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Equilibrium, la traduzione e il racconto breve alla Sapienza

Equilibrium: a short story, a translation and a mirror maze: questo è il titolo del mio intervento di oggi . Cosa è un racconto breve, che rapporto ha con il linguaggio, quali sono le difficoltà che si incontrano nella sua traduzione (dal punto di vista dello scrittore) di questo e di altro ho avuto il piacere di parlare al corso di ENGLISH LANGUAGE AND TRANSLATION ADVANCED: THEORIES METHODOLOGIES AND APPLICATIONS.

Borges diceva che ogni testo è sempre e comunque imperfetto e non definitivo, in sostanza una sorta di abbozzo il cui status ‘conclusivo’ è dettato solo dalla stanchezza di chi lo scrive e che ogni buona traduzione è un testo anch’esso infinitamente perfettibile ed inevitabilmente diverso dall’originale, ma con il suo valore e la sua dignità letteraria.

Quindi ogni traduzione di un racconto breve è un inevitabile gioco di specchi tra due esseri umani, due sistemi linguisitici e culturali e due epoche distinte e non necessariamente contemporanee.

Grazie per questa opportunità di confronto e narrazione dell’avventura di Equilibrium (ora tradotto anche in francese) alla Prof. Morbiducci, agli intervenuti e alla splendida voce di Gaia Bastreghi Bianciardi.

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Equilibrium in giro per le presentazioni: il mondo della letteratura bilingue e la sua grande utilità.

Fase italiana del giro di presentazioni (essendo il libro bilingue) di EQUILIBRIUM (https://massimilianobellavista.wordpress.com/2022/02/17/equilibrium-iniziano-le-presentazioni-nelle-scuole-e-non-per-chi-fosse-interessato/)

Alcuni appuntamenti, eccetto quelli nelle scuole che non sono pubblici, a Como e Bergamo tanto per cominciare. Se interessati ad appuntamenti, chiamate o scrivete a bellmaxi@tin.it o all’Editore

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Equilibrium: iniziano le presentazioni (nelle scuole e non). Per chi fosse interessato…

Iniziamo le presentazioni

Per chi fosse interessato bellmaxi@tin.it

Qui due estratti audio del libro, per cui ringrazio gli attori e in particolar modo Gaia Bastreghi; sotto le le indicazioni per l’acquisto (anche Amazon e The Great British Bookshop).

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OPPURE..

https://it.viceversapublishing.co.uk/product-page/equilibrium-l-equilibrio-massimiliano-bellavista

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Esce Equilibrium

Equilibrium esce nei prossimi giorni .

Una cosa di cui sono davvero molto felice e orgoglioso.

Ringrazio i molti che hanno creduto e collaborato a questa bella avventura (cui seguiranno altre traduzioni) che permette di leggere in inglese una storia cui tengo molto.Valentina Rossini e Gabriel Rowland in primis, e gli illustratori di questo bel volume.

Il libro non è solo bello, è anche un esperimento.

I libri bilingue sono in circolazione da tempo, ma sembra che la loro utilità nei luoghi dove avviene l’apprendimento di una lingua straniera sia ancora in qualche modo sottovalutata.

È anche vero che ci sono diversi libri bilingue, per bambini e adulti,  che sono stati prodotti senza tener conto di alcuni dettagli importanti, che se applicati, renderebbero questi tipi di pubblicazioni più attraenti e fondamentalmente utili al loro scopo.

Perché lo scopo fondamentale di una storia in versione bilingue, se prodotta con cura e attenzione, è quello di portare il lettore a confrontarsi con la lingua straniera che sta apprendendo evitando lo sforzo mentale che solitamente si crea quando ci si confronta con il solo testo straniero.

La natura “a specchio” del libro bilingue aumenta, anziché diminuire, l’oppotunità di “assorbire” in contesto e in complesso, termini ed espressioni che potrebbero semplicemente sfuggire leggendo solo il testo in lingua straniera.

Per questo è essenziale tradurre il testo originale avvicinandoci il più possibile ad esso, evitando però qualsiasi forzatura della lingua (che significa: scegliere la traduzione letterale di una frase o espressione, facendola suonare innaturale perché non usata nella lingua tradotta), e dove proprio è necessario, per esempio con termini o espressioni intraducibili, inserire note di spiegazione.

Il canto di Jimmie Blacksmith

https://it.viceversapublishing.co.uk/il-canto-di-jimmie-blacksmith

Il canto di Jimmie Blacksmith non è un romanzo ma la descrizione di un mito. Un mito, in tempi moderni, può nascere da poche parti, perché servono molti ingredienti: un’ambientazione esotica, o addirittura vergine nell’immaginario collettivo, dei personaggi forti, che dicano o facciano almeno qualcosa che non è mai stato detto o fatto prima, un tessuto di rappresentazioni immaginarie del mondo e di evocazioni potenti, una storia che metta in discussione o faccia vacillare quei valori e quelle convinzioni consolidate di cui la società si nutre. 

