Il ritratto di una scuola ostaggio di sé stessa e della società contemporanea | |
D’Errico e i problemi didattici in un saggio per Armando | |
di Massimiliano Bellavista | |
I problemi della nostra scuola sono sotto gli occhi di tutti. La Dad (Didattica a distanza) e la pandemia non hanno fatto che estremizzarli, ma la scuola italiana ansimava ancor prima che fosse costretta a correre dall’emergenza. Studenti stressati e demotivati, politici ignoranti e disorientati, famiglie indifferenti e poco informate, insegnanti scarsamente aggiornati e soprattutto delegittimati (mentre in Giappone i docenti sono gli unici a non doversi inchinare dinanzi all’imperatore). Il punto di vista di Stefano d’Errico, autore de La scuola rapita. Il Covid e la Dad. Il disastro educativo italiano (Armando editore, pp. 630, € 25,00) è chiaro ed è esattamente sovrapponibile a quello che fu di Italo Calvino: «Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere». C’è da chiedersi come si sia arrivati a questo punto, e l’autore risponde puntualmente, con argomentazioni fin troppo dettagliate. Si tratta di più di 600 pagine che consentono di attraversare con rinnovata consapevolezza oltre sessanta anni di storia italiana dalle riforme degli anni Sessanta e Settanta fino alle conseguenze dei recenti tsunami riformistici (autonomia scolastica, riforme Moratti e Gelmini, legge sulla Buona scuola e via discorrendo). Leggendo le pagine di questo notevole volume, la sintesi che si può trarre è che valga la ben nota metafora della rana bollita: vale a dire che una rana messa nell’acqua già calda scapperebbe, ma una che va in pentola con l’acqua fredda, tende a non accorgersi che essa si scalda a poco a poco. Fuor di metafora è quello che dice Pino Aprile nella sua Introduzione: «Ogni dettaglio è premessa di un maggior danno, tanto da dare senso compiuto al titolo: la demolizione della nostra scuola, già una delle migliori del mondo, non può esser conseguenza episodica di troppi incapaci, presuntuosi e ignoranti al vertice del ministero che la guida, ma l’esecuzione di un progetto, di cui quella sequenza di guastatori è solo uno dei meri esecutori». Più cinese e meno greco Il problema fondamentale è che oggigiorno la scuola odia sé stessa, e a scorrere le pagine di questo interessante volume, sembra diventata una fucina di idee bislacche e contraddizioni. Eppure è anche la stessa scuola che proprio mentre si sta scrivendo questo articolo ha consentito a una persona come Giorgio Parisi di conquistare il premio Nobel per la fisica. «Un Paese “normale” può lasciare da circa 30 anni (ovvero da quando esistono standard di legge) almeno l’80% delle proprie scuole fuori norma rispetto ad elementari regole di sicurezza? Nei 5 anni che vanno dal 2014 al 2019, nelle scuole italiane s’è verificato in media un crollo ogni 4 giorni. Che senso aveva colpire con continue controriforme la miglior scuola elementare del mondo (così certificata dall’Ocse sino al 1990), facendola scendere al sesto posto? È plausibile un liceo scientifico senza il latino (creato dal 2010)? È “normale” proporre per il liceo classico la sostituzione del greco con il cinese?». Molte domande quindi, ma anche tante risposte. Forse in questo senso i meriti maggiori del libro in questo senso sono due, di cui il primo, di gran lunga più importante, è senza dubbio quello di generare nel lettore una gran voglia di reagire a questo stato di cose. Reazione che, come si nota a più riprese, ha visto molto latitare diversi attori del sistema scolastico a cominciare dalle stesse organizzazioni sindacali. «La vexata quaestio della scuola italiana ha origine nell’impiegatizzazione degli insegnanti. La scuola, in violazione del dettato costituzionale che ne impone da sempre uno status autonomo (tanto che i docenti ancora non sono giuridicamente annoverabili fra i lavoratori subordinati), è divenuta una res grazie alle attenzioni “disinteressate” dei sindacati dei pubblici travet e del settore privato che, di concerto con Confindustria, “vati” ed accademici della formazione, mondo clericale, partiti operaisti e liberisti, l’hanno spersonalizzata facendone mero terreno di conquista». Il secondo merito è quello di fare proposte concrete per uscire da questa situazione, dall’ultimo anno di scuola dell’infanzia obbligatorio, all’obbligo scolastico esteso fino a 19 anni. Su tutti i numerosi e ragionevoli punti elencati con dovizia di dati e argomentazioni a sostegno si può citare questo breve ma significativo passo: «11) Sostituzione del programma “Invalsi” con sistemi sia di autovalutazione, anche ad interscambio e verifica congiunta da parte delle Scuole dello stesso ordine e grado e con analogo tessuto sociale di riferimento, sia di verifica ispettiva triennale centrale e/o regionale relativamente al conseguimento degli obiettivi datisi dalle Scuole tramite il Ptof, al fine