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Sulla bellezza dei libri sbagliati

Un articolo per gli amici di Ediciclo e in generale, sulla bellezza degli errori. Intanto Il Kung Fu della lingua …https://www.betti.it/product/il-kung-fu-della-lingua-2/

La bellezza
di un libro
“sbagliato”

di Massimiliano Bellavista
Ediciclo sfrutta un refuso
a suo vantaggio, in un libro
che esalta la natura

Nel nostro mondo, ci sono errori dappertutto, e il mondo delle parole e dei libri non può certo fare eccezione: persino nella prima edizione della nostra Costituzione si trovano refusi (ne abbiamo anche parlato qui), come del resto nelle prime versioni a stampa della Bibbia.
Se ci sono errori in questo tipo di testi, sorvegliatissimi, non dovrebbe sorprendere che la cosa capiti anche nel mondo editoriale, anche presso quegli editori medi e piccoli italiani, e sono tanti, che della qualità materiale di ciò che immettono sul mercato fanno il loro vanto alla stressa stregua dell’attenzione ai contenuti letterari. È accaduto anche a Ediciclo, brillante e dinamica realtà editoriale italiana di cui ci siamo recentemente occupati su queste pagine. E siccome la storia è peculiare quanto il libro di cui trattiamo, peculiare ed inscindibile da esso a cominciare dalla veste editoriale, vale la pena parlarne di pari passo.

Una sorpresa (s)gradita
Dopo due fortunati testi quali Del camminare e altre distrazioni. Antologia per viandanti e sognatori del 2017 e Dell’andare in bicicletta e altre divagazioni. Antologia per ciclisti e sognatori del 2020, non è un caso che proprio il 2020, quell’annaccio, eserciti ancora per una volta il suo malevolo influsso anche sul programmato terzo libro della serie, che così bene la completa. Dell’andare in montagna e altre amabili ascensioni. Antologia per escursionisti e sognatori (Ediciclo, pp. 176, € 22,00), curata da Francesca Cosi e Alessandra Repossi, con la Prefazione di Linda Cottino e con le illustrazioni di Giulia Neri, questo bel libro che suggeriamo a tutti, è stato appunto l’involontaria e innocente vittima di un errore. Scrive l’editore, in una pagina apposita del sito: «In casa editrice ci stavamo già pregustando l’uscita della nostra piccola strenna natalizia, quando… aprendo la primissima copia arrivata in redazione “fresca di stampa”, iniziamo a sfogliarla – e l’annusiamo, dobbiamo ammetterlo, ci ficchiamo proprio il naso dentro le pagine, ogni volta che arriva un libro nuovo, come fosse la prima volta – poi apriamo le prime pagine per verificare se tutto torna, se i colori sono giusti, se al tatto è piacevole, finché l’occhio cade sulla parte finale della prefazione. Ci accorgiamo subito che qualcosa non quadra: come mai tutti questi termini legati alla bicicletta? Ma non era un libro sull’andare in montagna? Che strano… Allora giriamo pagina ancora, torniamo indietro e notiamo altri termini legati alla bicicletta come “velocipede”, “ciclisti”, “manubrio”, “due ruote” e poi l’amara scoperta: increduli e un pochino spaesati ci accorgiamo che l’inizio dell’ultimo paragrafo a pagina 9 inizia con una bella lettera minuscola, così: “nobiltà del cavallo alato”. NOOOOOO!».
Insomma, per farla breve accade che in calce alla Prefazione della giornalista Linda Cottino sia rimasto, come un virus insidioso e nascosto allo sguardo anche più attento, un brano della Prefazione della precedente antologia, quella dedicata alla bicicletta e a firma di Marco Pastonesi. Ed ecco che l’editore immagina una via di uscita da questa situazione bella, creativa ed efficace quanto il contenuto del libro.

Un piccolo errore dentro un ottimo libro
Spesso, spessissimo nelle recensioni non ci si cura per niente del fatto che prima di tutto il libro ha una sua materialità. Ben lo si comincia a capire oggigiorno, in un periodo di rarefazione di lettori e lettrici, e ce ne siamo occupati anche di recente dedicando un articolo a Testo, fiera libraria fiorentina dedicata al libro e in special modo al prodotto librario/editoriale: il libro è prima di tutto un prodotto, un prodotto complesso e articolato. E allora un bel volume comincia anche da questo: in primis un’attraente veste grafica, e il libro di cui parliamo ce l’ha, poi una bella copertina e delle incisive illustrazioni, e qui non mancano proprio e… un errore che subito lo trasforma in un oggetto da collezione. Quale migliore esempio dell’importanza della materialità di un libro? «Dopo tanto discutere in redazione – lo ristampiamo? lo mandiamo al macero? lo teniamo così? beh dopotutto al libro non manca nulla, semmai ha qualcosa in più – abbiamo deciso che non sarebbe stato giusto nei confronti del pianeta sprecare 850 kg di carta dato che tanta ne era servita per questa prima edizione. Così, dopo aver consultato alcuni addetti ai lavori e aver ascoltato le loro preziose opinioni, abbiamo deciso che il volume sarebbe stato comunque distribuito così com’è, unico nel suo essere imperfetto». E secondo noi gli autori e l’editore hanno avuto perfettamente ragione a dire questo. Del fatto se ne sono occupati in tanti, conosciamo qualcuno che il libro lo ha ordinato per conservarlo nella sua confezione, dove è riportato per mezzo di un adesivo rimovibile questo episodio e il suo messaggio potente di unicità, come se si trattasse di un Gronchi rosa, di un oggetto da collezione. Insomma, in una parola, evviva il libro che sopravvive agli errori, anzi li trasforma in valore!
D’altronde cos’altro come l’errore può contribuire meglio della versione corretta a rendere memorabile un passo, una storia o un concetto: se l’errore materiale può rendere un libro rarissimo, l’errore editoriale può essere addirittura fonte di ispirazione. Si potrebbe dire che l’errore gioca in letteratura il ruolo che la mutazione genetica gioca nel Dna e che in fondo la selezione naturale la opera il lettore, stabilendo ciò che da errore diviene genialità e normalità e ciò che invece si perde nell’oblio.
La storia è piena di questi episodi curiosi, che vi invitiamo senza meno ad approfondire: a cominciare dall’illustre Robinson Crusoe (dove di errori ce ne sono molti e assai famosi ma questo non altera la bellezza dell’opera) l’errore è parte insopprimibile e quasi necessaria di molti celebri volumi e del loro fascino, tanto che si potrebbe scrivere una storia dell’errore letterario (non sarebbe tempo sprecato).

Una bella antologia
Il volume dal punto di vista dei contenuti ha vari meriti: cominciamo senza dubbio dai tre racconti inediti, pubblicati per la prima volta in Italia di George Sand, Mark Twain e Mary E. Wilkins Freeman. Potremmo anche citare il merito indubbio di aver saputo rivitalizzare e nobilitare in modo originale il concetto di antologia.
Inoltre il libro rappresenta l’ennesima dimostrazione del fascino della letteratura che parla di viaggi e di contemplazione della natura. È la montagna, in tutte le sue declinazioni materiali o immaginarie, la vera protagonista di questo volume che permette al lettore di arrampicarsi sulle vette più alte in cordata con i più grandi autori della narrativa internazionale da Emilio Salgari a Alexandre Dumas, da Jack London a Victor Hugo. Ogni ascensione letteraria è caratterizzata da uno stile, una testimonianza, un personaggio che graffia sensibilità e sentimenti del lettore, giocando su tutte le corde, anche quelle dell’ironia.
Insomma un testo da raccomandare per chi vuole essere in sintonia con la natura in tutti i sensi, anche in quello non trascurabile e spiritualmente appagante di aver contribuito a salvaguardare l’ambiente evitando che un errore “uccidesse” un libro trasformandolo in una triste quasi tonnellata di rifiuti da smaltire.

Massimiliano Bellavista

(www.bottegascriptamanent.it, anno XVI, n. 175, aprile 2022)

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La scuola secondo D’Errico. Una recensione

Il ritratto di una scuola
ostaggio di sé stessa
e della società contemporanea
D’Errico e i problemi didattici
in un saggio per Armando
di Massimiliano Bellavista
I problemi della nostra scuola sono sotto gli occhi di tutti. La Dad (Didattica a distanza) e la pandemia non hanno fatto che estremizzarli, ma la scuola italiana ansimava ancor prima che fosse costretta a correre dall’emergenza. Studenti stressati e demotivati, politici ignoranti e disorientati, famiglie indifferenti e poco informate, insegnanti scarsamente aggiornati e soprattutto delegittimati (mentre in Giappone i docenti sono gli unici a non doversi inchinare dinanzi all’imperatore).
Il punto di vista di Stefano d’Errico, autore de La scuola rapita. Il Covid e la Dad. Il disastro educativo italiano (Armando editore, pp. 630, € 25,00) è chiaro ed è esattamente sovrapponibile a quello che fu di Italo Calvino: «Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere».
C’è da chiedersi come si sia arrivati a questo punto, e l’autore risponde puntualmente, con argomentazioni fin troppo dettagliate. Si tratta di più di 600 pagine che consentono di attraversare con rinnovata consapevolezza oltre sessanta anni di storia italiana dalle riforme degli anni Sessanta e Settanta fino alle conseguenze dei recenti tsunami riformistici (autonomia scolastica, riforme Moratti e Gelmini, legge sulla Buona scuola e via discorrendo).
Leggendo le pagine di questo notevole volume, la sintesi che si può trarre è che valga la ben nota metafora della rana bollita: vale a dire che una rana messa nell’acqua già calda scapperebbe, ma una che va in pentola con l’acqua fredda, tende a non accorgersi che essa si scalda a poco a poco. Fuor di metafora è quello che dice Pino Aprile nella sua Introduzione: «Ogni dettaglio è premessa di un maggior danno, tanto da dare senso compiuto al titolo: la demolizione della nostra scuola, già una delle migliori del mondo, non può esser conseguenza episodica di troppi incapaci, presuntuosi e ignoranti al vertice del ministero che la guida, ma l’esecuzione di un progetto, di cui quella sequenza di guastatori è solo uno dei meri esecutori».