Certo, quando nel 1972 Thomas Keneally decise di romanzare la vera storia di Jimmy Governor, il mezzosangue domatore di cavalli che con il fratello uccise nove bianchi terrorizzando l’Australia per mesi (precisamente tra il Luglio e l’Ottobre del 1900), voleva affrontare, da un nuovo punto di vista, il tema per lui consueto dell’influsso che certi eventi o cambiamenti storici e sociali hanno sulla moralità e la vita individuale Non vi è alcun dubbio su questo. Ma se si legge bene il volume si giunge presto alla conclusione che forse voleva fare anche dell’altro (e ci è riuscito): scrivere una fiaba tragica, far nascere un mito.

Solo così si spiega un incipit come questo: Nel giugno del 1900, lo zio materno di Jimmie Blacksmith, Tabidgi-Jackie Smolders per il mondo bianco-fu turbato dalla notizia che il nipote aveva sposato una ragazza bianca nella chiesa metodista di Wallah. Pertanto prese il dente dell’iniziazione di JImmie e si mise in cammino per Wallah, una distanza di cento miglia.

Questo non è l’inizio di una cronaca né tantomeno di un romanzo, ma è l’equivalente di un c’era una volta, l’incipit di una favola tragica, della narrazione di un mito del riscatto degli emarginati e della fondazione di una nazione che però non è mai sbocciato.

E sì che i tempi sembravano maturi nel 1900, quando, tra la curiosità dell’opinione pubblica mondiale, stava per nascere una grande e giovane Nazione, finalmente indipendente dal giogo coloniale, una Nazione che voleva essere aperta, anzi precorritrice dei cambiamenti sociali del secolo breve (il voto alle donne. La pensione ai vecchi e alle vedove. Tribunali industriali benevoli con i sindacalisti si legge nel libro), ma che, questa l’amara constatazione che lo stesso autore fa nella sua prefazione alla ricca e ben curata traduzione del romanzo edita a cura di Viceversa Publishing, a distanza di oltre cento anni non è stata invece capace di affrontare in modo risolutivo il tema degli aborigeni. Lo dimostra molto bene tanta letteratura recente che proprio da quel Paese viene, tra tutti la Sally Morgan de La mia Australia (1987).

E allora, come capita di sovente in letteratura, il protagonista non può che essere che qualcuno la cui vita il confine tra le due culture, quella bianca e quella nativa, lo rappresenta plasticamente. Qualcuno come Jimmie Blacksmith per esempio, che vede il suo mondo antico sfaldarsi (Gli uomini tribali erano mendicanti che vomitavano sherry bruciabudella dell’Hunter River al riparo dei cessi dietro i pub. Gli anziani tribali (…) prestavano le loro mogli agli uomini bianchi per un sorso da una bottiglia di brandy) ma decide comunque di reagire, di farsi apprezzare per il suo lavoro, di integrarsi come si direbbe oggi.

Quando però il mondo bianco tanto agognato gli volta le spalle, negandogli il giusto compenso per il suo duro lavoro (simbolo quest’ultimo del riscatto sociale nel passaggio da una società tribale ad una fondata sul denaro) e mirando per giunta a spezzare il suo matrimonio con Gilda allontanandolo anche dal suo bambino, qualcosa in lui si spezza. Non ci sarebbe davvero bisogno di sottolineare come Keneally sia un ottimo scrittore, ma ci son pagine dove riesce addirittura a superare sé stesso. Come in un mito greco infatti, il lettore sa benissimo cosa sta per succedere, non è quello il punto, non è il cosa ma il come cui il lettore è interessato, cioè in ultima analisi la cifra stilistica e il registro che lo scrittore sceglierà di utilizzare per il suo racconto. Una famiglia bianca sarà massacrata, altri quattro morti seguiranno, ma c’era modo e modo di esprimere questa brutale cesura, il sangue rifiutato e ancestrale dei riti aborigeni che torna in scena inondandola di terrore, i processi mentali che alla velocità della luce si succedono nella mente del protagonista che oscilla sempre più vorticosamente tra le estremità degli istinti tribali, la sua nuova normalità e un futuro di orrore. Ecco, Keneally fa tutto questo da maestro, come quando descrive la visita del protagonista al cattivo padrone Newby, che lo vuole far fuggire senza pagarlo con la scusa che anche i suoi parenti vivono con lui e che questi rappresenterebbero per lui un pericolo.  Era infatti contro tutte le ragioni portare Tabidgi con sé in una missione di reclamo. Tabidgi era il pretesto di Newby per sospenderli le provviste. Tuttavia, all’altra estremità degli istinti tribali, Jimmie forse voleva semplicemente mostrare Jackie ai Newby, far loro vedere quale innocuo vecchio bastardo fosse. Ecco, quella espressione all’altra estremità degli istinti tribali, è un vero tocco da maestro, perché dice metaforicamente tutto quello che c’è da dire.