di potenziare gli interventi che hanno ottenuto buoni risultati e modificare o abbandonare gli interventi inefficaci. Sistemi di stimolo e valutazione legati alla tradizione metodologico-didattica del nostro Paese (anziché alla “consuetudine” anglo-sassone, Usa, finnica e scandinava); 12) Messa in sicurezza di tutti gli istituti italiani, ad oggi in regime di deroga, ed in regola per meno del 15%. Assicurazione professionale a carico della parte datoriale per tutti gli operatori scolastici». Un problema fondamentale: quello delle infrastrutture Perché citiamo il tema della sicurezza? Perché esso attraversa tutto il libro, segnalando come l’ultima chiamata per la scuola italiana sia senza alcun dubbio costituita da un profondo intervento sulle sue annose carenze infrastrutturali. Certo, emerge con evidenza anche l’esigenza di profondi cambiamenti ai processi di reclutamento e formazione degli insegnanti, di potenti investimenti sulle metodologie e competenze didattiche ma il potenziamento delle infrastrutture e dell’istruzione tecnica è fondamentale e il non essersene mai occupati con serietà e continuità è il principale atto di accusa che questo libro a nostro giudizio vuole lanciare: « O gli “scostamenti” di bilancio “consentiti” dalla Ue e dalla casta politica Ue-dipendente devono sempre essere solo per altri settori, riarmo e mercato delle armi compresi? Peraltro con la manovra presentata per il 2021 si arriverà ad uno scostamento pari almeno al 10,8%. Sanno in che condizioni: è l’edilizia scolastica in Italia? Hanno mai visitato un Istituto tecnico aereonautico alloggiato in un condominio con aule 4×4, dove il simulatore di volo l’hanno visto solo in fotografia? O una scuola media inferiore (uso all’uopo la dicitura del secolo scorso) alloggiata in container da 20 anni, piuttosto che una scuola dell’Infanzia sistemata nei garage di una palazzina le cui saracinesche si affacciano direttamente sulla strada? Lo sanno che devono ancora essere sostituite le scuole chiuse perché sotto le fondamenta le eco-mafie avevano sotterrato rifiuti speciali?». Impressionanti sono poi le considerazioni dell’autore sul continuo stillicidio di istituti chiusi e di aule perse perché l’incuria li rende de facto inutilizzabili. Una parte consistente del volume è poi dedicata ai recenti avvenimenti pandemici e alla Dad, ma il tutto è trattato con oggettività e sobrietà, perché le problematiche aggiuntive di questi ultimi due anni non sono piovute dal cielo, ma fanno parte di un ciclo vizioso che parte da molto lontano e il libro aiuta a comprenderlo bene. Un ultimo aspetto da segnalare, estremamente attuale e di cui non si parlerà mai abbastanza, è il fatto che il volume dedichi le sue pagine finali, quelle orientate al futuro, al necessario coinvolgimento di famiglie e studenti. Questi ultimi sono spesso usati solo in maniera ‘decorativa’ dalla politica, quando di fatto proprio in questi ultimi tempi stanno dimostrando, nelle piazze, sui social e coi loro manifesti, una originalità e concretezza di proposte che farebbe molto bene alla scuola. Come si vede una vastità di argomenti e temi che rende il libro consigliabile e utile anche come fonte documentale per ogni studente, insegnante o anche semplicemente per un cittadino che voglia essere consapevole di un settore così essenziale per il futuro di ogni Stato. A cominciare dal nostro. Massimiliano Bellavista (direfarescrivere, anno XVII, n. 190, novembre 2021) |
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#ioraccontobreve: i vincitori della sesta settimana
Mai e poi mai pensavamo di andare così avanti con #ioraccontobreve. Questa passione sincera e disinteressata per raccontare di tutto, da ambiti personali a fatti del passato, da oggetti ad emozioni, merita molta attenzione, merita l’ascolto che in effetti sta avendo.
Oggi partiamo da quelle piccole e grandi scelte che ogni tanto nella vita, si impongono. Anche se stavolta è doloroso, per il protagonista di questo racconto, scegliere tra Lei e…lei.
Di Letizia Lusini di Monteroni d’Arbia, si nota subito una certa dimestichezza con la scrittura e un taglio sottilmente ironico. Ha gestito per molti anni un banco nei mercati antiquari, scrive da oltre dieci anni con alcune pubblicazioni al suo attivo.
LA SCELTA
Erano stati insieme per diciotto anni. Lui l’aveva curata, coccolata, amata. Era orgoglioso di lei anche dopo tanto tempo, la portava con fierezza ad ogni evento; e lei cresceva forte, decisa, senza difetti. Poi, un giorno, arrivò Lei. Guardò lei subito con disprezzo, e dette a Lui un aut-aut. Fu costretto a scegliere. Lui la guardava ora: lei era ai suoi piedi, distrutta. Gli venne da piangere, poi “Caro, hai finito?” Lei lo chiamò dal soggiorno. “Sì, arrivo subito” rispose. Gli salirono agli occhi due lacrime, prima che uscisse dal bagno, e scivolarono giù, finendo sulla sua barba tagliata.
