Tayla

 

Tigre 1

Tayla è lì. Si muove a scatti attorno alla bara con l’imprevedibile dinamica dei sogni, metà corpo e metà vento. E non mi perde di vista neanche un momento. Tuttavia io so che per lei non rappresento una preda, infatti non è così che mi guarda, piuttosto come una rivale che insidia il suo territorio. Tutto questo è inconcepibile ma succede, e non è lei a sentirsi a disagio in quella chiesa, ma io, e certo questo lei lo percepisce benissimo.

Nessuno oltre me la vede perché siamo sole, io e lei, due femmine in quel silenzio. Le sole ad aver messo radici proprio in questo sogno. Sole nella chiesa. Sole con la morte che per ora è silenziosa e confinata nella bara. La bara è chiusa e tuttavia a tratti riesco a vederci attraverso. Il volto di Malcom non sembra sofferente, ma neanche sereno. Inquieto direi. Mi domando se anche lei riesce a vederlo.

Siamo sole. Ma se anche vi fosse qualcun altro ho il sospetto che nessuno oltre me potrebbe mai vedere Tayla. E viceversa.

So bene che è lì perché nella semioscurità della chiesa vedo la luce dei ceri scintillarle negli occhi, biancheggiare a tratti sulle orecchie che scattano nervose e sui lunghi canini, cercare perfino di abbozzare un sommario profilo sgocciolando incerta dal muso al collo.

Tayla si muove quasi danzando tra la navata esterna e quella centrale, sfiorando gli ostacoli di uno spazio relativamente piccolo e pieno di panche, fiori e candelabri, sottotraccia al silenzio, senza urtare niente, nemmeno l’aria, come sotto la spinta di un ritmo musicale.

A tratti, come arriva in prossimità di uno di quei grandi ceri, si distingue bene tutto il suo corpo, l’arancio acceso sferzato di nero del mantello sotto cui guizzano rigonfiandosi indelebili i muscoli possenti. Poi a un tratto quel corpo statuario si sgonfia, i muscoli si distendono e si contraggono a casaccio distorcendone le fattezze, e Tayla diviene una sorta di bozzolo color ocra che si contorce a terra come un bruco di gomma dentro cui in rapida successione spariscono le zampe, la testa e la coda. Ma fino a quando anche la testa non sparisce del tutto nella morbidezza del bozzolo, i suoi occhi continuano a fissarmi, senza cambiare espressione.

Questa gonfia crisalide gommosa si contorce davanti a me senza che io possa muovere un passo. Poi completa l’ultima fase di quella repentina gestazione e si fa immobile come un cristallo. Il tetto della chiesa brucia in un attimo come carta velina e subito tutto attorno è un susseguirsi di stagioni in un cielo rigato dal veloce passaggio di mille soli e mille lune che si inseguono. I capitelli delle colonne diventano gangli nervosi da cui si espande una matassa di rami. Il travertino si trasforma tutto in una corteccia cerebrale, rugosa e irregolare.

Finché, con un tremito profondo, il bozzolo si schiude con il rumore di un uovo. Dal bozzolo esce una enorme farfalla le cui ali per un attimo si frappongono tra me e il sole, tende iridescenti, rendendo la mia vista un vertiginoso e abbacinato caleidoscopio. L’aria che spostano profuma in modo indefinibile e vola decisa verso la linea dell’orizzonte, dipingendovi miraggi spiraleggianti. La farfalla è già lontana diretta verso quell’ondivaga meta quando vinco i miei timori e tendo le mani per sfiorarla. Non so come pretenda di riuscirvi, ma sento che non è lontana.

Se mi guardo attorno, ora non c’è più niente intorno a me. Svanita la chiesa, svanita Tayla, con tutte le sue molteplici incarnazioni. I miei piedi camminano tra sabbia e cenere lasciandovi impresse impronte liquide, attorno c’è una magnifica desolazione, deserta a ogni forma o dimensione, tutta dipinta dei colori di un cielo autunnale. Può essere aria di mare quella che ogni tanto inumidisce nelle mie narici l’odore acre e secco di bruciato che vi predomina, ma il mare di cui ho sete resta una leggera promessa che non impegna a niente l’orizzonte.  Allora il mio cervello deluso ripone bruscamente il sogno dentro una brutta scatola di cartone, interrompe la corsa del sonno e mi sveglia ancora ansimante.

Piove sui vetri del taxi. Non è la prima volta che mi capita di dormire in auto. Chi svolge un lavoro dagli orari così irregolari impara a rubare la sua libbra di sonno in ogni circostanza. Il tassista che mi ha pazientemente accompagnato alla polizia e in obitorio guida in modo molto regolare, sembra essere in grado di anticipare ogni manovra delle auto che le precedono, per quanto brusca, e la stessa nostra vettura pare farsi piccola e serpeggiare via da un pertugio ogni volta che davanti a noi si forma una fila o si profila un ostacolo. Ogni tanto getta un occhio su di me dallo specchietto retrovisore, e ha quello sguardo tra il curioso e il preoccupato che aveva mio padre le rare volte che mi portava a scuola, di solito in corrispondenza degli esami o quando c’erano interrogazioni importanti. Con il tassista comunque non abbiamo scambiato che poche parole, ma ormai ci comportiamo come un’affiatata coppia di amici, quasi che nell’arco del giorno ci fossimo raccontati tutto l’uno dell’altra.

tigre 2

Malcom dopo l’incidente non l’ho voluto vedere. Dopo una vita passata assieme preferisco ricordarmelo come è stato, nel fiore degli anni, o anche solo come appariva quella sera. Non ci saranno foto sulla sua tomba, nessun oggetto, solo ricordi visibili a chi gli voleva bene. Sapeva concentrare la vecchiaia in pochi punti del suo corpo, in poche rughe ben profonde dove la seppelliva senza che nessuno se ne accorgesse. I ragazzi dello staff giù al circo da quella brutta sera sembrano addirittura più vecchi di lui, quasi che il tempo si sia accorto di loro e gli stia grandinando addosso tutti gli anni che non è riuscito a scaricare su Malcom. Come me, anche loro hanno perso la sincronia con la vita. Malcom era il nostro meridiano, il nostro tempo standard in base al quale tutto si organizzava.