Più cinese e meno greco
Il problema fondamentale è che oggigiorno la scuola odia sé stessa, e a scorrere le pagine di questo interessante volume, sembra diventata una fucina di idee bislacche e contraddizioni. Eppure è anche la stessa scuola che proprio mentre si sta scrivendo questo articolo ha consentito a una persona come Giorgio Parisi di conquistare il premio Nobel per la fisica. «Un Paese “normale” può lasciare da circa 30 anni (ovvero da quando esistono standard di legge) almeno l’80% delle proprie scuole fuori norma rispetto ad elementari regole di sicurezza? Nei 5 anni che vanno dal 2014 al 2019, nelle scuole italiane s’è verificato in media un crollo ogni 4 giorni. Che senso aveva colpire con continue controriforme la miglior scuola elementare del mondo (così certificata dall’Ocse sino al 1990), facendola scendere al sesto posto? È plausibile un liceo scientifico senza il latino (creato dal 2010)? È “normale” proporre per il liceo classico la sostituzione del greco con il cinese?».
Molte domande quindi, ma anche tante risposte. Forse in questo senso i meriti maggiori del libro in questo senso sono due, di cui il primo, di gran lunga più importante, è senza dubbio quello di generare nel lettore una gran voglia di reagire a questo stato di cose. Reazione che, come si nota a più riprese, ha visto molto latitare diversi attori del sistema scolastico a cominciare dalle stesse organizzazioni sindacali. «La vexata quaestio della scuola italiana ha origine nell’impiegatizzazione degli insegnanti. La scuola, in violazione del dettato costituzionale che ne impone da sempre uno status autonomo (tanto che i docenti ancora non sono giuridicamente annoverabili fra i lavoratori subordinati), è divenuta una res grazie alle attenzioni “disinteressate” dei sindacati dei pubblici travet e del settore privato che, di concerto con Confindustria, “vati” ed accademici della formazione, mondo clericale, partiti operaisti e liberisti, l’hanno spersonalizzata facendone mero terreno di conquista».
Il secondo merito è quello di fare proposte concrete per uscire da questa situazione, dall’ultimo anno di scuola dell’infanzia obbligatorio, all’obbligo scolastico esteso fino a 19 anni. Su tutti i numerosi e ragionevoli punti elencati con dovizia di dati e argomentazioni a sostegno si può citare questo breve ma significativo passo: «11) Sostituzione del programma “Invalsi” con sistemi sia di autovalutazione, anche ad interscambio e verifica congiunta da parte delle Scuole dello stesso ordine e grado e con analogo tessuto sociale di riferimento, sia di verifica ispettiva triennale centrale e/o regionale relativamente al conseguimento degli obiettivi datisi dalle Scuole tramite il Ptof, al fine di potenziare gli interventi che hanno ottenuto buoni risultati e modificare o abbandonare gli interventi inefficaci. Sistemi di stimolo e valutazione legati alla tradizione metodologico-didattica del nostro Paese (anziché alla “consuetudine” anglo-sassone, Usa, finnica e scandinava); 12) Messa in sicurezza di tutti gli istituti italiani, ad oggi in regime di deroga, ed in regola per meno del 15%. Assicurazione professionale a carico della parte datoriale per tutti gli operatori scolastici».

Un problema fondamentale: quello delle infrastrutture
Perché citiamo il tema della sicurezza? Perché esso attraversa tutto il libro, segnalando come l’ultima chiamata per la scuola italiana sia senza alcun dubbio costituita da un profondo intervento sulle sue annose carenze infrastrutturali. Certo, emerge con evidenza anche l’esigenza di profondi cambiamenti ai processi di reclutamento e formazione degli insegnanti, di potenti investimenti sulle metodologie e competenze didattiche ma il potenziamento delle infrastrutture e dell’istruzione tecnica è fondamentale e il non essersene mai occupati con serietà e continuità è il principale atto di accusa che questo libro a nostro giudizio vuole lanciare: « O gli “scostamenti” di bilancio “consentiti” dalla Ue e dalla casta politica Ue-dipendente devono sempre essere solo per altri settori, riarmo e mercato delle armi compresi? Peraltro con la manovra presentata per il 2021 si arriverà ad uno scostamento pari almeno al 10,8%. Sanno in che condizioni: è l’edilizia scolastica in Italia? Hanno mai visitato un Istituto tecnico aereonautico alloggiato in un condominio con aule 4×4, dove il simulatore di volo l’hanno visto solo in fotografia? O una scuola media inferiore (uso all’uopo la dicitura del secolo scorso) alloggiata in container da 20 anni, piuttosto che una scuola dell’Infanzia sistemata nei garage di una palazzina le cui saracinesche si affacciano direttamente sulla strada? Lo sanno che devono ancora essere sostituite le scuole chiuse perché sotto le fondamenta le eco-mafie avevano sotterrato rifiuti speciali?». Impressionanti sono poi le considerazioni dell’autore sul continuo stillicidio di istituti chiusi e di aule perse perché l’incuria li rende de facto inutilizzabili.
Una parte consistente del volume è poi dedicata ai recenti avvenimenti pandemici e alla Dad, ma il tutto è trattato con oggettività e sobrietà, perché le problematiche aggiuntive di questi ultimi due anni non sono piovute dal cielo, ma fanno parte di un ciclo vizioso che parte da molto lontano e il libro aiuta a comprenderlo bene.
Un ultimo aspetto da segnalare, estremamente attuale e di cui non si parlerà mai abbastanza, è il fatto che il volume dedichi le sue pagine finali, quelle orientate al futuro, al necessario coinvolgimento di famiglie e studenti. Questi ultimi sono spesso usati solo in maniera ‘decorativa’ dalla politica, quando di fatto proprio in questi ultimi tempi stanno dimostrando, nelle piazze, sui social e coi loro manifesti, una originalità e concretezza di proposte che farebbe molto bene alla scuola.
Come si vede una vastità di argomenti e temi che rende il libro consigliabile e utile anche come fonte documentale per ogni studente, insegnante o anche semplicemente per un cittadino che voglia essere consapevole di un settore così essenziale per il futuro di ogni Stato. A cominciare dal nostro.

Massimiliano Bellavista

(direfarescrivere, anno XVII, n. 190, novembre 2021)

Varie: due articoli, una intervista, una recensione dell’ultimo libro

Bella tre giorni a Bagnoregio e Montefiascone con molti giovani. Brillanti gli interventi di Lello Voce (che ringrazio per il divertentissimo pomeriggio passato assieme e la bella dedica) e Marcello Fois.

Anno XVII, n. 189 ottobre 2021  
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vertigini dell’anima:
una rivelazione in ogni senso
Dal “padre” di Adelphi
uno studio su Hitchcock
di Massimiliano Bellavista Il terzultimo libro di un grande scrittore e di un ancor più grande editore quale Roberto Calasso si intitola curiosamente Allucinazioni Americane (Adelphi, pp. 766, € 14,00) ed è il primo che ha dato alle stampe nel suo ultimo anno di vita, il 2021. Gli altri due sono decisamente più in linea con la sua precedente produzione, e assai più autobiografici. Qui il protagonista è il cinema. Nell’ambito del cinema, si tratta di un suo interprete assoluto, Hitchcock. Nell’ambito della produzione del grande regista, si affrontano due film tra i suoi più sibillini ed enigmatici, La finestra sul cortile e La donna che visse due volte.
Il punto di vista di Calasso sui due film è assai originale, e il libro che ne risulta è godibile, mentre lo si legge si ha come l’impressione di esserne parte in causa e di dialogare direttamente con l’autore. Ma è un abile gioco di specchi che spesso inganna. «Questo è un libro su un rompicapo ed è un rompicapo esso stesso».