Di tutt’altro ambito e certo di tutt’altra scelta si parla in questa storia, in cui torna sui nostri schermi Francesca Condò, architetto specialista in restauro dei monumenti in servizio presso la Direzione generale Musei del MIBACT, bissando il successo della terza settimana con un racconto elegante (interessante la sequenza del titolo che se si vuole è in sé un’altra narrazione sintetica) e di gran ritmo.
ACQUA, ARIA, FUOCO, TERRA.
La gamba legata si faceva spazio nell’acqua trascinandolo verso il fondo. Sergius pensò che aveva fatto qualcosa di non rimediabile. Lo pensò con la testa e col corpo che cominciava a cercare aria prima ancora di averne bisogno. Lo aveva fatto, doveva accettarlo. Lo aveva fatto. Non ci sarebbe stato più quel dolore ottuso ma neanche l’odore dei fiori e il senso di attesa della primavera. Quando sentì il flusso addensarsi attorno al corpo pensò che l’acqua stesse spietatamente prendendo il posto dell’aria. L’acqua invece lo respinse. La gamba smise di pesare e il corpo di dibattersi e cercare aria. Salì in superficie, al canneto. Sentiva la testa vuota riempirsi di braccia o serpi o animali sinuosi. Nel suo corpo affiorò un ricordo che non trovò una collocazione nel tempo o in uno spazio fisico. Era un ricordo solido, sessuale, pieno di energia e di forza che rasentava la violenza fisica. Le braccia afferrarono l’acqua e trovarono i fusti fitti delle canne.
E di bis in bis ecco un altro ‘narratore seriale’ del nostro contest, Kevin Tushe, vincitore della quarta settimana, senese e Liceale che a soli16 anni, che ama rievocare con ottima tecnica momenti di un passato certamente non vissuto ma di cui non gli sfugge l’intensità. Stavolta sono l’amore e la nostalgia a fare da padroni, ma anche un fatto storico accaduto quell’anno: per la prima volta nella storia a Città del capo un droghiere di mezza età, Louis Washkansky subisce un trapianto di cuore ad opera di Christiaan Barnard, carismatico e trasgressivo chirurgo 45enne.
Città del Capo,
Dicembre 1967, la calda brezza oceanica scompigliava i tuoi capelli corvini, il sole faceva rilucere la tua pelle color dell’ebano sotto quel tiepido crepuscolo d’estate australe. La Baia del Capo era il nostro anfiteatro, noi protagonisti di un’opera che pareva infinita, il mondo spettatore inconsapevole di una vicenda dai toni fiabeschi, predestinata a vita effimera.
In quel mio breve soggiorno in Sudafrica l’apartheid ci aveva resi trasgressivi, seppur giovani e innocenti le nostre anime si intrecciavano, le nostre pelli si mescolavano alla stregua della costa con le onde dorate, in cui il tuo sguardo ambrato si confondeva. La sera della mia partenza la televisione racconta del primo trapianto di cuore, io che a te soltanto, a Città del Capo, ho aperto il mio cuore, perché tu del mio cuore eri diventata il capo, la mia anima, ora sbiadita nei flutti sanguigni dell’Atlantico.
#ioraccontobreve: i vincitori della quinta settimana
Dunque, procediamo con ordine:
Partiamo da Milano, una Milano alla Gaber, più che una Milano da bere, come si legge nell’abilissimo quadro che ci propone Stefano Scanu, che non finiremo mai di ringraziare per il suo sostegno a questa iniziativa, che ha riscosso anche più gradimento di quanto ci aspettassimo. In fin dei conti chi ha partecipato non ha vinto niente, al limite speriamo un buon articolo, un po’ di visibilità e di sicuro la nostra stima, ma noi di sicuro abbiamo vinto il sincero piacere di leggerVi!
VIA CAPPUCCINI N. 3 di Stefano Scanu
Volevo farti una sorpresa. Avrei dovuto mettere le Clark per non fare rumore proprio come diceva Gaber in una vecchia canzone, invece rimbombano solo i miei passi in questo quadrilatero fitto di silenzio.
Quando mi hai detto: “alle sei davanti a Villa Invernizzi, quello dei formaggini”, ho annuito fingendo di conoscerlo per non deluderti.
Poi il silenzio è cresciuto con la sera e mi spiace non ci fossi, perché avrei voluto ringraziarti.
Ormai sono qui da ore, a spiare solo e sedotto dei fenicotteri rosa dietro il cancello del palazzo.
Non ricordo neanche più che ci sono venuto a fare.
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Viviamo tempi di difficile interpretazione. E di frasi fritte, fritte, fritte come direbbe Benigni. Soprattutto sui media.
Siamo come in guerra; siamo come nel ’29; siamo come nel dopoguerra …uffa!!!
Erik Scortecci, studente liceale del secondo anno, ci dice che ha deciso di scrivere questo racconto rifacendosi per l’appunto alla frase che oggi sentiamo spesso: “siamo come in guerra”.