Sono certa che il passare tempo nella mia mente sarà in grado di suturare quella gola spaccata come una mela. Per il resto niente, mi sforzerò di ricordare il suo bel corpo, la pelle tirata del viso, quella leggermente ruvida ma abbronzata del collo e delle braccia. Il fisico asciutto, la dentatura perfetta e le spalle da nuotatore, insolite in uno che odiava profondamente il mare e le piscine. Gli anni si sono accaniti assai di meno su di lui che su di me, che lo guardavo ogni sera e ogni mattina, mentre lavorava nella grande gabbia. Ora quella gola recisa di netto, l’ha svuotato. Quella sera, avevo visto il suo sangue morire via, allontanarsi a fiotti impetuosi come fa l’acqua dalle sorgenti nei giorni di pioggia. Il resto del corpo non si muoveva nemmeno, solo le braccia, solo la testa, con piccoli scatti. Gli occhi erano chiusi, ma anche scavando con le dita oltre le palpebre, le pupille non c’erano più, erano dilatate e sfocate, come perle sepolte sotto la sabbia. La sua mano destra fissa e contratta sul mio avambraccio era pesante, conoscevo quella stretta, ma quella sinistra era rilasciata su un fianco, rossa di sangue, abbandonata da ogni forza. Domata dalla morte. Inconsistente. Il sangue è strano, su di me ha un potere ipnotico. Il primo sangue, poi, non è rosso ma nero, ha lo stesso colore della notte. Ne ero già coperta, quando sono arrivati gridando i ragazzi dello staff. Roberto, Kevin, Javicia. Forse pensavano che avessi usato le mie mani per tentare di tamponare la ferita, ma non l’avevo fatto. Mi ero lasciata semplicemente coprire dai fiotti di sangue tenendo Malcom in braccio. Lui non c’era già più in quel corpo. L’anima era già fuggita da tempo con un lungo brivido che aveva frustato il suo corpo attraverso le sbarre di quell’ arena. Per la prima volta ne avvertivo l’odore acuto e sulla lingua mi sembrava di sentire contemporaneamente il sale del suo sudore e la dolcezza del suo sangue. E sentivo anche l’odore di Tayla, un penetrante odore di muffa. Tayla lo aveva quasi decapitato con una sola zampata. La tigre è così, è come al centro di due invisibili sfere. Quella più esterna, è quella in cui può entrare l’uomo, sempre ammesso che sia abbastanza abile da riuscirci. E Malcom lo era. La tigre può darti la sua vita, il suo territorio, dentro quella sfera è pronta a rinunciare a tutto per un uomo, anche alla dignità: ma la sfera più interna rimane sua, è la sua foresta invisibile che non può tradire. Là Malcom, come tutti, in quella seconda sfera era nulla più che un ospite, e non sempre gradito. Non sapremo mai cosa ha fatto di sbagliato. Forse proprio nulla, forse ha solo subito gli effetti di una reazione opposta e contraria all’azione inconsapevole di qualcun altro, cui era invisibilmente legato. E Tayla ne è stata solo l’altrettanto incolpevole meccanismo attuatore, il tramite fisico, e quindi è responsabile della sua morte tanto quanto la lama di una ghigliottina o l’elettrodo di una sedia elettrica lo sono per quella di un condannato.

Tuttavia ho dovuto, abbiamo dovuto, dire il contrario, perché non uccidessero Tayla: ufficialmente Malcom ha fatto un movimento sbagliato, come è riportato nel file dell’inchiesta. Con mio profondo stupore, tutti hanno dato per buona questa versione e nessuno ha chiesto quale fosse mai stato questo movimento sbagliato che aveva innescato la reazione della bestia. A tutti è bastato guardare gli occhi di Tayla per crederci. Erano occhi inespressivi, chiusi, quasi grigi come l’asfalto. Occhi non da animale ma da fantasma. Ci vedevi dentro intricarsi la matassa del dolore, Ma io so che era tutta una finta e che Tayla stava solo recitando una parte.

tigre 3

Del resto, fate le circostanze, è la miglior cosa che poteva succedere e che un domatore può lasciare in eredità, anzi in dono, al proprio mondo. Dopo aver domato tigri per decenni con apparente facilità ecco che di colpo il suo lavoro torna pericoloso, rischioso, imprevedibile. E Malcom con la sua morte restituisce tutto ciò che ha preso in vita: il mistero si rinsalda, il pericolo si riafferma, lasciando sulla scena un fatto che nessuno saprà spiegarsi e il mito di una bellissima tigre che nessuno vedrà più esibirsi.

Dopo molte notti ho raggiunto a fatica un sonno malfermo, non lungo ma continuo. Senza le intermittenze e i continui risvegli riesco anche a sognare. Ma non sogno Malcom, nè il profondo taglio ricurvo sulla sua gola. Me lo aspettavo, senza una ragione precisa. Sogno l’occhio di un ciclone. L’occhio del ciclone è l’arena. Intorno ci sono soltanto nuvole nere e cariche di pioggia. Ne sento l’odore avvicinarsi. Tayla è lì. Si muove a scatti attorno a me con movimenti circolari e continui, metà corpo e metà voluta di fumo. Poi si ferma di colpo. A un cenno dei suoi occhi sento il mio corpo prodursi in salti e contorsioni indipendenti dalla mia volontà. Poi a un certo punto la fisso e anche le sue pupille smettono di muoversi: le corro incontro e un istante dopo Tayla fa lo stesso con me. Copriamo in un respiro la breve distanza che ci separa. Al momento del contatto provo un dolore intenso che sbianca la mia mente seguito da un fremito che percorre come un lampo nero il mio cervello sconnesso dal corpo e abbacinato. Ma questa sensazione dura pochissimo. Subito un piacere inumano mi riempie inesauribile la bocca come la polpa succosa di un frutto dopo che i denti ne hanno intaccato la superficie ruvida e secca. Per un secondo perdo la vista.

Poi con un rumore a metà tra il fragore di un applauso e lo schiocco di una frusta l’alba spacca la notte svegliandomi in Tayla.

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Bruna Sibille -Sizia, una storia affascinante e sconosciuta

bruna sibille sizia

 

Bruna Sibille-Sizia, il fascino di una voce sommersa

Massimiliano Bellavista

26/02/2020

Quando ho cominciato a scrivere questo articolo nella mia testa sono comparsi un uomo e una donna. L’uomo ogni giorno prende un tram. Questo tram è il numero 28, che ogni giorno lo riporta fedelmente a casa a Campo Ourique. Quando ne scende, spesso gli gira la testa: I sedili del tram, intrecciati di paglia resistente e sottile, mi portano a regioni lontane, mi si moltiplicano in industrie, operai, case di operai, vite, realtà, tutto. Scendo dal tram esausto e sonnambulo. Ho vissuto tutta la vita. La donna invece, in un’altra città e in un altro tempo, prende il numero 2, un tram di colore verde che spartisce il lungo viale come un vascello il mare. …le luci dei finestrini balenano/ come manciate di stelle/gettate sul rettilineo deserto. Anche per lei quel tram è un’abitudine quotidiana, che la accompagna negli ultimi anni della sua vita. Certo, si parla una vita più lunga di quella dell’uomo, e di un capolinea meno improvviso e inatteso. Ma si tratta pur sempre di un capolinea.