Le mille madeleine e gli infiniti dettagli di due capolavori gemelli
È una ben ambigua e sofisticata madeleine proustiana quella che compare ne La donna che visse due volte. L’avvocato e poliziotto John Ferguson soffre di vertigini: durante un inseguimento sui tetti dei grattacieli di San Francisco, aggrappato a una grondaia e sospeso nel vuoto, vede un collega precipitare al suolo nel tentativo di salvarlo. Quest’incidente sarà la causa della sua acrofobia. Un suo ex compagno di college, Gavin Elster gli affida l’incarico di sorvegliare sua moglie Madeleine, vittima di strane ossessioni, durante le quali la donna s’identifica con la bisnonna materna, Carlotta Valdés, la quale, abbandonata dall’amante e privata della figlia nata dalla loro relazione, morì suicida a 26 anni, la stessa età di Madeleine. Nomen omen, madeleine/Madeleine entra in scena come immagine mentale dagli effetti però molto reali, in quanto la sua “esistenza” impone che «un’altra donna muoia: la moglie di Elster prima, Judy dopo». Ferguson sprofonda lentamente (la lentezza caratterizza tutti e due i film di Hitchcock a differenza di altre sue pellicole caratterizzate da paradigmi ritmici e temporali assai più immediati) in un passato insondabile, al contempo esistente e irreale e qui l’indagine di Calasso si fa fine. «Il segnale che manifesta il contatto con Madeleine è il colore verde: nello scialle, lungo fino a terra, della donna seduta al ristorante con Elster, nel vestito da giorno con colletto di Judy che cammina con le sue colleghe del grande magazzino. Fra l’uno e l’altro, ci sono anche molti altri verdi, introdotti dalla Jaguar verde chiaro di Madeleine, fino al canopy dell’Hotel Empire dove vive Judy e alle tende nella sua stanza, illuminate dall’insegna al neon dell’albergo».
Allo stesso modo, il mondo de La finestra sul cortile è un mondo autosufficiente, ricco di dettagli simbolici che tutto risucchia in quel teatro, a eccezione delle ventate di eleganza ed erotismo upper class di Lisa Freemont, una sofisticata ragazza e indossatrice non professionista, la quale si reca regolarmente a fare visita a Jeff, il fotoreporter di successo protagonista del film ed immobilizzato su una sedia a rotelle a causa di un infortunio. «La ruota vorticosa dei fantasmi, ombra sempre più irresistibile di Grace Kelly che si proietta (da dietro) sul fotografo addormentato (…) creano una tensione che cresce, insieme al caldo umido di New York. Soprattutto in due persone: il fotografo e il commesso viaggiatore, che si appresta ad uccidere la moglie. Che cosa lega questi due esseri che si ignorano? Un filo sottilissimo, un filo femminile. Il commesso viaggiatore Lars Thorwald uccide la moglie: il fotografo lo scopre con l’aiuto con l’aiuto della donna che vuole diventare sua moglie (e a sua volta rischierà di essere uccisa dall’assassino). Come sempre sacrificio ed ierogamia sono avvolti l’uno nell’altra».

Un’argomentazione elegante e non dirompente o distruttiva
Quest’ultimo riferimento non è espresso a caso, perché è proprio una rilettura mitica dei due film quella che l’autore ci propone: «Che aria tira in quel cortile della nona strada? Più o meno quella che tirava a Tebe con Edipo o a Elsinore con Amleto. “C’è qualcosa di marcio nel cortile”. Ad accorgersene, come al solito, è il coro, che qui delega a rappresentarlo la mirabile Thelma Ritter, infermiera delle assicurazioni». Alla fine, non è proprio questo il ruolo del cinema, ovvero quello di costituirsi come “macchina mitopoietica” capace di generare visioni e narrazioni che invadono tutti i nostri ambiti personali, da quello razionale a quello etico ed onirico? Secondo Calasso le star hollywoodiane sono quindi le nuove divinità e le opere di Alfred Hitchcock possono addirittura essere re-interpretate alla luce della dottrina vedantica. Una provocazione, si capisce, ma non priva di fascino e di spunti inediti per questo volume, che rappresenta la sintesi e la sedimentazione di un pensiero durato anni.
Ma in cosa consiste questa sorta di legame di sangue, di “gemellità” che lega due capolavori assoluti della storia del cinema e che quindi, a prima vista, potrebbe anche fare a meno di questo accostamento? Tutti i motivi, anche quelli più reconditi, sono puntualmente esplorati dall’autore: «La gemellità si dichiara già nel casting: in entrambi i casi James Stewart e una indefessa fidanzata bionda, che lavora nella moda (Grace Kelly e Barbara Bel Geddes). James Stewart ha (o ha avuto) in tutti e due i casi un mestiere inquisitivo: fotoreporter avventuroso o brillante detective. (…) In entrambi i casi, il primo dialogo ruota intorno al fatto che l’uomo è impedito nel movimento, per la gamba ingessata ne La finestra sul cortile, per le vertigini in La donna che visse due volte».
Del resto a ben vedere l’inesorabilità degli accadimenti che è tipica del mito, e anche della tragedia greca, è l’ingrediente fondamentale dei due film. Difficile in questo senso dar torto all’autore, che pagina dopo pagina argomenta alla sua, particolarissima, maniera. Nelle due pellicole ciò che accade nella rispettiva trama narrativa è assai meno importante di ciò che accade nella testa dei personaggi, l’azione è sacrificata alla stasi perché sono le menti dei personaggi a rincorrersi, talvolta a sovrapporsi e a cannibalizzarsi come nel caso de La donna che visse due volte «il finale è implicito fin dall’inizio del film: lieto ne La finestra sul cortile (il fotoreporter allevia il prurito con un calzascarpe, in attesa di liberarsi dal gesso); funesto in La donna che visse due volte (l’ex poliziotto vuole liberarsi a poco a poco delle vertigini, ma ha una crisi appena sale al terzo gradino di una scaletta».
Il lettore, cinefilo e non, quindi potrà quindi trovare pane per i suoi denti in questo libro sui generis marcato da uno stile elegante e colto, come sarà d’ora in poi trovare in libreria data la scomparsa di un autore che aveva saputo affascinare e fidelizzare generazioni di lettori attorno alla sua cristallina capacità affabulatoria.

Massimiliano Bellavista

(direfarescrivere, anno XVII, n. 189, ottobre 2021)
http://www.bottegaeditoriale.it/Uneditorealmese.asp?id=232

http://www.bottegaeditoriale.it/Uneditorealmese.asp?id=232

Rivisitare l’Inferno o della cura dell’anima.

Un’argomentazione chiara
e semplice su temi complessi
di Massimiliano Bellavista
L’immaginario diffuso e condiviso oggigiorno, in egual misura tra chi crede e chi no, prevede che l’inferno che ci raffiguriamo mentalmente alla sola evocazione della parola o del concetto sia, sostanzialmente, quello dantesco. E esattamente come non occorre essere religiosi per avere una certa idea dell’inferno, non occorre nemmeno aver letto Dante per sintonizzare la propria mente sugli scenari angoscianti più tipici e scontati della Commedia. Perché?
La commistione di registri stilistici tipica della Commedia e l’ampio uso del registro realistico ai fini della trasposizione della realtà mondana nella dimensione ultraterrena forniscono una tale e vivida rappresentazione realistica che non poteva non influenzare, attraverso i secoli, schiere di lettori e artisti. Poi è arrivato Gustave Doré, e il suo novum nell’immaginario occidentale che ha definitivamente imposto un canone fatto di abissi, demoni, forconi, contrappassi e stridore di denti.
Per Dante tutto ciò in ultima analisi derivava da una specifica esigenza di categorizzare e analizzare il mondo in cui viveva, per la Chiesa, c’era la necessità di trasferire e restituire ai credenti, anche visivamente, il concetto del castigo eterno e della sofferenza dei dannati.
Dal punto di vista teologico, il tema della punizione eterna è a tutti, fedeli e non, assai ben noto. Tuttavia, come l’arcivescovo Andrè Lèonard ben riporta nella sua Prefazione al volume del sacerdote e mistico Yvon Kull, Rivisitare l’Inferno. O come divenire immortale (Rubbettino, pp. 186, € 18,00), «Dopo decenni, sono convinto che il problema più difficile della teologia sia quello dell’inferno, concepito come castigo eterno e sofferenza eterna dei dannati. Già Origene, nel terzo secolo, non sopportava il pensiero di una punizione eterna, senza alcuna prospettiva di riparazione di colpa e di salvezza». Singolare ma fondamentale tema, quello degli ultimi fini, su cui stranamente sia la predicazione della Chiesa che la riflessione teologica sono negli ultimi decenni quasi mute, lasciandoci di fatto spiritualmente ancorati alle immagini dantesche. E l’orizzonte laico non è meno silente, essendo del resto la nostra storicamente la società più ritrosa e refrattaria a temi come la morte e l’aldilà. E allora merito a chi almeno prova a discuterne.
Un’argomentazione elegante e non dirompente o distruttiva
Ma l’autore, dall’alto della sua lunga esperienza e del suo lunghissimo percorso di fede nella Congregazione ospedaliera del Gran San Bernardo, si guarda bene dal porsi in modo distruttivo, fuori dai canoni della Chiesa. Lo dice a più riprese, anzi sottopone volutamente il suo pensiero, attraverso questo libro, all’esame di tutti, in primis della Chiesa stessa. A ben vedere in effetti, il volume di Yvon Kull non è stato scritto per mettere in discussione la fede o la religiosità di alcuno, ma solo per suggerirci un altro e forse più fertile paradigma interpretativo dell’aldilà.
L’autore dispone di una larga cultura filosofica e teologica, ma deliberatamente ha voluto scrivere in un linguaggio semplice, pedagogico si direbbe, e non specialistico.
La tesi centrale è semplice quanto immensa. Si tratta della libertà individuale, ovvero e con altre parole, ciò che Dio ci impone e ciò che rimane nelle nostre mani, ancorato alla nostra personale decisione. In principio, vi è una sorta di imposizione che caratterizza un Dio che, senza evidentemente poterci consultare, ha imposto all’uomo l’esistenza con l’intento di potergli far vivere una vita destinata all’eternità. Ma, secondo l’autore, qui si ferma l’imposizione e l’esistenza non è uguale all’immortalità. Se quindi Dio ci offre l’opportunità di rispondere con un sì o con un no alla sua offerta, in questo secondo caso la punizione eterna di connotazione dantesca non avrebbe alcun senso. Dio quindi, secondo l’autore, che fonda le sue considerazioni su fonti autorevoli a cominciare dalla dottrina di Sant’Ireneo, «risponderebbe al nostro rifiuto non imponendoci l’esistenza eterna ma lasciandoci ritornare al nulla. L’inferno eterno sarebbe quindi la caduta nell’inesistenza eterna».
Tesi che come si comprende subito non lascia indifferenti e che si scontra prima di tutto con il nostro immaginario, cui ci si riferiva poc’anzi, e anche e di conseguenza con la più corrente interpretazione dei testi biblici. Tuttavia, questa tesi, come l’autore notare ricorrendo alla sua esperienza di interazione con i credenti, risponde a una esigenza che trova riscontro e consenso tra molte categorie di fedeli. Come dire insomma, che il nostro modo di pensare, come la società, è cambiato e che quindi con tutta probabilità occorrono nuovi pensieri e testi in grado di rispondere a un crescente disagio.