Allora –dice- ho pensato di intrecciare il desiderio del ritorno alla normalità e alla quotidianità con la storia di un uomo, sconosciuto, ma di cui è intuibile lo stato d’animo. Ho cercato di raccontare una situazione tipica vissuta dai soldati che tornarono dal fronte, e che oggi in qualche modo stiamo vivendo di nuovo, aspettando di ritornare alla normalità.
RITORNO ALLA NORMALITÀ
Il cielo era di un grigio piombo e i tuoni annunciavano un temporale. Le sue lacrime si confondevano alla pioggerellina che iniziava a scendere. Stremato per il lungo viaggio, si ristorò nei pressi di un boschetto. Rimase lì, a contemplare dopo tanto tempo quei colli della sua Toscana. Era autunno, i campi arati sembravano mostrare le loro cicatrici. Intanto ripensava alla loro fioritura: agli steli di grano, che ad ogni soffio di vento, iniziavano a danzare. Ricordavano le increspature di un mare agitato. Presto, al di là di quel mare, Piero avrebbe incontrato la salvezza, e la sua angosciosa attesa sarebbe finita.
E quindi via con Stefano Vallini, nato a Siena 40 anni esatti dopo Dizzy Gillespie. Lasciamo a voi stabilire quando… Ha pubblicato per Betti Editore Quante storie per un menu! – Racconti di cucina toscana e Il vento frusciava – Un suo racconto “Asfalto” ha trovato posto sul portale di Toscanalibri.it.
E siccome Dizzy Gillespie nella sua Stardust diceva Besides the garden wall, when stars are bright/You are in my arms il suo racconto non poteva che parlare di stelle …e di cose ahimè ben più terrene,
…A RIVEDER LE STELLE
Roman l’avevo visto davanti al supermarket, raramente davanti alla chiesa. Tendeva la mano e basta. Io vi appoggiavo solo sguardi colpevoli e facili da dimenticare. Non credo che abbia mai lavorato, ma è sempre vivo. Non posso dire lo stesso dei miei ex-colleghi. Lo saluto quando si affaccia dalla sua baracca dall’altro lato della strada.
Le auto ci dividono con i loro fumi di polveri sottili e ossido di azoto, che a respirarle fanno lo stesso effetto della vita. Il ponte che abbiamo sopra la testa ci protegge dalla pioggia. La notte, per vedere le stelle è sufficiente spostarsi nella scarpata di fianco.
Terminiamo con un tema che avevamo già approfondito nella puntata numero 3, quello dei negozi e dei mercati in questo periodo. Ce ne parla Susanna Daniele, giornalista e scrittrice, che è nata e vive a Pistoia. Ha pubblicato con vari editori testi teatrali, e racconti gialli e noir. Il suo ultimo volume è Serra si racconta, la raccolta di un secolo di memorie degli anziani abitanti di un paese della montagna pistoiese.
I COLORI DELLA VITA
È uno dei due negozi rimasti aperti in una piazza che da secoli è centro di scambi commerciali e di vita cittadina. Il verde scuro di cavoli e broccoli, le gradazioni del rosso di peperoni, pomodori, radicchio e melanzane, il bianco di finocchi, porri e cavolfiori.C’è la bandiera italiana su quelle mensole di pietra vecchie di sette secoli, e molto altro.C’è cibo per il corpo, ma anche un sorriso per l’anima che trapela dagli occhi della venditrice, c’è una parola scambiata in un momento in cui la solitudine ha il sapore acre di una cattiva medicina.
#oraccontobreve: i magnifici tre della quarta settimana
E mentre il domino letterario è arrivato alla quinta settimana,( con Elisa Mariotti, chiamata in causa da Martina Delpiccolo, che suggerisce la lettura de “I cieli visti dal tempio” (Effigi edizioni) di Silvia Schiavio) questo quarto appuntamento di #ioraccontobreve è un dialogo (purtroppo rigorosamente a distanza) tra due categorie, gli insegnanti e gli alunni, quanto mai sulla cresta dell’onda in questo periodo. Poi c’è un convitato di pietra, il mezzo elettronico, digitale. Come l’acqua non ha sapore, odore, o colore. Ma a differenza dell’acqua, non sembra capace di ‘dissetarci’ davvero …
Iniziamo
DO ALGORITHMS PLAY AN ELECTRIC BLUES? di Massimiliano Bellavista
Con brevi istruzioni può azzurrarti gli occhi affinché scintillino di rimando sullo schermo come soluzioni in cerca di un problema affinché tu veda un mondo irreale, un miraggio, un’alba binaria grondante pixel e bit ‘unmondochepoiungiornotuttoquestosarà(virtualmente/diperatamente)tuo’.
Una realtà aumentata si direbbe quando invece è solo diminuita quando invece l’essenziale e il bello sono nel contatto, nell’addizione di corpi, prova se non ci credi a frapporre un diamante all’aurora, o anche a un semplice sorriso. Essere umani significa pretendere ogni giorno dal prossimo una libbra di carne e un quarto di pazzia. Ma vallo a spiegare a un chiunque qualcuno ora che la corsa è lanciata e lo stadio digitale bolle di grida e frigge di applausi.