Quei due tram, il numero 28 e il numero 2, attraversano sferragliando il novecento letterario. Solo che uno è famoso, famosissimo, tanto che a Lisbona oggi per ogni turista è un itinerario immancabile: è il tram di Pessoa. Il numero 2 ha una storia ben diversa, anzi più che un tram sembra trattarsi di un Train de vie perché come nell’omonimo film non si sa bene per quel che lo riguarda dove finisca la realtà e cominci la fantasia. Quello è il tram di Bruna Sibille –Sizia, scrittrice misconosciuta di cui probabilmente nessuno di voi ha mai sentito parlare, anche se lo scrittore Tito Maniacco la definì con sicurezza La nostra prima e miglior narratrice in prosa degli anni Cinquanta, nonché, in assoluto la più rimossa della letteratura friulana in lingua italiana. Quei due tram sono metafore di tutta una vita. Una vita che per Bruna Sibille-Sizia da tanti, troppi anni, si svolge in direzione ostinata e contraria ad ogni successo, riconoscimento o anche solo momentanea gratificazione letteraria. E sì che la sua carriera di scrittrice era partita bene, subito dopo la guerra, con la segnalazione al Premio Viareggio e la stima di autori importanti. Ma poi quasi più niente. Una vita solitaria, ma non per questo isolata, anzi a tratti aperta al mondo e alle esperienze umane ma fatta di molti silenzi, su cui i frequenti colpi di un destino avverso hanno dato alla scrittrice innumerevoli e dolorose occasioni di riflessione. Così, visto che come spesso le è accaduto anche in questo caso nessun editore si è fatto avanti, a quasi ottant’anni stampa a sue spese un piccolo volumetto, un quaderno raccolto da una copertina di cartoncino bianco. Il libro, semplice nell’aspetto ma potente nei contenuti, non è in vendita, è per gli amici. Al centro il titolo “La pioggia sui vetri”. Al posto della sigla editoriale, il suo nome. È lei, come spesso le è accaduto, la solerte editrice di sé stessa. Insomma, nel 2003 esce un volume così scarno e semplice da parere una sorta di testamento. E forse, per certi versi, lo è.

La lirica ventisettesima senza titolo, come ci informa Martina Delpiccolo nel suo recente libro ‘Una voce carpita e sommersa’ dedicato proprio alla scrittrice, inizia così: Da quanti anni/viaggio in questo tram/numero due color verde…. E poi continua: Solo ora ho capito/che da tanti anni/viaggio in questo tram/inseguito dalla notte/frustato dalla pioggia/invaso dalle fogli secche/che turbinano nel vagone./sono il solo passeggero/tu sei il solo che al capolinea/attende questo tram/numero due color verde/che viaggia da tanti anni/per condurmi a te. Quel tram ha compiuto varie fermate, e l’autrice non le ha mai chiamate. Qualcuno, forse il destino, lo ha fatto per lei. La prima fermata la vede in un Friuli sconvolto dalla guerra: non fa in tempo a scendere dal tram poco più che bambina, senza il padre Gerardo, colonnello e decorato reduce di Russia internato in Germania dal ‘43 al ’45, che la sua adolescenza evapora tra atrocità e violenze fisiche e morali di ogni tipo. Diventa presto donna e partigiana, col nome di Livia. Scriverà: La mia vita esteriore/è una donna di ferro/La mia vita interiore/è una bambina che piange. E sarà sempre così, Bruna Sibille Sizia, apollinea e dionisiaca nelle stesse quantità, Livia, Sibilla e bambina e perciò in perenne tensione interiore. I bambini, a proposito, in un mondo normale dovrebbero andare a scuola e non recapitare messaggi ai partigiani. Ma la vita di quegli anni è tutto fuorché normale. Ma è scuola o manicomio? Nelle classi il compito e la Lutwaffe nel giardino!!!  – scrive nei suoi diari, minuziosamente tenuti forse per mettere in grado il padre, al suo ritorno, di colmare i vuoti temporali della sua forzata e lunga assenza.

Come se non bastasse nell’agosto 1944 arrivano in Friuli le sciabole dei cosacchi a cavallo, come usciti da un racconto di Salgari, ma di eroico hanno ben poco: sono i feroci mercenari dei tedeschi nazisti, quelli incaricati del ‘lavoro sporco’ contro la popolazione e i partigiani, in cambio di vaghe promesse territoriali riguardanti proprio il Friuli. E lei, Livia-Bruna. scrittrice del vissuto, si incarica di un lavoro ambizioso e doloroso: è infatti grazie a questa ‘letteratura del vissuto’ che tante figure umane altrimenti dimenticate arrivano tanto nitide ai nostri giorni. Partigiani, cosacchi, vittime, carnefici, luoghi distrutti dai bombardamenti. Tutto questo trova vita in romanzi di grande spessore, ma che non riescono mai editorialmente a spiegare le ali, a farsi conoscere.  Anche la Delpiccolo, nonostante uno studio di anni, non se lo sa spiegare fino in fondo.  Eppure si tratta di una scrittrice che vanta anche due importanti primati: è stata la prima ad occuparsi della storia dell’occupazione cosacca in Friuli durante la Seconda Guerra Mondiale, una storia particolare e che sarà ripresa con maggiore fortuna editoriale da Claudio Magris; ma fu anche la prima ad ambientare un romanzo nel Friuli del terremoto del 1976 (ne ‘Un cane da catena’).

La nostra scrittrice sommersa nelle sue opere tratta la materia sfuggente della morte in modo davvero peculiare. Senza mai cadere nella retorica o nel già sentito. In ‘Prima che la luna cali’, suo esordio letterario nel 1946 (qui il nostro tram letterario fa un’altra importante fermata), quando ha appena diciannove anni, premiato anche da Pier Paolo Pasolini, il racconto, messo poi in scena come atto unico, si apre con la vista di sette bare e sette cadaveri. Dentro le bare, dei non morti. Sono non-morti, sì, ma non sono affatto zombie: non sono solo soldati o partigiani che si sono anche uccisi l’un l’altro, ma c’è anche una donna. Narrano storie di guerra, ma anche di razza, terra, morte, vita, memoria, tempo, Dio. I sette morti sul palcoscenico sono irrequieti, si agitano, e non perché ci siano tra loro dei conti da saldare, su questo anzi riescono ad essere anche ironici. No, tra di loro va tutto bene. È che quei morti hanno ancora molto da insegnarci su come si è vissuto e invece si dovrebbe vivere, sull’insensatezza della violenza e della guerra, sul male e sul bene, sul valore della memoria. Ma c’è un termine per questo gioco per queste confessioni. Tutto questo il pubblico lo deve capire ‘prima che la luna cali’, perché è proprio la luna a tenerli in vita. C’è in quest’opera l’eredità dell’Irvin Shaw di ‘Bury the dead’, certo, ma ci sono molti aspetti originali e differenze notevoli rispetto a quell’opera.  C’è soprattutto la volontà, che ci sarà sempre nella scrittrice, di non fare tramontare la memoria e i valori della Resistenza perché la letteratura può essere un soffio di vita e la civiltà è come la brace. Soffiate, soffiate e tornerà ad ardere.