La crisi della fede e la ricerca di nuove categorie
«Non so perché, tu che tieni questo libro tra le mani t’interessi all’inferno» dice l’autore all’inizio del volume. Probabilmente accade perché il lettore sente, al di là delle possibili critiche, la genuinità del suo pensiero, la volontà costruttiva e non distruttiva con cui si è strutturato nel tempo. In poco meno di duecento pagine sono condensati trent’anni di riflessioni profonde, che hanno in primis plasmato la vita dell’autore stesso. «Un giorno ho pensato che se non avessi scritto questo libro, nessuno l’avrebbe mai scritto al mio posto, perché nessuno ha vissuto ciò che ho vissuto io stesso». Non sembri superbia. È che quote via via maggiori di fedeli esprimono un disagio e una difficoltà a inquadrare questo concetto, il convitato di pietra della fede, l’inferno. «Sarei in torto se volessi dare una lezione a chicchessia. So che il dogma dell’inferno è una pietra d’inciampo per molti sul cammino della fede cristiana. Sono numerosi quelli che non possono più credere in Dio a causa dell’inferno e della spiegazione che e ne dà. Numerosi sono quelli che credono in Dio, ma si domandano come amarlo veramente, se le sofferenze dell’inferno devono essere eterne. Come potrebbe un Dio permettere una tale atrocità ed essere amabile?».
La “seconda morte” che l’autore ci prospetta è un concetto chiaro e che restituisce il destino nelle mani dell’uomo stesso, in quanto sarà il suo libero rifiuto della grazia di Dio a determinarla. Anche questo inferno a ben vedere, alla fine è comunque eterno poiché la cessazione della vita è per sempre, l’annullamento, l’assenza totale intesa come ritorno al nulla, è irreversibile. Ma questa congettura è per certi aspetti rivoluzionaria e, a detta dell’autore, restituirebbe alla dottrina cristiana una parte significativa della sua originalità, della sua identità distinta rispetto a tante ‘religioni alla moda’. «Non ci sarà –non potrà esserci – una “vera” nuova evangelizzazione finché per così lungo tempo la Chiesa cattolica lascerà credere – peggio insegnerà – che l’anima è di natura immortale. Come volete che gli Hindu, i Buddisti, gli gnostici, quelli della New Age… – tutti quelli che per errore si credono immortali – abbiamo bisogno del nostro Gesù crocefisso per essere salvati dalla morte? Ai loro occhi, non hanno bisogno – come i cristiani – d’essere salvati dalla morte da un Altro perché si credono “immortali” in loro stessi».
Si tratta come si vede di un testo difficilmente classificabile, a metà com’è tra la teologia e il racconto di una vita, ma che ha l’indubbio merito di sollevare molteplici interrogativi, e anche di fornire alcune interessanti, originali e plausibili risposte, stimolando sicuramente la riflessione e il pensiero di tutti, non solo dei credenti.

Massimiliano Bellavista

(direfarescrivere, anno XVII, n. 187, settembre 2021)

Il canto di Jimmie Blacksmith

https://it.viceversapublishing.co.uk/il-canto-di-jimmie-blacksmith

Il canto di Jimmie Blacksmith non è un romanzo ma la descrizione di un mito. Un mito, in tempi moderni, può nascere da poche parti, perché servono molti ingredienti: un’ambientazione esotica, o addirittura vergine nell’immaginario collettivo, dei personaggi forti, che dicano o facciano almeno qualcosa che non è mai stato detto o fatto prima, un tessuto di rappresentazioni immaginarie del mondo e di evocazioni potenti, una storia che metta in discussione o faccia vacillare quei valori e quelle convinzioni consolidate di cui la società si nutre. 

Certo, quando nel 1972 Thomas Keneally decise di romanzare la vera storia di Jimmy Governor, il mezzosangue domatore di cavalli che con il fratello uccise nove bianchi terrorizzando l’Australia per mesi (precisamente tra il Luglio e l’Ottobre del 1900), voleva affrontare, da un nuovo punto di vista, il tema per lui consueto dell’influsso che certi eventi o cambiamenti storici e sociali hanno sulla moralità e la vita individuale Non vi è alcun dubbio su questo. Ma se si legge bene il volume si giunge presto alla conclusione che forse voleva fare anche dell’altro (e ci è riuscito): scrivere una fiaba tragica, far nascere un mito.

Solo così si spiega un incipit come questo: Nel giugno del 1900, lo zio materno di Jimmie Blacksmith, Tabidgi-Jackie Smolders per il mondo bianco-fu turbato dalla notizia che il nipote aveva sposato una ragazza bianca nella chiesa metodista di Wallah. Pertanto prese il dente dell’iniziazione di JImmie e si mise in cammino per Wallah, una distanza di cento miglia.

Questo non è l’inizio di una cronaca né tantomeno di un romanzo, ma è l’equivalente di un c’era una volta, l’incipit di una favola tragica, della narrazione di un mito del riscatto degli emarginati e della fondazione di una nazione che però non è mai sbocciato.

E sì che i tempi sembravano maturi nel 1900, quando, tra la curiosità dell’opinione pubblica mondiale, stava per nascere una grande e giovane Nazione, finalmente indipendente dal giogo coloniale, una Nazione che voleva essere aperta, anzi precorritrice dei cambiamenti sociali del secolo breve (il voto alle donne. La pensione ai vecchi e alle vedove. Tribunali industriali benevoli con i sindacalisti si legge nel libro), ma che, questa l’amara constatazione che lo stesso autore fa nella sua prefazione alla ricca e ben curata traduzione del romanzo edita a cura di Viceversa Publishing, a distanza di oltre cento anni non è stata invece capace di affrontare in modo risolutivo il tema degli aborigeni. Lo dimostra molto bene tanta letteratura recente che proprio da quel Paese viene, tra tutti la Sally Morgan de La mia Australia (1987).

E allora, come capita di sovente in letteratura, il protagonista non può che essere che qualcuno la cui vita il confine tra le due culture, quella bianca e quella nativa, lo rappresenta plasticamente. Qualcuno come Jimmie Blacksmith per esempio, che vede il suo mondo antico sfaldarsi (Gli uomini tribali erano mendicanti che vomitavano sherry bruciabudella dell’Hunter River al riparo dei cessi dietro i pub. Gli anziani tribali (…) prestavano le loro mogli agli uomini bianchi per un sorso da una bottiglia di brandy) ma decide comunque di reagire, di farsi apprezzare per il suo lavoro, di integrarsi come si direbbe oggi.

Quando però il mondo bianco tanto agognato gli volta le spalle, negandogli il giusto compenso per il suo duro lavoro (simbolo quest’ultimo del riscatto sociale nel passaggio da una società tribale ad una fondata sul denaro) e mirando per giunta a spezzare il suo matrimonio con Gilda allontanandolo anche dal suo bambino, qualcosa in lui si spezza. Non ci sarebbe davvero bisogno di sottolineare come Keneally sia un ottimo scrittore, ma ci son pagine dove riesce addirittura a superare sé stesso. Come in un mito greco infatti, il lettore sa benissimo cosa sta per succedere, non è quello il punto, non è il cosa ma il come cui il lettore è interessato, cioè in ultima analisi la cifra stilistica e il registro che lo scrittore sceglierà di utilizzare per il suo racconto. Una famiglia bianca sarà massacrata, altri quattro morti seguiranno, ma c’era modo e modo di esprimere questa brutale cesura, il sangue rifiutato e ancestrale dei riti aborigeni che torna in scena inondandola di terrore, i processi mentali che alla velocità della luce si succedono nella mente del protagonista che oscilla sempre più vorticosamente tra le estremità degli istinti tribali, la sua nuova normalità e un futuro di orrore. Ecco, Keneally fa tutto questo da maestro, come quando descrive la visita del protagonista al cattivo padrone Newby, che lo vuole far fuggire senza pagarlo con la scusa che anche i suoi parenti vivono con lui e che questi rappresenterebbero per lui un pericolo.  Era infatti contro tutte le ragioni portare Tabidgi con sé in una missione di reclamo. Tabidgi era il pretesto di Newby per sospenderli le provviste. Tuttavia, all’altra estremità degli istinti tribali, Jimmie forse voleva semplicemente mostrare Jackie ai Newby, far loro vedere quale innocuo vecchio bastardo fosse. Ecco, quella espressione all’altra estremità degli istinti tribali, è un vero tocco da maestro, perché dice metaforicamente tutto quello che c’è da dire.

Tuttavia Il compito non gli riesce e Jimmie lasciò entrare nel suo corpo una maestà di giudizio inebriante, la sensazione che erano le stelle appuntite nel cielo a spingerlo. Obbedendo ad una ben nota regola della tragedia greca, Keneally sembra quasi esitare a mettere in scena la crudezza di quanto sta per succedere (lo esplicita a chiare lettere quando scrive che il lettore ne dovrebbe essere risparmiato). Da scrittore elegante e completo infatti, ci ha già introdotto a sufficienza nel delirio di Jimmie, ci ha, per così dire, già fatto sentire molto forte l’odore del sangue: l’ultimo magia della sua scrittura è dunque trasformare tutto quello che assurdamente segue in una conseguenza ovvia e ‘normale’ utilizzando uno stile volutamente non lirico, anzi piatto e quasi disimpegnato. (…) e poi con calma fece a pezzi Miss Graf tra il fianco e le costole.  Mentre colpiva e continuava a colpire, Jimmie apprese la facilità dell’uccidere. Le persone erroneamente lo vedevano come un atto estremo, terrificante.