Qui nell’acido sterile di una connessione postata silenziosamente su un tavolo di quercia c’è tutto intorno una trama bugiarda, una trincea invisibile di paure. Pensare che l’uomo sia direttamente deducibile dai fatti che tu sia sezionabile in una cascata ordinata di piccoli problemi e necessità, è razionale follia. Ma poi chi ti dice che questo non sia già successo e pure molte volte e non si sia il prodotto di un’ostinata e più che meritata Nemesi? Meritiamo di estinguerci, anzi, di spegnerci.
Perché può darsi che Dio la pensi come mia nonna:Quando non funziona non stare a grattarti. Spegni e riaccendi.
E continuiamo con Simonetta Losi, collaboratore Esperto Linguistico all’ Università per Stranieri di Siena, giornalista ed esperta in divulgazione culturale. Se ci leggete da Vega e non sapete nulla (dato il ben noto ritardo relativistico del nostro segnale televisivo ad arrivarvi) dell’attuale istituzione della DAD, la famigerata didattica a distanza, leggete questo assi ben confezionato racconto e ve ne farete un’idea precisissima. No, amici Vegani, purtroppo non si tratta di un racconto distopico…
LA PIATTA FORMA DIGITALE
E così la mia didattica in una manciata di giorni è entrata in zona rossa attraverso una rivoluzione copernicana. Pochi clic e accedo a una piattaforma. Davanti, un vasto nulla animato.
Siamo chiusi dentro, ma immagini e parole dette, scritte, cantate, viaggiano libere raggiungendo studenti intrappolati a Siena, o fortunosamente tornati a casa, collegati dal mondo.
Prima, cancellando la lavagna, mi chiedevo dove andavano a finire le parole. Me lo chiedo ora, che sono un misto fra dj, avatar, voce disincarnata, su un ponte tibetano virtuale affollato, instabile.
Mancano presenza e relazione: insegnare a distanza è una piatta forma.
Gli fa da perfetto eco Maddalena Biserni, 16 anni, che frequenta la IIB del Liceo Classico Enea Silvio Piccolomini di Siena. Scrive molto bene Maddalena, leggere pennellate che poi cominciano a pesare sui pensieri. Insegnanti e studenti, come si vede, sono entrambi naufraghi sulle sponde del mare…virtuale.
TRA SOGNO E VIRTUALE
Il solletico dei fili d’erba che incontrano le mie braccia scoperte, il ronzio delle api che passano da fiore in fiore. I raggi del sole che sembrano fatti per scaldarmi la pelle. Gli universitari ridono seduti in terra aspettando la prossima lezione, alcuni fanno pranzo. Dietro sento il rumore leggero delle note di un pianoforte che si rincorrono tra loro, viene dal Collegio Tolomei. Passa un uomo con un cane, mi fermo ad osservarlo.
Mi balena in testa l’idea di andare da lui e chiedergli se posso accarezzarlo. Ma è notte e sono a casa sul letto e l’unico rumore che sento è il ticchettio dell’orologio sul comodino che mi ricorda che domani ho le videolezioni.
E nella morsa di tutta questa virtualità a pronta presa sotto vuoto spinto si perdono anche i confini dell’esperienza, si sovrammettono quelle vissute da altri quelle immaginate, quelle ancora da vivere. Dov’è la polvere, copre solo il passato o anche il futuro? Kevin Tushe, anche lui Liceale di 16 anni e tra l’altro fresco segnalato del Premio Asimov con una bella recensione , ha un’idea ben precisa al riguardo. E certo anche lui sa maneggiare molto bene la penna, e non lo diciamo solo noi.
POLVERE
Le mie dita blandiscono i lisci involucri, un tempo sgargianti, dei vinili, ora giacenti sbiaditi nel solaio. Scorro rapido i titoli, in cerca di memorie di gioventù trascorsa. Mi soffermo su una copertina avvolta da una densa patina di polvere: ne estraggo alla cieca il disco e, poggiato sul lettore, Born to Run di Bruce Springsteen avvolge l’ambiente. Sulle note di “We gotta get out while we’re young” rievoco il tepore delle sue membra che si confondono con le mie. Rimorsi di amori mai nati riaffiorano: rivivo drammi per esorcizzarli, finendo inevitabilmente soffocato dalla polvere stessa, nella quale mi reincarno, residuo di tempi distanti che non mi appartengono.