E poi, ogni scrittore in fin dei conti è un’impresa letteraria che lavora tanto a debito che a credito. Qualcuno ha fatto affidamento più marcatamente sull’uno o sull’altro aspetto. Nel caso della scrittrice friulana sono davvero molti di più i crediti. Se infatti da un lato nel volume della Delpiccolo si decifrano le influenze di altri scrittori e delle vaste letture della Sibille-Sizia sulla sua futura opera, dall’altro molto più eclatanti e affascinanti sono i suoi ‘crediti’. Se non ci credete, leggete nel volume quanto ‘L’armata dei fiumi perduti’ di Sgorlon sia debitore, non solo nei contenuti, ma anche formalmente in interi passi, del suo ‘La terra impossibile’, o di quanto debba alla scrittrice friulana il Magris di ‘Illazioni su una sciabola’. Ma sono altre ancora le fermate del ‘tram-vita’: una è rappresentata dal terribile terremoto che ha colpito la sua terra. Il terremoto è come la terza guerra mondiale, fa vittime, feriti, sfollati, alienati, dispersi esattamente come i combattimenti. Distrugge le case, che non si ritrovano più e, dall’orologio del campanile sono intanto ‘cadute’ le lancette dell’orologio. Qui l’emozione è forte e a chi scrive viene in mente un’angosciante teoria di orologi italiani dai quadranti fermi: 3.32 è il tempo che segnano le lancette della chiesa di Sant’Eusanio a l’Aquila, 3.36 quello dell’orologio del campanile di Amatrice, 4.50 l’ora segnata dal Palazzo Ducale di Castelpoto. E poi mi viene in mente il bellissimo passo scritto dal friulano Mauro Daltin ne ‘La teoria dei paesi vuoti’: la mia prima frattura, il mio primo orologio fermo è quello delle 21.03 del 6 Maggio 1976 (…) nacqui trentacinque settimane dopo, il giorno di Santo Stefano… Figlio del terremoto, così mi chiamavano le maestre delle elementari perché non riuscivo a stare fermo tra i banchi…”.  E da Portis si potrebbe idealmente andare a Tricesimo, dove il compianto poeta friulano Pierluigi Cappello, cui è stata intitolata nel 2018 la Biblioteca proprio della Tarcento di Bruna Sibille-Sizia, viveva in una delle baracche offerte dal governo austriaco ai terremotati.

Si trattò di un duro colpo per un popolo abituato alla certezza ed alla solidità del focolare e anche per la scrittrice, che per questa e molte altre ragioni ebbe una vita povera di soddisfazioni e anche di mezzi finanziari. E assai singolare e avara fu anche la sua vita dal punto di vista degli affetti se, poco dopo la sua morte, la sorella maggiore Silvana fa qualcosa che ha davvero del surreale: pubblica i suoi personali diari dei fatti di guerra. Ma non, come si potrebbe pensare, per collegare la sua memoria a quella della sorella o per tenerne viva la memoria, ma per affossarla, sostenendo che Bruna Sibille-Sizia fosse una sorta di millantatrice, che si fosse, letterariamente, inventata un’esistenza da partigiana ‘eroica’ e sopra le righe, quando la realtà era ben altra, e che per farlo avesse in pratica messo in ombra o addirittura ‘ distrutto’ la reputazione dei genitori e della sorella, sostenendo che a lei la guerra le scivolasse addosso. Basteranno per confutare queste illazioni le ottime e puntuali pagine della Delpiccolo. In questo, Martina Delpiccolo sembra davvero lei la sorella affezionata che la scrittrice non ha mai avuto: nelle pagine di ‘Una voce carpita e sommersa’ non si percepisce solo la cura di una attenta biografa, la competenza di una ricercatrice, la viva curiosità del giornalista che conduce un’inchiesta ma anche un sincero e affettuoso legame personale con uno scrittore sommerso, un legame che va oltre il tempo.

E poi il tram-vita arriva inesorabilmente al capolinea. Peccato, perché nel frattempo la voce della scrittrice ha acquistato un peso e una profondità straordinari. Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea, diceva Sbarbaro in un aforisma di ‘Fuochi fatui’. Bruna Sibille-Sizia sarà arrivata felicemente al suo? Non lo sapremo mai. Il capolinea, l’orizzonte degli eventi di una vita e ancor più della vita di uno scrittore è per definizione inconoscibile e invisibile agli occhi, forse anche per questo è così affascinante: come il silenzio, non lo si può nominare, pena il distruggerne la stessa esistenza. E torniamo al libretto con la copertina di cartoncino bianco del 2003, senza prezzo di vendita, che riporta delle magnifiche poesie. Anche queste fanno parte dei libri della scrittrice passati sotto il colpevole silenzio di editori e critici, salvo poche eccezioni. L’Autrice, lo si vede bene, non ne ha davvero colpa: nella sua vita c’era tutto quello che serve ad uno scrittore, talento, esperienza, originalità, costanza, carattere. Forse, provocatoriamente si potrebbe sostenere che l’unica ‘colpa’ dell’autrice è da ricercarsi nel nome. Nomina sunt omina, in fondo. E il suo riecheggiare le sibille fa pensare al mistero, al fatto che la letteratura per sue insondabili ragioni a volte ha bisogno di oscurità e silenzio proprio come i vaticini. Forse esistono storie ‘indicibili’, storie che devono, chissà perché e chissà come, continuare a stare tutte sepolte nel chiuso mistero di una vita. Sommerse.

Anna Banti e le donne, un nuovo articolo per i Sommersi

 

anna banti

 

Oggi, 07-02-2020

“Siamo così / È difficile spiegare / Certe giornate amare, lascia stare / Tanto ci potrai trovare qui / Con le nostre notti bianche / Ma non saremo stanche neanche quando / Ti diremo ancora un altro sì” è il testo di una famosa canzone intitolata Quello che le donne non dicono, del 1987. A sentire questa canzone Lucia Lopresti, in arte Anna Banti, autrice nel 1951 di Le donne muoiono avrebbe avuto un sussulto.  Purtroppo era morta novantenne due anni prima, nel 1985, non lontano dalla sua Firenze, e quindi non l’ha mai potuta ascoltare. Le donne muoiono, raccolta di quattro memorabili racconti, in un momento storico in cui si parla molto di gender equality e, ahimè, come si sa del tema odioso e socialmente incancrenito del femminicidio, sembra un libro profetico. Ripescarlo quindi, è d’obbligo.