Ciò che segue è una terrificante parabola, nel senso che il destino di Jimmie Blacksmith in questa favola è segnato da una strana e inquietante ciclicità, anche questa tipica caratteristica di un mito. Uscito in modo traumatico dal mondo tribale, dopo essere stato capace di introiettare piuttosto profondamente la cultura bianca dominante al punto di vivere, lavorare, pregare e persino amare come i bianchi, Jimmie, guidato non più dalla razionalità ma dall’istinto del suo cervello rettiliano, sprofonda mortalmente nel profondo del suo passato aborigeno.

Il simbolo e il segnale di questo passaggio ultimo e irreversibile è la foresta, dove fugge con il fratello: essa nel volume è descritta frequentemente. È allo stesso tempo la madre, il luogo che gli accoglie, quando viene descritta esplicitamente come soprannaturale: fitta, più familiare, pullulante di insetti industriosi, ma è anche la matrigna, cioè il luogo che, insopportabilmente, sembra imprigionarli (Per liberarsi degli interminabili alberi, di nuovo si facevano venire intenzionalmente delle crisi).

Jimmie e il fratello attingono a piene mani, nella loro definizione e marcatura come personaggi della storia, dal bagaglio mitologico. Un po’ Eteocle e Polinice, in quanto vittime della stessa maledizione, un po’ Castore e Polluce, in quanto inseparabili condivisori di un destino di morte, di una discesa nel mondo delle ombre proiettate dalla loro coscienza.

E l’Australia? L’Australia che sta sempre sullo sfondo del volume nel frattempo diviene festosamente una realtà, una Federazione ma, lo si capisce subito, non così diversa come essa per prima si credeva dai Paesi dell’antica Europa. Anch’essa non è più una terra vergine e ha ora la sua polvere da cacciare sotto i tappeti, i suoi scheletri da stipare nell’armadio e sono assai belle significative le ultime pagine del libro, che descrivono il limbo, si potrebbe dire il Miglio Verde, in cui è sospeso il protagonista, in attesa di una assoluzione che forse, anche contro la sua volontà razionale il lettore gli ha già dato.

M l’Australia lo condanna invece ad una morte sospesa che certo avverrà, poichè tutta la nazione vuole in fondo la sua libbra di carne, ma non subito, senza fretta e solo quando si spegneranno gli echi della festa, perché Non si potevano impiccare dei neri in una simile occasione.

Il Druido e il Maragià

Quando ho saputo che Paolo Ciampi aveva scritto un libro sull’Indiano, che per i più dei comuni mortali fa solo rima con ‘ponte’ e soprattutto con ‘traffico’ (il quale è un’assoluta certezza a Firenze la mattina come a Roma l’attesa biblica sul GRA) e per i restanti fiorentini è il Caronte che con i suoi stralli in acciaio unisce i quartieri di Peretola (a nord dell’Arno) e dell’Isolotto (a sud dell’Arno), ho subito pensato che si fosse messo in un’impresa difficile ma meritoria.

Meritorio era far sapere del Principe indiano morto troppo presto e troppo giovane (appena ventuno anni) a Firenze il 30 Novembre 1870, meritorio rendere noto ancora una volta che Firenze non è fatta solo di Piazzale, Boboli e Uffizi, meritoria in generale di questi tempi era la scrittura di un libro fuori dagli schemi.

Quando poi però ho iniziato a leggerlo, gentilmente inviatomi dall’Autore stesso con un cortese biglietto firmato di suo pugno, sono rimasto assai stupito.

Per quelli che amano la letteratura e in generale lo scrivere, quella che segue è una storia degna di essere raccontata almeno tanto quanto il libro di Paolo Ciampi è assolutamente meritevole di essere acquistato, perciò ascoltatemi se potete per un momento.

Le coincidenze sono incredibili.  E questo libro in questi giorni è stato un compagno interessante, ma anche sornione e beffardo, rivelatore di strani incroci di destini. E interessi letterari

Il libro per cui alcuni han tirato in ballo autori come Pessoa o Tabucchi ma che a me come stile adottato onestamente, se proprio si devono fare degli accostamenti, fa più pensare a Joyce e a Svevo, sospeso com’è, anzi oscillante, tra un flusso di coscienza a volte erratico e un monologo interiore più argomentativo, ha prima di tutto una genesi particolare. L’autore ne racconta il dietro le quinte, a cominciare dall’annuncio che ne fa pubblicamente, durante un evento letterario. Ne seguono una gestazione e una scrittura, come si apprende dal testo, piuttosto discontinue e irregolari, costellate da molti dubbi e ripensamenti. E molte visite al Monumento funebre del Principe.

Da uno scrittore come lui, che ha elevato il concetto di viaggio a suo personalissimo Canone letterario, è singolare e interessante leggere che A forza di scrivere di viaggi, sai, comincio a coltivare qualche perplessità, L’inquietudine dell’altrove si misura con l’inquietudine dell’ovunque: si va lontano e niente è davvero diverso. Avanza il sospetto che non sia questione di chilometri, ma di distanza interiore.

Il Principe e la sua statua quindi non paiono gli attori del libro, ma piuttosto una sorta di confessionale laico, dove l’autore depone i suoi dubbi e i suoi propositi senza attendersi assoluzioni ma solo ascolto.  All’annuncio pubblico del libro, segue ora quello interiore.  Mi è venuto in mente di scrivere di un viaggio che nemmeno parte, un viaggio di chi rimane sempre nel solito posto, e magari vede andare e venire gli altri.

Come nelle vecchie camere oscure, dove la fotografia si veniva definendo agitando delicatamente i liquidi nella bacinella, onda dopo onda, così nel volume il personaggio di Rajaram Chuttraputti di Kolhapur, giovanissimo principe ereditario che stava tornando in patria di ritorno da un viaggio politico e di istruzione in Europa (si potrebbe definirlo un Grand Tour all’indiana, dove quindi non era l’Italia ad essere centrale ma bensì Londra, capitale dell’impero) diventa sempre più nitido dopo capitolo. All’inizio è una statua (tra le altre cose, i lavori di restauro sono terminati proprio lo scorso settembre. Fate come Paolo, prendete la bici e andate a vederlo al parco delle Cascine), alla fine del libro un Uomo, uno Spirito, forse anche in qualche modo un Convitato di pietra.

Ora, più o meno quando Paolo annunciava il progetto del libro e si metteva in caccia del suo Indiano, io ancora non lo conoscevo di persona ma seguivo le tracce di Angelo De Gubernatis. Complice un tramonto da druido (una delle tante belle immagini uscite dalla penna ben appuntita di Paolo), stavolta non fiorentino ma triestino, a un certo punto mi capita in mano un suo libro, piuttosto raro a trovarsi, del 1878, dal titolo un po’ macabro Usi Funebri in Italia e presso gli altri popoli indoeuropei. 

Che c’entra?

C’entra che la cosa mi ha fatto fare un salto sulla sedia perché nel libro di Paolo, l’eclettico professore, saggista, studioso e letterato pieno di sè, anarchico e un po’ paranoico Conte De Gubernatis (nel 1906 sarà addirittura candidato al Nobel per l’Italia) è la ‘spalla’ del nostro Principe.  Si chiamava Angelo de Gubernatis, nel 1861 fu il primo a laurearsi in Lettere nel Regno d’Italia appena proclamato, l’anno dopo partì per Belrlino per studiare il sanscrito. Era una scelta a dir poco originale, ma gli procurò una cattedra a Firenze. (…) Si interessava a tutto il De Gubernatis, forse a troppo. Si accendeva di passione e, dopo poco, in genere si spegneva. Solo l’amore per l’India non gli venne mai meno.

Le sue prime lezioni furono pubblicate in opuscoli che inauguravano in Italia il filone di studi indologici, e questo personaggio dalla cultura vastissima, ma che spesso non curava a sufficienza le sue opere, sempre preso da un altro interesse, è lo specchio dell’Europa, dell’Italia e della Firenze di quegli anni che il Principe Indiano trova durante il suo viaggio, sospesa tra positivismo e spiritualismo, facile agli entusiasmi ma anche e sempre più presa da dubbi e interrogativi sul futuro.

Insomma De Gubernatis è un’ottima scelta per l’esito del volume. Quello che non mi immaginavo è che, quando ci siamo conosciuti a inizio 2020, in pieno lockdown, Paolo ed io avessimo nella nostra testa un amico comune. Proprio lui, il Conte. E non lo sapevamo. Non ce lo siamo mai detti, non c’è ne è stata l’occasione. Per lui, era l’eminente studioso e amante dell’India, per me, preso in quel momento dalla scrittura di un noir, l’eclettico studioso dei riti funebri.

Nel libricino trovato a Trieste, De Gubernatis scrive Nell’ Altharveda la causa della malattia è sempre qualche maleficio occulto di uomini e di dei. 

E qui le strade mie e di Paolo convergono. Il libro di Paolo dedica le pagine più belle a questa lenta convergenza verso la morte, una sorta di Via Crucis che inizia a manifestarsi il 13 Novembre 1870  Un po’ di febbre, niente di che. Normale in fondo per un Indiano che ha attraversato mezza Europa e ora dal Tirolo, si appresta a fare ingresso in Italia.

Però la febbre va e viene, lo debilita a poco a poco, sottilmente, svuotandolo di energie. Poi c’è il viaggio, la visita a Venezia. E finalmente Firenze. La febbre ora torna, prepotente, il peggioramento è improvviso.