La poesia, o la terribile libertà dei limiti umani
«Allora: la poesia è la vista radicale delle cose» Cesare Viviani, Il mondo non è uno spettacolo
Insomma, per un Caffè letterario che si rispetti non è che ci possiamo accontentare di una parola addomesticata, prêt-à-porter, smussata come un sasso di fiume. Daccordo la semplicità , e l’immediatezza, ma tra un caffè e l’altro dobbiamo anche andarci a cercare la parola grezza, quella sperimentale, che sta a quella prodotta in serie come un abito prêt-à-porter sta ad un capo d’alta moda. Del resto, una nazione degna di tal nome si dovrebbe tenere stretti i suoi sperimentatori e artisti della parola, una specie rarissima. Ora, c’è un poeta, Cesare Viviani, che sostiene che “i significati hanno un potenziale di aggressività molto più alto che non i signifcanti” e perciò nei suoi testi, che dovrebbero essere letti e spiegati meglio nelle scuole, li arma gli uni contro gli altri, fino a produrre testi allucinati, teatrali, labirintici, a volte comici. Se avrete pazienza, Federico Romagnoli, nato a Siena, città dove vive e lavora, laureato in “Competenze testuali e rapporti con i mass media” all’Università per Stranieri di Siena, ce lo spiegherà in modo molto chiaro e originale. Federico sta per conseguire un Dottorato di ricerca in “Letteratura, Storia della Lingua e Filologia italiana” (tesi proprio sul poeta senese Cesare Viviani). Ha pubblicato le raccolte poetiche Maschere in quiete (Tipografia senese, 2001), Carne diem (Zona Editore, 2010), L’abirinto (Giulio Perrone Editore, 2011 vincitore premio “Fili di parole”) e Stop (e) motion (Edizioni D’if, 2012, vincitore premio “i Miosotìs”).
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In questi tempi difficili, dove l’uomo si ritrova spaesato di fronte ad una condizione nuova, eppure atavica, di ridimensionamento e paura, il concetto di “limite” è più che mai vivo e sentito; mi piace riproporre a tal proposito una parte della mia tesi di laurea dedicata al poeta senese Cesare Viviani, e dedicata espressamente al concetto di limite all’interno della sua poetica. In particolare se ne ripercorrono le tracce partendo proprio dal suo primo libro, L’ostrabismo cara, il più sperimentale, il più connesso all’idea della trascendenza tra uomo e natura, all’indagine sublime dell’arte tra significato e significante. Da poco è uscita la sua ultima raccolta per Einaudi Ora tocca all’imperfetto, ma credo sia interessante andare a rivederne il fortunato esordio letterario, uno dei casi poetici più sorprendenti della storia italiana
Propedeutica al limite
Il senso del limite: L’ostrabismo cara
L’ostrabismo cara rappresenta il principio di tutto; è la prima raccolta di Viviani – esce per Feltrinelli nel 1973 – e fa capire immediatamente l’enorme potenziale del poeta. Un incandescente magma verbale che fonde, già dall’affabulatorio titolo, poesia e psicanalisi, un libro di lapsus lirici e creatività psicoanalitica. L’inesprimibilità della realtà circostante è già ben chiara, paradossalmente, nella mente dell’autore, solo che non riesce ancora a trovare una forma. Di conseguenza ne viene fuori un libro dominato da un «lessico dalle tessere disparate e una liberatoria manipolazione della lingua, contigua al processo analitico e realizzata con lapsus e varie operazioni sulla parola»[1], una parola che si specchia nell’ «ostrabismo» del titolo, facendosi allo stesso tempo strabica – e quindi capace di vedere più punti di vista contemporaneamente – e ostacolo (da ostracismo) alla comprensione stessa. È questo di fatto il primo grande paradosso su cui riflette la poesia di Viviani che sfocerà nella rappresentazione lirica della finitezza dell’infinito, del limite dei limiti. Si legga a tal proposito l’incipit, un vero e proprio gioco enigmistico sul significante dove, accanto alla presentazione di una pseudo storia in cui verosimilmente il poeta si cimenta in un romanzo in versi di formazione prettamente erotico, i significanti si inseguono e si contraddicono o cambiano improvvisamente forma e contenuto secondo le indicazioni tipiche del lapsus freudiano e dove assistiamo sia alla scomparsa del soggetto lirico che alla comparsa della retorica tipica del poeta senese fatta di anacoluti, sinestesie e significativi enjambements:
lo strale stanato e per scommessa,
l’ombretto bagnato nella fucina ho
trovato piegata e piagata col liquido
tuo giovereccio
questa indemoniata o indemoniato
non so che perché è stato più
un balzo che altro, ecco perché
assortivano molto le catenelle
perché le bacche filtravano rosso
e spingi e malta
ti vedevano i lutti
per questo col limite un opossum
non più belava esitata fusione
il gelato il pelato ospite anziano
distallato dal mosto,
quello tentato stasa per dire
a quel punto ho visto quale era [p. 17][2]
Il poeta senese sublima le teorie linguistiche di Saussure e il rapporto arbitrario tra significato e significante diviene l’essenza della poesia stessa. Non v’è dubbio sul fatto che questo tipo di poesia sia debitrice delle istanze avanguardistiche e del Gruppo 63 in particolare ma, come ben nota Michel David, «Viviani sembra aver superato formalmente i suoi predecessori immediati del Gruppo 63 e con più bravura. Si è del resto schierato più di loro dalla parte dei significanti, rinunciando per ora a ogni volontarismo morale. […] Forse il futuro lo preoccupa meno di un presente strabicamente vissuto»[3]. In poche parole Viviani è più coraggioso, o forse crede più degli altri – e vedremo come il “credere” sarà decisivo nella poetica del poeta senese – nella forza della parola e nella parola lirica in particolare. Non a caso Le parole sono l’organo della vista è il titolo che Viviani sceglie per la premessa a un suo saggio psicoanalitico, Il sogno dell’interpretazione. Qui il poeta, certo ora in veste di critico di psicoanalisi, spiega lucidamente la propria concezione della realtà: «il piano di realtà – a cui si rivolga la nostra voce per prendere consistenza! – non è un ambiente raffigurabile e descrivibile, ma un livello non facilmente collocabile, fatto di luci e impronte, immagini e contatti, forme e ritmi, ombre e materie, che è il vero luogo della formazione psichica»[4]. E proprio questa “selva” di figure e sensazioni («luci, impronte, immagini, contatti, forme e ritmi») che ora resta solo avvertibile nella forza incontrollabile e polisemica del significante, troverà forma e pensiero proprio nell’ultima stagione del poeta. Ed eccoli i sensi miscelati come un delirio lirico-analitico:
ingiuriato da esautorate
storte malformi il cingolìo del becco invasore
villeggiante sprigiona il colore sul riverbero
del nido e inserendo nel destro provocante la
sfera si è inumidita lungo la paresi come
sperava e questo l’astinenza scortava dal baldo
paese, devi aggiuntare allora
sottraggono dal muto
dello sperma e soli compremono al miracolo
la catenina mista [p. 51]
L’esperienza sensuale del poeta, cardine delle raccolte che questo lavoro prende in esame, si presenta in questa lirica come una miscellanea disomogenea, appunto un racconto schizzofrenico: «l’esperienza dell’ascolto analitico è simile all’ascolto di una lingua sconosciuta»[5] ci dice Viviani, «più progredisce e si sviluppa la “comunicazione”, più si formano “assoluti” e ci si allontana dall’esperienza assoluta. Più si è “comunicativi”, più ci si allontana dalla verità»[6]. Si intuisce quindi dove vuole arrivare il poeta con questa raccolta: «la psicanalisi è l’esperienza del limite. È la presenza autonoma del confine, che è illeggibile perché non è riferito alle terre che serve, alle distese dei significati noti»[7]. Formulando un sillogismo potremmo affermare che se la psicanalisi rappresenta l’esperienza della categoria “limite” e la sua incomprensibilità allora la poesia de L’ostrabismo cara, incomprensibile ridda di significanti, è psicanalisi. Ma Viviani sa bene che è vero anche il contrario e lo dimostrerà maturando una poesia completamente diversa e ben più improntata sul significato formale. In questo momento la scoperta del poeta ha una grande importanza nell’ambito della poesia italiana novecentesca: L’ostrabismo cara ha scoperto il limite umano mediante il trauma lacaniano del linguaggio, rappresenta in effetti una sorta di liricizzazione della formula “l’inconscio strutturato come un linguaggio” appartenente allo stesso Lacan. Per capire meglio è necessario rifarsi a un famoso seminario del filosofo e psicanalista francese, quello sul racconto La lettera rubata di Edgar Allan Poe.
La scena primitiva (non a caso Lacan impiega questo termine) si svolge nelle stanze della regina, che vi riceve una lettera che è costretta a nascondere fra altre carte, per l’ingresso improvviso del re, dimostrando così che il contenuto è compromettente per il suo onore e la sua sicurezza. Approfittando della disattenzione del re, la regina ha lasciato la lettera sul tavolo con l’indirizzo in vista essa non sfugge però alla sorveglianza del ministro che, entrato insieme al re, si accorge dell’imbarazzo della regina, e ne comprende la causa. Il ministro allora tira fuori dalla tasca una lettera identica e fingendo di leggerla la sostituisce alla prima, con grande disappunto della regina, cui non è sfuggito nulla della manovra ma non ha potuto impedirla, temendo di suscitare il sospetto del re. La regina sa dunque che il ministro possiede la lettera e il ministro sa che la regina è stata testimone del suo gesto. La seconda scena si svolge nell’ufficio del ministro e in apparenza ripete la precedente. Diciotto mesi dopo la polizia, approfittando delle assenze notturne del ministro, ha perquisito la casa intera senza riuscire a scoprire la preziosa lettera. Il capo della polizia si fa allora annunciare al ministro e ispezionando la stanza, dietro i suoi occhiali con le lenti verdi, scopre ben presto l’oggetto di tante ricerche. È un biglietto spiegazzato, abbandonato, come inavvertitamente, alla vista di chiunque, che, come tutti sanno, è il sistema migliore per non farlo vedere a nessuno. Se ne impadronisce rapidamente, ripetendo il gesto del ministro, dal quale si accomiata senza troppa fretta, sicuro che questi non si è accorto della sostituzione. La situazione nuova che si è creata è che il ministro non ha più la lettera e non lo sa mentre la regina sa che ormai la lettera non è più nelle sue mani. A ciò si aggiunge un elemento nuovo, il biglietto lasciato dal capo della polizia che è un’imitazione ma non è priva di importanza.[8]
Ho preferito affidarmi alla sinossi di Palmier in quanto decisamente esplicativa della situazione e ricca dei particolari necessari a comprendere l’esegesi lacaniana. Considerando la lettera in qualità di “significante” e i personaggi di “significato” «il loro spostamento (dei personaggi) è determinato dal posto che viene a occupare quel puro significante che è la lettera rubata, nel loro trio. Sta qui ciò che lo confermerà come automatismo di ripetizione […]. Il significante è unità per il fatto di essere unico, non essendo per sua natura simbolo che di un’assenza. Ed è così che della lettera rubata non si può dire che bisogna che, al pari degli altri oggetti, sia o non sia da qualche parte, ma piuttosto che, a differenza di essi, sarà e non sarà là dove è, dovunque vada»[9]. Lo straordinario potere del significante abita e trasforma l’inconscio umano, anzi Lacan parla di una “catena di significanti” che attraversano il soggetto e di cui l’analista, o il poeta in questo caso, è tenuto a rintracciare l’unità significante, ovvero il limite:
l’analista si trova di fronte a significanti di cui spesso non sa che fare: brandelli di sogni, sintomi la cui collocazione nella storia del soggetto e il cui significato, da essa illustrato, rimangono ignoti. E tuttavia, afferma Lacan, tutti questi significanti formano la trama di un tessuto. Il significante trascende la materialità che lo esprime. In quanto si precisa come pura trascendenza, il significante porta in sé la traccia della morte, come anche Hegel ha dimostrato. Così il significante è “unità di essere unico”, è simbolo di un’assenza (FINE PARTE I).[10]
[1] Dopo la lirica, cit., p. 275.