Anna Banti, scrittrice assai complessa, moglie del celeberrimo storico dell’arte Roberto Longhi, avrebbe sussultato perché avrebbe giudicato quei versi forse poco profondi e al contempo contradditori perché molto diversi ma anche molto sovrapponibili al suo modo di pensare, vedremo nel seguito di spiegare come mai. Con la sua penna dura e acuminata, si era occupata in un saggio del 1953 del genere allora ancora molto in voga del romanzo rosa, definendolo come una letteratura scritta da “donne avvezze a praticare la docilità  […]le quali libere, ormai, da freni moralistici troppo stretti, conservarono tuttavia un ossequio alle norme ed alla posizione soggetta della donna”; unica eccezione secondo lei, la Serao, pur con tutte le sue contraddizioni; quella stessa Matilde Serao che aveva scritto dell’inutilità di qualunque estemporaneo diritto concesso alle donne fino a che non si lavorava ad un disegno complessivo di società e quindi “fino a che ogni uomo, padre, zio, avo, fratello maggiore può disporre del destino e della fortuna di una fanciulla: fino a che un marito può disporre di quanto la moglie possiede e nulla darle offendendo la giustizia e la morale: fino a che il divorzio non esista in Italia: fino a che la separazione coniugale sia quella forma odiosa e grottesca che è: fino a che una donna, non possa disporre di sé e di quel che ha: fino a che la sua parola non valga quella di un uomo”.

Anna Banti voleva liberarsi dai cliché imperanti nella sua società e parlare in modo originale del mondo femminile, ma senza ricorrere al femminismo: voleva in altre parole investigare il ruolo, complesso, della donna nella società e il rapporto necessario, complementare, ma non subalterno, con l’universo maschile. Per restare su temi di stretta attualità sanremese, qui non ci si pone né un passo avanti né uno indietro tra uomo e donna, come si vede, ma si vorrebbero compiere tanti passi, di civiltà, l’una accanto all’altro. Solo quattro anni prima era diventata una scrittrice conosciuta e apprezzata, per aver rievocato in un romanzo la vita della pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi, figura adesso molto modaiola ma decisamente meno ai tempi della Banti, affermando che si trattava di “una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi”.

Parità di spirito si badi bene, prima di tutto e prima ancora che materiale, e su questo tema torneremo, perché le protagoniste delle storie della Banti sono al contempo archetipi e prototipi della nobiltà dell’animo femminile, e la scrittrice non si voleva far tirare per la giacchetta dal femminismo dei suoi tempi, mirava ben più in alto e ben oltre. È ambiziosa anche dal punto di vista strettamente letterario, visto che trova e scrive da par suo un punto di vista originalissimo su di un tema sui cui già ai suoi tempi si erano scritti oceani di inchiostro. Tutti e quattro i racconti della raccolta ospitano mirabili figure di donna che vi invitiamo a scoprire, ma è del racconto che fornisce il nome al volume che vi vogliamo parlare, il quale è situato in un futuro assai lontano, nel 2617. Venezia è in rovine, ma a Valloria, città lacustre vicina, succede qualcosa di inatteso: un giovane studente accusa i sintomi di una strana malattia, che consiste nel ricordare cose di un tempo sconosciuto ai più. La malattia è assai contagiosa, ma colpisce tutti e solo i giovani maschi. Tutti si ricordano di infinite vite passate, trascorse in tempi lontani.

In breve si realizza che le donne sono escluse dal virus della ‘seconda memoria’, ma quando succede, la stessa non è più considerata (dagli uomini) una malattia, ma il segno dell’evoluzione naturale della specie umana e dell’immortalità del genere umano maschile. Gli uomini non muoiono più. Le donne sì. Gli uomini si ricordano con precisione tutte le loro precedenti vite, mentre le donne continuano ad essere condannate a viverne una e una soltanto. Questo fatto è foriero di gravi conseguenze a breve e lungo termine: “Fra poco tutti gli uomini della terra avrebbero goduto la certezza di rivivere, di perfezionare le loro predilezioni, le loro doti, in un futuro senza posa rinnovato, mentre le donne si sarebbero trovate oscure ed effimere come farfalle notturne, incapaci di oltrepassare un termine che, al confronto, sembrava imminente come l’alba del condannato a morte”.

Gli uomini cui de facto, non si sa come non si sa da chi, è stata regalata l’immortalità perdono presto ogni interesse alla conservazione della vita e iniziano a considerare la morte una pura formalità. I due universi si separano, le differenze diventano un abisso incolmabile. Gli uomini si dicono che tutto sommato era inevitabile (in fin dei conti si trattava della conferma palese di un pregiudizio nei confronti delle donne che albergava già nei loro cuori), e si rallegrano della loro sorte, che non li pone più in relazione obbligata con esseri che giù consideravano intellettualmente e fisicamente inferiori.  Le donne lasciano compagni, mariti, fidanzati e si rifugiano in ghetti, spontaneamente e nella totale indifferenza degli uomini. Ma essere immortali ha il suo contrappasso. In questo mondo che si è fatto asettico, solo le donne conservano la pietas, la compassione, l’amore.  Nelle loro comunità, che ricordano gli antichi conventi ma dove si tramanda non tanto un sapere manoscritto ma uno spirituale ed emozionale fatto di arti, poesia, pittura, musica, circondati da un vero e proprio medioevo morale, le donne conservano il ‘culto della finitezza’, quello del valore delle relazioni, del tempo, in un’ultima analisi della vita: “Avidamente innamorate del loro breve soggiorno terreno, facevan tesoro di ogni attimo, prolungandolo in echi tanto profondi quanto parsimoniosi”.

Passano molti anni e un giorno d’estate del 2710, Agnese Grasti, una giovane musicista che proprio in quell’istante sta scrivendo una difficile partitura in una di quelle comunità di donne, realizza oltre ogni dubbio di essere stata contagiata dal virus.  In breve ne ha la conferma; è la prima donna ad avere inspiegabilmente conquistato la seconda memoria. Ma questa sua consapevolezza è presto seguita da una più intima e profonda: è sicura che ne potrà fare un uso assai più utile e proficuo di quanto hanno fatto gli uomini con lo stesso dono. Il resto degli avvenimenti descritti nel racconto è semplice quanto per certi versi a prima vista controverso e inspiegabile: Agnese si rifugia in un albergo e dopo una settimana di riflessioni e travagli interiori torna dalle compagne, consegna loro il diario di quei suoi ultimi incredibili giorni e si suicida. Perché? Forse perché il racconto è un racconto a chiave e niente di quel mondo distopico descritto in realtà è vero, nemmeno il virus: gli uomini sono vittime da decenni di un’orrenda allucinazione, ma sono ancor più vittime della loro stessa presunzione, che non li ha fatti dubitare nemmeno per un istante che la ‘seconda memoria’ fosse un fenomeno irreale.