Scrive De Gubernatis nel mio libretto Il takman, la febbre, invocata come dio del giallo, affinché risparmi chi lo scongiura. Ed è curioso che per tal febbre intermittente viene pure usato nello scongiuro un metro che si alterna, un metro terzano. E quando la febbre diviene quartana, deve pure riuscire quartano il metro. .. Quando si consideri che la febbre è chiamata dal medico Sucruta, il re delle malattie (…) non vi è quasi malattia che nella credenza indo-europea non sia supposta contenere un demonio.

Ed è davvero un demone spietato quello che uccide il Principe. In pochissimi giorni. Proprio come profetizzano i demoni delle scritture sanscrite del libercolo che ho in mano.

È una scena bellissima da leggersi, surreale, onirica, ottimamente ‘girata’ più che descritta, quella che Paolo Ciampi dedica al corteo funebre, lo strano corteo che si forma sotto l’Albergo in Piazza Ognissanti. Gli otto domestici indiani che rabbrividiscono nel gelo della notte. Da sola vale il libro.

Come prescrivono i rituali indiani, c’è bisogno di bruciare il corpo su di una pira.  Cosa di certo non semplice da far capire alle autorità all’epoca. E poi c’è bisogno di due fiumi, perché è alla confluenza degli stessi che va innalzata la pira così da liberare l’anima per il suo viaggio.  Solo che Firenze notoriamente ne ha uno. E la promozione fatta sul momento del Torrente Mugnone a ‘collega’ dell’Arno, è sospesa tra l’ironico e il grottesco, ma testimonia anche l’umanità e la disponibilità dell’Italia di allora, a tutti i livelli, popolari e istituzionali, che ne esce in questo senso assai meglio di quella di oggi. Anche questa parte vale la pena di un’attenta lettura.

Me lo immagino quella notte di tanti anni fa il De Gubernatis lì a guardare la scena non sapendo se crederci davvero, peraltro come molti altri che vi assistettero. Il libro che ho in mano è di otto anni dopo, chissà che non avesse quella scena ben in mente quando lo scriveva.

E così la storia finisce grossomodo dove è iniziata. Davanti a un monumento che nel frattempo è diventato amico.  Ad uno scrittore che lo guarda e nel frattempo è anche lui cambiato, cresciuto. In fondo come diceva qualcuno, ogni storia è un viaggio e una meta e ogni libro una strada per arrivarci, e ciò che contraddistingue un buon scrittore è il sapere accompagnare il lettore senza lasciarlo indietro e o farlo uscire di carreggiata. Lo stesso qualcuno aggiungeva che però questa è una capacità rara e che aveva visto molti incidenti nella sua vita.

Credo che Paolo sia riuscito perfettamente nell’intento di accompagnarci a destinazione.  Senza incidenti, anzi con grande piacere che certamente si attinge dalla lettura del suo Maragià. E sono abbastanza certo che quella non sarà la meta definitiva, ma la stazione di partenza di un nuovo viaggio che presto scriverà. Chiuso ermeticamente in zona rossa pur di partire sarei disposto anche a portargli le valigie.

Donne: una rivalsa a colpi di carta e penna. Una storia e una recensione

Una recensione che mi sono divertito a scrivere….

Donne arrabbiate e sfiduciate
nei confronti della società:
una rivalsa a colpi di carta e penna
Un’opera che alterna ironia al crudo realismo, con un genere
ancora poco diffuso in Italia. Scritto da Valeria Gangemi
di Massimiliano Bellavista
Questo settembre Ruth Bader Ginsburg, giudice liberale e icona pop, seconda donna della storia americana a far parte della Corte Suprema, (dopo Sandra Day O’Connor) è morta all’età di 87 anni, per complicazioni legate al cancro al pancreas. Ginsburg è stata prima di tutto un’architetta legale capace di trasformare negli anni Settanta la lotta per l’emancipazione femminile in qualcosa di più strutturato e meno urlato di una rivendicazione.
Diceva spesso che era diventata avvocata quando le donne non erano desiderate nella professione legale, riuscì nell’impresa di far equiparare a discriminazione razziale a quella sessuale, aprendo la strada a un lungo dibattito legale e prima ancora sociale.
Ora il libro Le donne lo fanno meglio di Valeria Gangemi (Città del sole Edizioni, pp. 120, € 10,00), manager impegnata nel sociale, condivide questo spirito. Questa raccolta di racconti non è un libro urlato, ma nemmeno da leggere sottovoce. È qualcosa a metà tra un diario e una galleria di ritratti. Ci sono narrazioni declinate sull’attualità e l’immediatezza, dove il dialogo gioca una parte preponderante.
L’uomo, gli uomini, è inutile dirlo, ne escono piuttosto malconci, a cominciare dalla Prefazione, che cita Simone de Beauvoir, e anche nei Ringraziamenti.
Proprio la Prefazione di Mariateresa Marino e i Ringraziamenti finali svolgono un ruolo non secondario in questo libro di esordio letterario dell’autrice.
La prima perché smarca il volume da ingombranti precedenti letterari, invocando per i ventidue racconti che compongono la raccolta una leggerezza da sketch teatrale e un gusto per il calembour (talvolta comunque un po’ troppo compiaciuto e fine a se stesso) che sono senza dubbio la cifra principale di quasi tutti i testi.
I secondi perché finalizzano l’esistenza del volume a uno scopo assai importante e concreto in quanto il ricavato del libro verrà devoluto alla Fondazione “Marisa Bellisario”. E qui la carrellata di grandi figure femminili non può non considerare il profilo della stessa Bellisario, prima grande donna manager italiana, guarda caso della stessa identica generazione della Bader Ginsburg. Il volumetto infatti si presta a nostro giudizio anche ad un’altra chiave di lettura.

La cultura imprenditoriale e manageriale femminile contro il mismanagement
La scrittrice, come già accennato, è anche un’affermata manager. Dettaglio certamente non trascurabile poiché, svolgendo tale professione da tempo, sa che alla fine non esistono molti tipi di management. Certo i nomi, gli stili e le sfumature cambiano nel tempo, ma fondamentalmente ne esistono solo due categorie: quello buono e quello cattivo. Ed è proprio quando si tocca questo ambito che con tutta probabilità, abbandonando per una volta il gioco di parole e le pennellate a volte monocordi nel definire l’inettitudine e la dabbenaggine maschile, il libro ci restituisce il meglio di sé.
Come nel racconto Tagli: «Ecco come in cinque minuti si chiude una questione di extra revenue. Risolvo il problema della Commessa che va bene e produce utile tagliando i costi sempre e solo con una ricetta basata su un unico ingrediente. Il personale. Taglio tre dipendenti che costano tanto perché hanno un contratto a tempo indeterminato (…) Tu insisti e gli fai notare: 1. il problema, se esiste, non lo risolvi ma lo stai trasformando in qualcosa di diverso che però continua a sussistere. Le tre dipendenti entrano, si trattengono con dignità (…) A prescindere, tranne me e le interessate, sembra che nessuno si renda conto del dramma». In questo racconto il capo-uomo utilizza una trita ricetta antica quanto efficace ma solo nel breve termine, licenziare. Tuttavia egli non tiene adeguatamente conto di ciò che il libro sottende e forse avrebbe potuto esprimere anche più apertamente e spregiudicatamente; ovvero che oggi non si tratta più di affrontare i problemi che affrontava la generazione della Bader Ginsburg (dove la questione era che le donne non erano nemmeno ascoltate), ma piuttosto quelli più sottili connessi all’apprezzamento della ricchezza connessa alla diversità del loro approccio. Dalla lettura del volume in questo senso emerge che la leadership al femminile è spesso capace di dare un contributo decisivo e di lungo respiro al buon management aziendale, come accade anche nel mondo imprenditoriale dove si è ormai acclarata una particolare abilità da parte delle imprenditrici di gestire in modo creativo e condiviso le situazioni di crisi.
Ma il volume mette opportunamente in luce anche dell’altro.

I lati inediti (e pericolosi) di un mondo spesso troppo declinato al maschile
Un altro racconto di impatto, stilisticamente molto simile a quello citato precedentemente è Cuore, per certi versi il più riuscito e bilanciato della raccolta. «Ma se si infartua il cuore delle donne come lo curano? Come quello di un uomo? Non mi dire che la parità la applicano quando non devono. Ma la diversità di genere intesa come fisici diversi non merita cure diverse? Ora capisco che diverso può presagire scenari degenerati ma giuro son seria, i farmaci e le dosi sono uguali a chi è diverso fisicamente da noi?».
L’inizio disorienta e invoglia a leggere. Così si scopre una insospettata e insospettabile miopia della capacità terapeutica della nostra medicina.
«E dopo una vita di stenti e noia, l’infarto può arrivare lo stesso. La differenza è che non sanno come curarci. Già, perché – assurdo ma vero – studi recenti sul tema hanno aperto il “vaso di Pandora”, scoprendo che alcune branche della medicina sottovalutano o non tengono conto delle condizioni di vita delle donne nella determinazione della diagnosi e del protocollo di cura. Per l’ischemia cardiaca, per esempio, le radiografie e i test sotto stress usati per la diagnosi sono “tarati” sul modello maschile e sono meno efficaci per le diagnosi nelle donne. Ancora, gli strumenti chirurgici come by-pass e angioplastica coronaria sono gli stessi di quelli usati per gli uomini e si presta poca attenzione al fatto che le donne hanno coronarie e vasi sanguigni più piccoli».
Vasi sanguigni più piccoli ma un grande cuore e una mente diversi ma di certo indispensabili e complementari, non sostituivi, a quelli maschili nella gestione di una realtà, quale quella odierna, di certo complessa e articolata. Alla fine, c’è da augurarsi, come in un certo senso fa l’autrice concludendo il suo volume con una spiazzante Ode agli uomini crediamo sentita e niente affatto ironica, che “il pensiero lungo rette parallele” che divide a volte i sessi alla fine converga. Se come dice la Gangemi, gli uomini migliori sono “i più”, non possiamo che augurarci di unire le forze “trovandoci” l’un l’altro, in un futuro che offra a tutti, uomini e donne, elementi di sinergia e intesa nella diversità per certi versi analoghi al vissuto personale della de Beauvoir, che pure ebbe il sodalizio intellettuale ed emotivo più forte della sua vita con un uomo così controverso come Jean-Paul Sartre e a quello della giudice Bader, la quale diceva che il marito e compagno di una vita Marty Ginsburg era l’unico uomo al quale importava davvero che lei avesse un cervello.