[2] Le citazioni sono tratte da Cesare Viviani, L’ostrabismo cara, Feltrinelli, Milano 1973.
[3] Michel David, Prefazione a L’Ostrabismo cara, cit., p. 10.
[4] Cesare Viviani, Il sogno dell’interpretazione, Costlan Editori, Milano 1989, p. 8.
[5] Ibidem, p. 62.
[6] Ivi.
[7] Ibidem, p. 66.
[8] Jean-Michel Palmier, Guida a Lacan, Rizzoli Editore, Milano 1975, pp. 47-48.
[9] Jacques Lacan, Scritti, Vol I, Einaudi, Torino 1974, p.12 e 21.
[10] Palmier, cit., p. 54.
Lo “stupido verso”…che ha la forza di cambiare tutto in meglio.
Chi come noi apre un Caffè letterario di questi tempi non può che essere un po’ pazzo e un po’ malato e aver bisogno come e ancor prima di tutti del potere curativo della parola.
Perciò accogliamo con piacere il contributo inedito di Denata Ndreca.
Qualche tempo fa una rivista si è occupata di lei con un bell’articolo, parlando della sua vita come di una storia molto peculiare tra “poesia e integrazione“. Già, perchè Denata nasce a Scutari, la Firenze dei Balcani, cuore pulsante della cultura albanese, tra cristianesimo ed islam. Tra un marciapiede dove c’è il campanile di una chiesa ed un altro dove c’è il minareto di una moschea e ha attraversato, non smarrendo anzi rafforzando la sua voce di poetessa, i momenti bui della storia del suo Paese.Quindi la sua voce non poteva tacere in questo momento. Ci dice più avanti che l’Universo risorge in un “semplice – stupido verso“. Noi la ringraziamo di questi versi nella convinzione che i versi più semplici e puri, tuttaltro che stupidi, siano in realtà i più difficili da comporre e che gli stessi siano come i fiori: sono proprio quelli in apparenza più elementari che restano indelebilmente impressi nella nostra memoria connessi ai momenti più complessi della nostra vita!!!
Denata nel 2003 pubblica la sua prima raccolta di poesie “Intorno a me” in albanese. Nel 2017 con il volume di poesie “Senza Paura” viene classificata quinta al premio internazionale di letteratura “Terre di Liguria”. Sempre nel 2017 vince il premio internazionale “Michelangelo Buonarroti” per i Ragazzi con l’opera “La Carrozzina Magica” riportando l’attenzione dei bambini verso il mondo della malattia e della disabilità. Nel 2018 esce il libro “Un Faro nella nebbia”, nel 2019 Tempo negato.
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(Mentre tutto tace e sta in silenzio, guardo il mondo, scrivo e penso – a quello che abbiamo, a quello che ci tiene in sospeso; all’Universo che mi risorge in un semplice – stupido verso)
“La carezza”
Bisognerebbe seminare alberi.
Poi fiori.
Poi bisognerebbe prendersi cura di loro.
Bisognerebbe lavorare la terra di giorno
e lasciare briciole di pane
lungo i sentieri – per la notte buia.
E bisognerebbe guardare la luna
finché ce la lasceranno,
perché anche lì – vorranno mettere mano.
E alzare il volto verso il cielo,
e cogliere – nel petto – incrocio
delle tempeste col sereno.
E poi bisognerebbe dirlo alle stelle –
che sono belle.
E baciarsi, e amarsi.
Bisognerebbe ricordarlo sempre:
la carezza e gli abbracci –
sono i luoghi più belli per ritrovarsi.
Denata Ndreca