Le donne invece hanno saputo mantenere il contatto con la finitezza e la realtà della condizione umana, hanno saputo preservare nelle loro comunità quello che ancora può identificare gli uomini come tali. Ponendo fine alla sua vita ma lasciandone questa volta una memoria non illusoria, ma scritta e tangibile, Agnese, l’unica contagiata, impedisce che quell’allucinazione collettiva contagi le altre donne. Non solo, anzi più importante di tutto, in questo modo la protagonista traccia una via in cui saranno le donne stesse e solo loro a salvare il mondo (e gli uomini) dall’annullamento, prospettando a tutti una via diversa e assai più proficua di quella distruttiva della ‘seconda memoria’ per raggiungere l’immortalità. Tale via passa necessariamente dal coltivare l’accettazione della propria condizione e di quella degli altri, poiché dove non c’è accettazione c’è necessariamente l’insorgere di un pensiero gretto e stereotipato che poi è l’anticamera di tante forme di violenza sociale. Ma comporta anche credere nel rispetto, nella relazione tra diversi, nell’amore, nel dubbio e nella la conoscenza senza mai ignorare la finitezza della condizione umana, ma anzi superandola insieme, passo dopo passo. Niente di scontato quindi, come si vede, nella produzione letteraria di questa scrittrice, anzi un modo diverso, insolito, al contempo complesso e provocatorio, di parlare di temi ancora assai controversi e attuali.

http://www.toscanalibri.it/it/scritti/anna-banti-e-le-donne-che-muoiono_2892.html

 

Guelfo Civinini, le finestre sui cortili

civinini

 

That wasn’t my fault, that wasn’t the idea. The idea was, my movements were strictly limited just around this time. I could get from the window to the bed, and from the bed to the window, and that was all. The bay window was about the best feature my rear bedroom had in the warm weather.  It was unscreened, so I had to sit with the light out or I would have had every insect in the vicinity in on me. I couldn’t sleep, because I was used to getting plenty of exercise. I’d never acquired the habit of reading books to ward off boredom, so I hadn’t that to turn to. Well, what should I do, sit there with my eyes tightly shuttered? Just to pick a few at random:  Straight over, and the windows square, there was a young jitter-couple, kids in their teens, only just married. It would have killed them to stay home one night. …The next house down, the windows already narrowed a little with perspective.  There was a certain light in that one that always went out each night too. Something about it, it used to make me a little sad. There was a woman living there with her child, a young widow I suppose. I’d see her put the child to bed, and then bend over and kiss her in a wistful sort of way. She’d shade the light off her and sit there painting her eyes and mouth. Then she’d go out. She’d never come back till the night was nearly spent—Once I was still up, and I looked and she was sitting there motionless with her head buried in her arms. Something about it, it used to make me a little sad. The third one down no longer offered any insight, the windows were just slits like in a medieval battlement, due to foreshortening.

Nel 1942 lo scrittore Cornell Woolrich scrive usando lo pseudonimo di William Irish il racconto “It Had to be Murder” che nel 1944 fu rinominato “Rear Window” (La finestra sul cortile) e divenne l’omonimo, celeberrimo capolavoro di Alfred Hitchcock. Il racconto colpì Hitchcock per vari motivi, ma soprattutto per un aspetto assai peculiare, ovvero le caratteristiche di ambientazione, la maestria che l’autore (anch’esso tra l’altro ormai un sommerso di lingua inglese) di sprigionare una storia in uno spazio ristretto. Un cortile. Delle finestre. Se infatti ogni racconto in letteratura ha bisogno di adeguati accorgimenti tecnici e narrativi atti a rendere possibile e credibile la sua “messa in scena” nella mente del lettore, è vero anche che la medesima letteratura ha una certa tendenza a soffrire di claustrofobia. Insomma, è piuttosto difficile conseguire esiti narrativi felici se tutta la storia si svolge in uno spazio ristretto. Non che non ci si riesca, Baudelaire, Maupassant, Leopardi, Pascoli Zola, Proust, Viginia Woolf, Montale, Conrad son tutti li già pronti a smentirci in una climax che ci stringe progressivamente in una tenaglia che va dalla città di Balzac passando per la casa di Madame Bovary in Flaubert fino alle stanze a misura di personaggio caratteristiche di Ibsen, per arrivare infine all’asfittico pertugio dell’io in Kafka. Ma è comunque raro, ed è in ogni caso degno di nota, perché non è assolutamente facile. Una buona storia è come un’esplosione, è difficile contenerla, confinarla, senza danni. È come immaginare di lanciare un piccolo petardo o provare invece a chiuderlo nel pugno quando esplode. Gli effetti sarebbero, come si sa, ben diversi.

Ora accade che un grande esempio di questa tecnica narrativa lo abbia scritto nel 1937, cinque anni prima di Woolrich, in una raccolta di racconti intitolata “Trattoria di Paese” un nostro autore decisamente sommerso, Guelfo Civinini. Qualcuno lo potrebbe forse ricordare come il librettista de “La Fanciulla del West” di Puccini. Ma finisce qui, di lui ristampato di recente non si trova di più. Eppure, meriterebbe, e non solo come scrittore, ma anche come poeta e giornalista. Le “Finestre Morte”, questo il titolo del racconto inserito nella raccolta sopra citata, si svolge tutto dentro un cortile chiuso: Fino da ragazzetto mi hanno sempre destato un senso non ben chiaro, di curiosità, preoccupazione, diffidenza, nelle facciate delle case, le finestre murate: quelle, voglio dire, che prima c’erano, aperte come le altre, in fila con quelle, o anche in disparte, a guardare un cortile, o sotto una sporgenza di grondaia; e poi furono tappate, e sopra ridipinte. Tutte le altre sono vive, animate, estrose; sono gli occhi della casa, che guardano il mondo, piccolo o grande, che hanno attorno. Si aprono, si chiudono, si accostano a bocca di lupo a spiare e ammiccare, alzano le mezze persiane a far solecchio, si adornano di vasi di fiori e di gabbie dei canarini, sventolano panni stesi, civettano, sospirano, chiacchierano, spettegolano, litigano. Ci sono anche quelle che si danno arie superbe, non prendono confidenza col vicinato, e stanno quasi sempre chiuse…”.

Viene alla mente quella bella immagine usata da Simenon ne “Le finestre di fronte”: C’era una grande casa crivellata di finestre. La finestra nel racconto è membrana narrativa, che separa l’io narrante dal mondo, ma è anche un amplificatore che personifica tante diverse identità, tutte portatrici di un messaggio.  Del resto la finestra è nella storia connotata anche religiosamente come luogo di annunciazione, o all’inverso, come back door da dove il diavolo, a volte sotto forma di subdolo corteggiatore, si intrufola in casa. Ma ci sono le finestre morte che l’autore vede “come gli spettri di queste vive…. Il tempo è passato, i colori si sono sbiaditi, l’intonaco non bene spianato si è scialbato di polvere, e anche qua e là si è scrostato, scoprendo l’ossame di sassi e di mattoni della finestra morta”. La nostra storia, chiusa in un ambiente così ristretto, non può che evolvere verso due direzioni, talvolta sovrapposte: da una parte la meditazione, dall’altra il voyeurismo improntato di eros e mistero. Moravia diceva che proprio il voyeurismo sarebbe il primo motore della letteratura e del cinema. Il nostro autore non fa eccezione: Ognuna di quelle finestre aveva per me ragazzo, e per quel po’ di ragazzo che per fortuna nostra, chi più chi meno, portiamo sempre con noi lo ha ancora, un che di mistero, intorno al quale mi perdevo volentieri a fantasticare. Chi sa quando era stata murata, e perché…