Massimiliano Bellavista

(direfarescrivere, anno XVI, n. 178, novembre 2020)

Domani Recensio inizia il suo percorso al Liceo Scientifico Sacro Cuore di Siena

Sono quattro le scuole a Siena che quest’anno sperimenteranno Recensio. La cosa non può che farmi piacere. In questi anni ci siamo tolti delle belle soddisfazioni, letto e recensito centinaia di testi.

Durante l’anno con il Liceo Scientifico Sacro Cuore di Siena svilupperemo l’usuale percorso (che inizierà domani) attraverso la recensione come strumento di ingresso nel testo letterario e per la sua comprensione.

L’obiettivo formativo si sostanzia nel raggiungimento di una piena consapevolezza e padronanza del testo, letterario o saggistico e nella capacità di elaborarlo, valutarlo in profondità nelle “pieghe tra le parole” ed argomentare criticamente la propria posizione rispetto ad esso anche attraverso il meccanismo inedito della recensione.

Consideriamo infatti la lettura e l’interpretazione profonda e compiuta di un testo come il fondamento per conquistare una ottimale capacità di scrittura e di espressione personale,  Un libro è come uno specchio: si riflette in chi lo legge e chi lo legge lo può rispecchiare fedelmente o distorcerne l’immagine in accordo al suo speciale e talvolta unico punto di vista. Certe volte, come accade per le superfici deformanti di un luna park o in un tunnel di specchi, può addirittura moltiplicarlo indefinitamente in una infinità di clonazioni parallele.

La terza edizione di Recensio invece inizierà a breve all’Istituto d’Istruzione Superiore ‘E. S. Piccolomini’ di Siena.

Cosi diciamo ‘addio’ sperando di dire ‘per sempre’

È come caricare uno di quei vecchi pendoli a catena. Apri con cura lo sportellino che protegge i lunghi pesi all’interno della cassa dell’orologio. Poi tiri la catena accanto al peso, non quella alla quale il peso è connesso.

L’ordine dei pesi da ricaricare non ha alcuna importanza. L’orologio riparte, il pendolo oscilla. È così che spesso si scrive quando si vuol narrare una vita intensamente vissuta. Si apre un pertugio nella memoria, un punto di vista su una vita ormai quasi immobile, se ne osservano pesi e contrappesi, si cerca di riavvolgere il filo del tempo e non è tanto importante l’ordine ma il senso che se ne afferra. E la vita, nello spazio di quella lettura, si rimette in moto. Per questa precisa ragione il volume merita da essere letto.
«Vorrei sparare agli orologi come i comunardi per azzerare il tempo» dice Andrea Frezza, l’autore di Così viviamo per dire sempre addio (Rubbettino Editore, pp. 280, € 15,00), un suggestivo e chimerico incrocio tra romanzo, sceneggiatura e memoriale. Sapeva che il tempo gli stava sfuggendo, proprio come sta spesso scritto sui vecchi orologi a pendolo.
Il Consiglio dei Ministri nel 2009, quando già il settantunenne scrittore, regista e sceneggiatore viveva da tempo in precarie condizioni economiche ed era gravemente malato deliberò di concedergli il vitalizio previsto dalla legge n. 440 del 1985, la cosiddetta “legge Bacchelli”.
Il suo libro esce poco più tardi, nel 2011, e nel 2012 l’autore scompare. Nel 2005 aveva lasciato Los Angeles, dove aveva insegnato Sceneggiatura, per tornare definitivamente in Italia a girare un film molto importante per lui. Non ci riesce purtroppo, a causa di mancati finanziamenti e così scrive questo libro.
Sono molti i pesi e le angosce che gravano sulla sua vita, come quelli che opprimono il protagonista della storia, Matteo, nato nel 1937 come Frezza, nome da evangelista e cognome glorioso che lo qualifica come ultimo della dinastia dei Santavelica, il quale a un certo punto della sua vita decide di tornare in Calabria negli aviti luoghi e abita in una piccola casa accanto alla più grande villa settecentesca di famiglia, la “casa dei ciliegi”, «costruita nel 1756, su disegno di Luigi Vanvitelli, e abbandonata ai vandali e alle intemperie due secoli dopo».
Il suo racconto, tuttavia, non ha niente di evangelico, è qualcosa a metà tra un corrosivo testamento e un doloroso epitaffio. «È il momento di scaricarmi l’anima con le parole come una puttana e bestemmiare come una baldracca. Parole di Amleto, che faccio mie in questa mattina di quiete apparente.
Perché la memoria m’impone questa tortura, questo ripassare il film della trascorsa felicità, delle vele gonfie di speranze e di sogni afflosciate dalla superficiale bonaccia che nasconde la devastante bufera della coscienza disintegrata?».

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Lo stile e l’uso del linguaggio
Anche lo stile, diretto fino alla sfacciataggine, afferra il lettore perché si avverte l’essenzialità ma anche la sincerità della narrazione. Nel volume non c’è niente di superfluo, niente che non dovrebbe stare dove è, in un salto temporale e geografico continuo, sfidando tempo e memoria.
Ci sono incipit degni di memoria come questo: «Mi sveglio presto, nell’ora che precede l’alba, quando anche le persone forti si sentono deboli, gli ammalati muoiono e i nemici sbarcano sulle spiagge».
In generale, si percepisce la genesi del testo quale sceneggiatura di un film, perché quasi ogni capitolo ha una forte resa visiva e scenica, l’immaginaria macchina da presa si muove fedelmente dietro alle parole del narratore. Un esempio sono le descrizioni e i dialoghi contenuti nel capitolo che si intitola Boogie Woogie, proprio il nome che Frezza avrebbe voluto dare al suo film.
Anche le immagini sono importanti. Certi oggetti e certe immagini sono simboli, perlopiù metafore di una vita che non scorre più e di una memoria intermittente e ingannevole che spesso la sovrascrive e la cancella come un nastro magnetico. Le tombe su tutti. Per uno come Matteo, che ha perso Stella, anzi «la mia diletta Stella, il mio amore ultimo, con cui ho vissuto gli anni migliori» e ha perso tutti i suoi amici, le tombe, nella loro grigia materialità, rappresentano anche le pietre sicure di un molo immaginario, un porto sicuro cui approdare nei frequenti momenti di smarrimento.
«Ritrovo le loro tombe al cimitero, nomi, date di nascita e morte, elogi della loro vita affidati alle lapidi per la memoria di chi ha voglia di leggere e visitare cimiteri. La visita ai morti è un rito molto praticato dalle mie parti, non soltanto il due novembre celebrato con le ossa di morto, dolci che riproducono tibie, femori, clavicole, teschi, alcuni talmente duri da rompere i denti, altri di pasta martorana, morbidi, colorati, zuccherini mia vita».
Per Frezza e per il protagonista del libro queste lapidi svolgono la funzione di tetre madeleine. E ricorrono continuamente: nel ricordo delle vittime dell’Olocausto, nella primavera del 1953 al cimitero di guerra di Colleville Sur Mer dove sono sepolti i morti di Omaha Beach, nei viaggi del protagonista.
«Visitavo tombe quando potevo… Andai a cercare la tomba di Raymond Chandler al Mount Hope Cemetery di San Diego, California. Quella di Truman Capote e di Marilyn al Westwood Memorial Park Cemetery, Los Angeles, California. E poi al cimitero nazionale di Arlington dov’è sepolto Dashiel Hammett. In uno dei periodici viaggi romani mi fermai in Inghilterra e andai a cercare nel giardino della chiesa di Heptonstall la tomba di Sylvia Plath. A tutti ho portato un fiore per ringraziarli della felicità che mi hanno dato leggendo, vedendo e sentendo le loro opere».
La pensa così anche Cees Nootebom. Il celebre scrittore olandese, nel suo Tumbas dice che «La maggior parte dei morti tace. Per i poeti non è così. I poeti continuano a parlare». Si vede che anche Matteo deve essere alla fine un poeta, perché proprio per questo come Nooteboom nel corso della sua vita ha sentito il bisogno di visitare tutte le tombe dei grandi scrittori e filosofi che lo hanno segnato.

