasmettere e più legata a funzioni per le quali esistono già altri luoghi deputati rispetto al museo, che perderebbe così la sua identità tipologica specifica.

[4]https://www.raicultura.it/arte/articoli/2019/09/Poesia-e-Arte—3d975ccc-fbd7-402f-a89d-3e2ed0004350.html; http://www.raiscuola.rai.it/articoli/rovine-di-gabriele-tinti-legge-alessandro-haber/38484/default.aspx

#ioraccontobreve alla terza settimana: i tre migliori

 

Ringraziando ancora per il costante flusso di racconti che generosamente ci inviate, constatiamo che il vincolo delle 100 parole, lungi da rappresentare una trappola, esalta invece la qualità della narrazione. Il livello dei testi pervenuti è molto alto, sia tecnicamente sia nei contenuti.

Solidali a Milano, ancora in grossa difficoltà, iniziamo con uno ‘Scanu d’autore’ che riguarda proprio il Duomo. (Lo ringraziamo per la Sua generosità e siamo certi che se prossimamente pubblicherà davvero una raccolta di racconti brevi, sarà un bomba!)

IL DUOMO DI MILANO È UNA MERINGA di Stefano Scanu

duomo

La ventiquattrore in una mano, il piccolo Leo nell’altra. Alle sette del mattino Piazza Duomo sembra un colpo di cipria, la cattedrale una meringa gotica che galleggia sui portici. I tram frignano nel nebbione che ubriaca tutti di solitudine. Sul 23 Leo e il padre contano le fermate come grani di un rosario, spiano i profili densi dei palazzi, dei passeggeri. Ad ogni curva le mani si perdono e cercano, ciecamente.

Poi la scuola, il tram si svuota, la marea bianca scivola e scopre.

Solo adesso Leo vede la mano che stringe e il padre come fosse la prima volta

E per i fatti curiosi della vita e delle lettere, dopo un romano che scrive di Milano, eccone un altro che scrive di…Roma! Ma si tratta di una Roma davvero inedita che in questo davvero notevole racconto, più che alla Grande Bellezza assomiglia a un grande e sgangherato suq. Ci manda il testo Francesca Condò, architetto specialista in restauro dei monumenti. Da settembre 2015 è in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT con incarichi relativi a rapporti internazionali bilaterali, progettazione di mostre in Italia e all’estero. Si sta occupando di attività per il miglioramento del racconto museale, tema che ci è molto caro e su cui speriamo di tornare presto per Caffè 19.

MEDIO ORIENTE ALLA FINE DELLA STRADA

Pandemia. Domenica 3 maggio, quasi alla fase due. Potrei andare alla Coop ma ho paura – venerdì sono stata in fila a leggere dalle 8 e mezza e sono uscita con la spesa alle 13 e 25. Avanzo, mascherina e guanti – tutte e due riciclate – fino ai bidoni della spazzatura, Il sistema postmedievale di Roma anni 2000: sempre pieno, sempre sporco. Farmacia chiusa. Per la prima volta vado oltre le due rastrelliere di frutta e entro nel negozio. Mio fratello dice che ci sono anche altre cose, là dentro, oltre alla verdura: era tornato a casa con un bricchetto di panna fresca della centrale del latte. Mordo la madeleine: le cose che mi servono non ci sono. Scaffali con merce rada, biscotti improbabili. Datteri e sacchi di legumi a terra. Il frigo con le bibite gassate. Cerco le verze ma dal banco mi guardano solo cavoli alienati. L’uomo dietro ai banchi è restio a rispondere. No, ci sono solo quelli. Pago, tentata di dire shukran alla donna alla cassa in mascherina, occhiali e chador rosso. C’è penombra, come nelle infinite botteghe che ho visto in Giordania, in Tunisia, anche in Turchia. Ma sono a poche centinaia di metri da casa. Via Guareschi, Laurentino 38. Roma.

SUQ

E da Roma ci spostiamo in una sfera più intima, in questo metamorfico racconto di Giuseppe Capurso. Giuseppe dice di sé che nella sua Padova scrive per divertirsi e si diverte scrivendo. Scrive favole e racconti per bambini, e questo ben lo si intuisce dal ritmo e dal tono della sua narrazione, al contempo giocoso ed elegante. Anche noi ci siamo divertiti molto leggendo il suo pezzo, speriamo che ce ne manderà altri o forse magari delle favole (perché alle favole ci crediamo ancora) e non possiamo esimerci dal fare un saluto ai suoi gatti Casper e Felix.

IL SOGNO

SOGNO

Precipito dentro il tuo sogno. Ti sfioro le spalle. Tu ti volti sorridendo ma io mi sono trasformato in un gatto. Provi ad accarezzarmi ma io scappo e mi nascondo in un cesto, lo apri e ci trovi un cactus. Hai paura di toccarmi, ti volti per prendere un guanto ma io sono una rondine. Tu mi guardi, con la testa all’insù mentre volo in una stanza completamente bianca. Sfioro una parete, scendo e divento in una porta di legno. La apri, entri e precipiti dentro il mio sogno. Mi sfiori le spalle, io mi volto sorridendo ma tu ti sei trasformata in un gatto.

Forse in effetti meglio restare nei territori del sogno. Anche perché fuori dal sogno sono tempi davvero duri per tutti, anche per categorie un po’ particolari, perché ci sono da ripensare riga per riga e verso per verso perfino i gesti quotidiani (e le nostre reazioni ad essi). Ce lo spiega bene Stefano Valacchi, toscano, senese, che ci dice di scrivere di tutto, ma in special modo racconti. Quanto al messaggio che ci ha inviato, approfittiamo per dirgli che secondo noi la sua prova è ufficialmente riuscita! Lui capirà.

TABACCHERIA  COVID 19

Arrivo in tabaccheria. Persone in fila con guanti e mascherine. Fermi tutti! urlo. Ma dove va? Faccia la fila! E stia ad un metro di distanza! E indossi i guanti! dice un’anziana signora scuotendo la testa. Ma non lo vede il telegiornale? Quando è il mio turno con i guanti fatico a prendere la pistola. È una rapina! urlo nuovamente. Si meglio, e con ché? ironizza il tabaccaio. Dalla rabbia mi strappo maschera e guanti. Tutti gettano portafogli e borse a terra. Prenda tutto ma non ci tocchi… non ci tocchi… non ci tocchi…

                                           RAPINA