Ma per le arti visive è più facile e naturale, e se la lista elencata sopra di scrittori che parlano di finestre e spazi chiusi è nutrita, quella dei pittori e degli illustratori è addirittura sterminata, comunque sempre espressa prevalentemente sulle corde introspettive o voyeuristiche. Nel cinema un po’ meno, ma dopo Hitchcock si cimentano registi del calibro di Antonioni, Özpetek, il Dario Argento di “Profondo rosso” e soprattutto il Kielowski di “Decalogo 6” del 1988, dove un ragazzo mite e introverso di nome Tomek, s’invaghisce di Magda, una donna che vive nel condominio di fronte, più matura di lui. La spia con il suo cannocchiale ogni sera, in ogni aspetto della sua vita.  In letteratura però tutto questo è più difficile, richiede una grande padronanza di mezzi, un perfetto senso del ritmo abbinato ad una finissima tecnica descrittiva. Tutto questo in Civinini c’è: A cavallo fra l’infanzia e l’adolescenza mi accadde di passare un anno della mia vita in un paese del Mezzogiorno. Si stava di casa in una di quelle stradette mozze che là chiamano « corti ». Le stanze del davanti davano sulla corte con un lungo terrazzo fiorito di gerani e di convolvoli. Quelle interne, con la cucina e il solito sgabuzzino sul poggiolo, su un cortile silenzioso e squallido chiuso fra la casa nostra, il dietro di un’altra a due piani, e il vecchio tetto di una stalla vuota. Il cortile era della stalla, e da chissà quanto tempo nessuno c’era entrato. Erbacce e ortiche crescevano alte fra mucchi di calcinacci e di pietrame. In un angolo, a fior di terra, c’era una finestra nera di cantina, con l’Inferriata. Fra cantina e cortile una dozzina di gatti vivevano in libera e sonnolenta repubblica.
In quel cortile, un mondo chiuso in sé stesso dove si spande un silenzio perfetto, dialogano in una lingua incomprensibile a tutti, gatti e finestre. Ma quei gatti, che passano il tempo in quella cornice di assoluta fissità dormendo e sonnecchiando, e quelle finestre, all’apparenza scalcinate e anonime, da cui ogni tanto qualcuno fa cadere degli avanzi per i felini più sotto, non sono tutti uguali. C’è una finestra murata nel rettangolo avevano ridipinto telaio e vetri, e dietro questi, per effetto scenico, un tendaggio rosso sollevato ai lati, a baldacchino, come quelli delle vecchie quinte”.  E c’è un gatto, certo il più vecchio, grande, forte, placidamente autoritario maschio, naturalmente. Soriano tigrato, con appena un po’ di rogna su un orecchio, aveva degli occhi ancora bellissimi, d’ambra chiara. L’unico che guarda quella finestra murata. Senza un motivo. I gatti si sa, sono animali pragmatici: perché guarda lassù, giorno e notte, in direzione della finestra se non ne cade niente di buono da mangiare da anni?  Sembra di sentire il Pessoa di “Poemas Inconjunctos”: C’è solo una finestra chiusa/e tutto il mondo fuori;/e un sogno di ciò che potrebbe esser visto/se la finestra si aprisse,/che mai è quello che si vede/quando la finestra si apre. E sospesi su questo mistero, ben scritto e interpretato e che merita davvero di riemergere come peraltro altri scritti di Civinini, perfidamente vi lasciamo.

 

Nuovo sommerso: Piero Chiara e il fico sull’incudine

toscana libri blog 1Uno scrittore ormai famoso scopre di essere malato di un male incurabile. Ha iniziato a scrivere molto tardi, a cinquant’anni suonati. Ha abbandonato l’Amministrazione della giustizia per farlo, dove lavorava come cancelliere, andando in pensione anticipatamente, anche perché vi aveva fatto poca carriera, ma molta esperienza nel senso che aveva letto migliaia di verbali nei quali uomini semplici e pieni del senso della realtà si studiavano di riferire i fatti nel modo più chiaro possibile…mi sono capitati sotto gli occhi dei piccoli capolavori di narrativa, dai quali ho imparato a raccontare.