Non si impara a dire addio
«Ancora non so come dire addio ma sento che imparerò presto» è la frase che conclude il romanzo, che può essere letto anche come l’inquietante messa in scena di un presagio che evidentemente nella mente dell’autore rappresentava quasi una certezza. Ma si avverte che questa certezza non è affatto granitica, e non è affatto certo che con quell’addio, anche se si imparasse a darlo, tutto davvero finisca.
«Il viaggio della memoria è un addio a quel che s’abbandona» e ancora «Se i ricordi sono un dolore la loro assenza è una fonte di sofferenza ancor più grande». Matteo non è certo e nelle ultime pagine sembra centellinare il ritmo della narrazione, quasi indugiare, Forse per questo l’autore, altrettanto dubbioso, si affida a Rilke e alle Elegie duinesi, da un passo delle quali l’autore ha ricavato il titolo di questo romanzo: «Ma chi ci ha rigirati così/che qualsia quel che facciamo/è sempre come fossimo nell’atto di partire? Come/colui che sull’ultimo colle che gli prospetta per una/volta ancora/tutta la valle, si volta, si ferma, indugia /così viviamo per dir sempre addio…».
Se si legge l’addio di Florindo Rubbettino ad Andrea Frezza pubblicato ne Il Quotidiano della Calabria del 30 marzo 2012, si conclude riflettendo su come forse il tema del libro è tutta un’illusione, un miraggio, dove Matteo e Frezza, ora uniti, in realtà non vogliono dire addio, ma restare vivi e presenti alla nostra memoria. Ricorda Rubbettino a proposito di Frezza «Di quando giovane studente universitario bussasti a casa Moravia e di fronte al celebre scrittore, un po’ sbalordito e un po’ incuriosito da quel giovanotto temerario, chiedesti tutto d’un fiato: “come si fa a fare lo scrittore?”, o di quando Orson Welles che avresti dovuto sollecitare per affrettarsi a recarsi sul set ti fece sedere a tavola insieme a lui cercando di insegnarti come si prepara un’ottima insalata».
Curioso, proprio il piatto preferito del suo protagonista, unico compagno delle sue lunghe ore di solitudine. «Cipolle rosse, pomodori, cetrioli, olive nere, tonno, capperi, origano, olio e pane biscotto giallo di mais. Un calice di prosecco, ciliegie».

Massimiliano Bellavista

(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 157, ottobre 2020)

Monili, trame e rivoluzione: su Dire Fare e Scrivere ho scritto qualcosa su Roberto Gervaso

 

Seppur consapevole dell’impersonalità che conviene a un articolo giornalistico, mi sembra doverosa una premessa personale in cui a parlare saranno i ricordi e le impressioni: Roberto Gervaso era una persona speciale che non si prendeva mai troppo sul serio. Fu giurato in un premio di poesia che vinsi, ricordo con piacere quel momento e l’incoraggiamento che ne ebbi. È quindi rivolto a questo pensiero che ho letto la sua ultima opera, La regina, l’alchimista, il cardinale (Rubbettino, pp. 282, € 14,00), romanzo storico ambientato nella Francia di Luigi XVI: una lettura piacevole, con un ritmo e uno stile che tanti autori hanno smarrito, in favore di narrazioni assai più muscolari e invasive che fanno spesso sembrare questo genere piatto e monocorde con la scusa di modernizzarlo.

Gervaso foto


Eppure questo libro narra di uno dei periodi più esplosivi della storia, quando «dietro la sontuosa facciata, la miseria, la rovina, l’imminente sfacelo, il sovversivo caos. La Francia del superbo Luigi XIV non era che un ricordo. Il suo corrusco dispotismo s’era stemperato nell’assolutismo crepuscolare dei successori. La corona perdeva ogni giorno una gemma e il trono non era ormai che una fragile e vulnerabile scranna. La monarchia, la gloriosa monarchia capetingia, aveva i giorni contati».
Il libro si può ben leggere come un’opera di prosa. In effetti la prima parte introduce uno a uno i protagonisti dell’opera, i cui percorsi di vita sono destinati a intricarsi in un nodo di grande complessità e drammaticità. Vite contorte le loro, a due facce, come ancora oggi accade a certi vip. Molte occasioni pubbliche e poi una intrinseca e a volte indecifrabile fragilità e oscurità. Per ognuno di essi magistrali pennellate, quasi percorressimo l’austero corridoio di una prestigiosa quadreria.
Maria Antonietta Giovanna di Lorena, arciduchessa d’Austria, «regina, frivola, spensierata, impulsiva, pur se conscia della propria regalità, cercò e trovò, almeno in apparenza, sfogo e sollievo nei divertimenti: pranzi, balli, feste mascherate, partite a carte, teatro, escursioni. Ai doveri di sovrana antepose i piaceri di donna, pur se di donna votata, suo malgrado, a una mortificante castità».

  Gervaso
Luigi Renato Edoardo de Rohan, elegante e raffinato principe della Chiesa il quale «non aveva bisogno di presentazioni. Il suo nome era dovunque pronunciato con rispetto; la famiglia era tra le più ricche e influenti, a Parigi come in provincia». Il principe cade in disgrazia con la corte e la regina per i molti errori nel gestire gli ambiti incarichi ricevuti e le sue folli spese, necessarie a soddisfare non la ragion di Stato o le relazioni diplomatiche ma solo e soltanto le sue tre passioni: i giochi, le feste e l’alchimia.
E poi Giovanna de Saint-Rémy de Valois de la Motte, la grande orchestratrice, seduttrice e truffatrice, il primo motore di tutta la storia, colei che era favorita più da «Minerva e da Mercurio che da Venere».
Per ultimo citiamo Cagliostro, il principe dell’occulto, già protagonista della penna di Gervaso, venerato da Rohan al punto da considerarlo il faro e l’ispiratore di ogni sua azione, nella speranza che questi lo potesse anche concretamente aiutare, con la sua magia e la sua saggezza, a rientrare nelle grazie della regina. Ma per quello, come si vedrà leggendo il libro, non sarebbe bastata nemmeno la pietra filosofale.


Un preziosissimo monile al centro della storia diventa metafora di tutta un’epoca


E sì che la vicenda ruota intorno a qualcosa di affatto oscuro, anzi assai splendente, chiarissimo, sfavillante. Un monile. E che monile, fatto da uno dei gioiellieri più famosi e stimati dell’epoca, Boehmer. «Il monile, infatti, consisteva in tre fili di magnifiche pietre (575 secondo alcuni, 593 secondo altri, 647 per altri ancora) ornati di quattro pendenti, in ognuno dei quali erano incastonati cinque giri di diamanti. Duemilaottocento carati, per l’astronomico costo di un milione e seicentomila lire (oltre venticinque milioni di euro di oggi) rateabili».
L’arte di Gervaso e la bellezza del libro sta tutta in questa parola: incastonare. Infatti la storia si dipana sotto le nostre dita con fine cesello tecnico allo stesso modo di quei giri di diamanti perché l’autore è un gioielliere della parola. Non c’è passo del racconto che non sia ornato dalla luce di una fine e pungente ironia, che poi nasconde invece un più vasto ragionamento sulle vanità umane e un sostanziale stupore nel palesarsi di come tutti, ognuno vittima della propria ambizione e delle proprie bramosie, uomini e donne in gioco nella storia, indossino dei paraocchi che fanno loro vedere soltanto ciò che vogliono vedere, conducendoli a dolorose conseguenze. Umano, molto umano dunque il comportamento di colui che «ha voluto, e vuole, autoingannarsi» perché alla fine il mondo inesistente creato da un raggiro, da una truffa, può essere assai più seducente di quello reale.

Una manipolatrice subdola ma di corte vedute


Certo, la capacità manipolatoria di Giovanna è eccezionale: la si vede giocare a scacchi con le vite altrui, soprattutto con quella di Rohan («Di lei, lui non aveva capito niente; di lui, lei, tutto») ma anche (e perfino) con quella della regina. Ma detto così, sembrerebbe trattarsi di una storia scontata, dove il cattivo è cattivo e i raggirati sono degli ingenui e benpensanti poveracci: i personaggi invece si animano nella storia di tutte le sfaccettature che ce li restituiscono autenticamente umani. Giovanna alla fine fa ciò che fa cercando una compensazione per una vita e una giovinezza non facili; allo stesso modo si è portati a credere che Rohan, così bramoso di una vita irreale dove, offrendo la preziosa collana alla regina ne sarebbe divenuto il Primo ministro e l’indispensabile consigliere, non avrebbe potuto che cadere in qualche raggiro, se non prima, sicuramente poi.
Ma a ben vedere per tutte le parti in causa in questi accadimenti vale quello che l’autore, superbamente, scrive per Giovanna «Tattica geniale, fu una pessima stratega». Fa lo stesso effetto di un epitaffio, giusto? Insomma, quel che vogliamo dire è che non sempre un romanzo funziona perché vi è un personaggio che spicca e primeggia, forgiando la storia; a volte è vero l’opposto, come in questo caso, dove la storia appassiona e si legge in un soffio proprio perché tutti gli attori del racconto sono in fondo in fondo meschini, di corte prospettive, concentrati a vincere una battaglia e mai la guerra. O forse è il momento storico, schiacciato tra i tempi che furono e l’ascesa prepotente della borghesia, che proprio non consentiva una visione di lungo periodo, ma solo un gretto carpe diem.
Il libro è prezioso perché si presta a varie chiavi di lettura e questo non stupisce, viste le vette raggiunte da Gervaso nella narrazione di fatti storici. Ma vi è anche una gradevolissima lettura sociologica, che ben mette in evidenza quanto fatti apparentemente minori siano in grado di scatenare, o di contribuire a innescare, grandi cambiamenti. L’affare della collana, mal gestito dai regnanti, infatti non resta confinato tra le mura dei tribunali, ma diventando di pubblico dominio, mette in luce le debolezze di tutto un sistema di potere e di una monarchia divenuta debole e insipiente. Non solo, spacca l’opinione pubblica tra innocentisti e colpevolisti, fornisce una fonte di lavoro pressoché inesauribile a legali, scrittori, moralisti.
E alla fine, in un sistema in piena criticità e incapace di punire, sarà la vita (e la storia) a metterci una pezza. Naturalmente in un modo tutto suo, che lasciamo al lettore scoprire. Al destino d’altronde, come a Gervaso, non manca il senso dell’ironia.

Massimiliano Bellavista

(direfarescrivere, anno XVI, n. 175, agosto 2020)