Negli anni di cui scriviamo è molto affermato per aver saputo scrivere, muovendo i passi dalla Luino della sua infanzia, di una provincia universale ed eterna, quella italiana: la più ricca di emozioni di sapore umano, come diceva. Nel frattempo ha curato edizioni e traduzioni e ha scritto davvero di tutto: articoli, romanzi, ben dieci, di frequente oggetto di fortunate trasposizioni televisive e cinematografiche, come accade per “La stanza del Vescovo” (1976), “Il cappotto di astrakan” (1978), “Una spina nel cuore” (1979) e tanti, numerosissimi racconti brevi. Ma sono proprio i racconti, evidentemente, ad aver lasciato la traccia più profonda e non tanto, o non solo, nei lettori, ma in lui. Sì, perché Piero Chiara, così si chiama lo scrittore, proprio ai racconti affida il suo testamento letterario. Decide di mettere a punto un’ultima raccolta nel 1986, quasi un epitaffio alla sua parabola letteraria, quando è ormai da tempo gravemente ammalato, pensando a un libro al contempo diverso dagli altri, ma anche a tutti gli altri profondamente uguale. I personaggi de “Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti”, sono pur sempre i personaggi di quella sua antica Luino, ma che, cambiati gli abiti in camerino, potrebbero tranquillamente tornare in scena ne “Le mille e una notte”, nel suo prediletto “Decameron”, o tra le pagine di autori a cui molto deve come Balzac e Maupassant. La provincia in lui è palcoscenico, set cinematografico e incubatore ideale del suo romanzare, improntato a un realismo tutto personale, ma soprattutto il luogo dove tanti piccoli fatti umili ma singolari si accumulano, come succede con gli smottamenti, creando il terreno per una intensificazione narrativa che esplode in esiti particolarmente felici proprio in molti dei suoi racconti, oggi largamente dimenticati e pochissimo ripubblicati. Colpiscono le sue parole, che appartengono ad una intervista del marzo di quel suo ultimo anno, il 1986: stentavo a riprendermi, da un serio intervento chirurgico e stavo molto male. Tre o quattro racconti li avevo già, ma gli altri li ho scritti ad uno a uno come i capitoli di un romanzo e ne è nato un libro che giudico diverso dagli altri. Via via che scrivevo affidavo ai miei personaggi l’ultimo senso della mia vita. Del resto, quando gli chiesero “perché il racconto?” lui rispose che bisognava invece chiedersi “perché il romanzo”, dato che è il racconto ad essere il genere narrativo per eccellenza: più antico, essenziale, immutabile ed ineliminabile, che segue la storia dell’uomo.
piero chiara
Ma torniamo al senso della vita, anzi all’ultimo senso della vita, che lo scrittore affida ai personaggi dei racconti. Dovrebbe trattarsi una cosa importante, soprattutto per uno scrittore. Ma che cos’è, di cosa si tratta davvero per un narratore che, come il nostro, a un certo punto dal treno quotidiano della vita è sceso, smettendo di fare il pendolare, mettendosi in ascolto, è lasciandosene letteralmente attraversare nella speranza di poterla svelare e sgranare come una spiga quella sua vita, salvo poi spesso prosaicamente ridursi, come invariabilmente succede, a spigolare avidamente ciò che rimaneva non mietuto sul campo? Ebbene forse quel tanto ricercato senso della vita sta tutto in un frutto. Il fico. Non si tratta della madeleine di Proust, ma un po’ gli somiglia, perché cristallizza il passato, catalizzando nell’autore una feconda ricerca di associazioni e di esplorazioni interiori.  Non sono le pere butirro de “La Cognizione del Dolore”, le pere immaginate da Gadda spiccate a metà ottobre che maturano repentinamente, nel corso di una notte, tra il 2 e il 7 novembre, ma ci si avvicinano per ambiguità e senso ferocissimo dell’ironia. C’è un racconto in quella raccolta che parla di fichi. È un racconto inconsueto, un mix di tecniche narrative diverse, un motore a due tempi. In un pomeriggio d’autunno del 1917, dovevano essere gli ultimi giorni di ottobre il frutto è al centro di un racconto in cui la madre, Virginia Maffei, osservando una drammatica copertina della “Domenica del Corriere”, dapprima appare molto preoccupata per le possibili conseguenze della disfatta di Caporetto; ma poi un postino amico del padre irrompe sulla scena e porta quattro fichi rubati fuori Luino, fichi tardivi […], i più saporiti quelli con la goccia. Lo scrittore li assaggia per la prima volta e ne rimane scioccato, disorientato, come se biblicamente assaggiasse il frutto dell’albero della cognizione del bene e del male: da allora seppi che esisteva un fico, dice.  Gli sembra di toccare dei rospi, delle rane o altro animale del genere, come la salamandra o il lumacone, tutte bestiole che mio padre, portandomi a spasso nei boschi e per le campagne, mi aveva fatto osservare. Rimane scioccato dal comportamento della madre che aveva dato tanta importanza a quei quattro fichi, quando aveva sotto gli occhi la Domenica del Corriere con tutta quella povera gente in fugaprosegue su http://www.toscanalibri.it/it/scritti/piero-chiara-e-il-fico-sull-incudine_2881.html

Una rubrica settimanale su Toscanalibri

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Naufragium feci, bene navigavi (ho navigato bene, ho fatto naufragio). Diogene Laerzio attribuisce questa frase a Zenone di Cizio, considerato il fondatore della scuola stoica. Ma poco ci importa di chi sia la frase, ci calza a pennello. Fantasmi di carta e lettere.  Scrittori dimenticati. I sommersi dalla memoria non sempre se lo meritano.  Per tanti scrittori, autori di opere importanti, celebrati dalla critica contemporanea e magari anche vincitori di premi prestigiosi, il tempo non è sempre stato galantuomo. Si dice che ciò che sopravvive, ciò che diventa “classico” è la parola meritevole di memoria perché capace, grazie all’universalità delle emozioni e delle situazioni che esprime, di sfidare il tempo o perché in grado di farsi essa stessa tempo e in tal modo rappresentare vivamente il sentimento di un’epoca. Ciò che si dimentica allora, sarebbe pienamente meritevole del nostro oblio e si tratterebbe di una giusta condanna. Del resto si sa, si scrive troppo in Italia e poi ci si stanca anche presto di farlo.
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Diceva qualcuno che tutti possono diventare scrittori, ma pochi sanno rimanere tali. Ma non è sempre vero. Non sempre il naufragare è dolce, e in fondo il tempo non è veramente amico di nessuno. Del resto a ben vedere dimenticare non è una formula matematica, non siamo davanti all’esattezza di una reazione fisica: tante volte parole importanti e meritevoli restano chiuse in qualche cassetto della storia, prigioniere di giudizi sommari e stereotipi o semplicemente vittime della dannazione di un caso misteriosamente malevolo. Solo qualcuno allora – editori, colleghi scrittori, qualche critico illuminato – ricorda brandelli di un’opera che non si stampa più, che non è più diffusa e che dunque è impossibile leggere. Pare strano e perfino impossibile nell’epoca di internet e della disponibilità più abbondante di informazioni che la storia ricordi, dove ogni due giorni veniamo letteralmente sommersi da una quantità di dati pari a quelli generati dalla civiltà umana dagli albori fino all’avvento della rete globale. Eppure è così: certe opere, anche volendo, non si possono più leggere.
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La lista di questi naufragi è più nutrita di quanto si pensi, si tratta a volte di casi eclatanti. Sono navi che hanno ben navigato, a volte addirittura in modo eccelso, ma che per una ragione o l’altra hanno fatto naufragio, e che ora giacciono sul fondo, sommerse e incolpevoli. Accade non solo per gli autori, ma a volte per singole opere o al contrario per intere correnti letterarie. Non si leggono più, al massimo sono buoni per le citazioni. Dall’altro lato, sulla cresta dell’onda, in libreria e sulla rete dominano best seller istantanei che durano lo spazio di un post. Spesso non concepiti nemmeno per fare appello alla memoria del lettore, ma solo al suo svago momentaneo, facendo leva su quarte di copertina sempre più enfatiche e ogni giorno sempre meno credibili. Una volta sfogliati, sono buoni per incartare il pesce, o forse nemmeno per quello, le pagine son troppo piccole. Dell’autolesionismo e della mancanza di coraggio di certa editoria non si finirebbe mai di dibattere, di pari passo con la quasi scomparsa degli editor di una volta, in grado di selezionare, intuire felicemente, far crescere contemporaneamente scrittori e lettori.

Se però è vero che senza memoria storica nessun Paese, nessuna Società va molto avanti, certamente il recupero di questa consapevolezza passa anche dalla riscoperta del patrimonio letterario abbandonato e dimenticato. Sommerso appunto. Il compito, molto ambizioso, che questo blog si pone è proprio questo: recensire libri espressione di un passato sepolto, recente e meno recente, come se fossero appena usciti. Uno alla volta, secondo la nostra sensibilità e conoscenza, ma anche seguendo i vostri suggerimenti, perché un cerino solo non rischiara una stanza buia. Come se il tempo si fosse riavvolto su sé stesso, ci proponiamo di offrire all’opera e al lettore una seconda possibilità, stimolandone così facendo la curiosità. E perché no, favorire l’unico atto che può davvero consentire ai sommersi di tornare a fluttuare: pubblicarli di nuovo, fare loro posto sugli scaffali delle librerie. Leggerli.