Tuttavia Il compito non gli riesce e Jimmie lasciò entrare nel suo corpo una maestà di giudizio inebriante, la sensazione che erano le stelle appuntite nel cielo a spingerlo. Obbedendo ad una ben nota regola della tragedia greca, Keneally sembra quasi esitare a mettere in scena la crudezza di quanto sta per succedere (lo esplicita a chiare lettere quando scrive che il lettore ne dovrebbe essere risparmiato). Da scrittore elegante e completo infatti, ci ha già introdotto a sufficienza nel delirio di Jimmie, ci ha, per così dire, già fatto sentire molto forte l’odore del sangue: l’ultimo magia della sua scrittura è dunque trasformare tutto quello che assurdamente segue in una conseguenza ovvia e ‘normale’ utilizzando uno stile volutamente non lirico, anzi piatto e quasi disimpegnato. (…) e poi con calma fece a pezzi Miss Graf tra il fianco e le costole.  Mentre colpiva e continuava a colpire, Jimmie apprese la facilità dell’uccidere. Le persone erroneamente lo vedevano come un atto estremo, terrificante.

Ciò che segue è una terrificante parabola, nel senso che il destino di Jimmie Blacksmith in questa favola è segnato da una strana e inquietante ciclicità, anche questa tipica caratteristica di un mito. Uscito in modo traumatico dal mondo tribale, dopo essere stato capace di introiettare piuttosto profondamente la cultura bianca dominante al punto di vivere, lavorare, pregare e persino amare come i bianchi, Jimmie, guidato non più dalla razionalità ma dall’istinto del suo cervello rettiliano, sprofonda mortalmente nel profondo del suo passato aborigeno.

Il simbolo e il segnale di questo passaggio ultimo e irreversibile è la foresta, dove fugge con il fratello: essa nel volume è descritta frequentemente. È allo stesso tempo la madre, il luogo che gli accoglie, quando viene descritta esplicitamente come soprannaturale: fitta, più familiare, pullulante di insetti industriosi, ma è anche la matrigna, cioè il luogo che, insopportabilmente, sembra imprigionarli (Per liberarsi degli interminabili alberi, di nuovo si facevano venire intenzionalmente delle crisi).

Jimmie e il fratello attingono a piene mani, nella loro definizione e marcatura come personaggi della storia, dal bagaglio mitologico. Un po’ Eteocle e Polinice, in quanto vittime della stessa maledizione, un po’ Castore e Polluce, in quanto inseparabili condivisori di un destino di morte, di una discesa nel mondo delle ombre proiettate dalla loro coscienza.

E l’Australia? L’Australia che sta sempre sullo sfondo del volume nel frattempo diviene festosamente una realtà, una Federazione ma, lo si capisce subito, non così diversa come essa per prima si credeva dai Paesi dell’antica Europa. Anch’essa non è più una terra vergine e ha ora la sua polvere da cacciare sotto i tappeti, i suoi scheletri da stipare nell’armadio e sono assai belle significative le ultime pagine del libro, che descrivono il limbo, si potrebbe dire il Miglio Verde, in cui è sospeso il protagonista, in attesa di una assoluzione che forse, anche contro la sua volontà razionale il lettore gli ha già dato.

M l’Australia lo condanna invece ad una morte sospesa che certo avverrà, poichè tutta la nazione vuole in fondo la sua libbra di carne, ma non subito, senza fretta e solo quando si spegneranno gli echi della festa, perché Non si potevano impiccare dei neri in una simile occasione.

Jack & Jill e…Viceversa

Anno XVII, n. 181 febbraio 2021  
 

Ambientato nella lontana Australia
un romanzo molto disturbante
che non può lasciare indifferenti
L’edizione italiana, per Viceversa Publishing,
di un romanzo a firma di un talento meritevole
di Massimiliano Bellavista Chapeau. Questo il primo pensiero per chi, come Viceversa Publishing, casa editrice indipendente anglo-italiana, si è imbarcato nell’impresa di far conoscere per la prima volta gli scritti di Helen Hodgman al pubblico italiano cominciando dalla traduzione del suo romanzo del 1978 Jack & Jill (Viceversa Publishing, pp. 144, £ 12,00). Tra l’altro, si tratta di un’elegante e accurata traduzione a cura di Valentina Rossini.
Tanto di cappello, insomma, perché si tratta di quel genere di libri che al lettore può dare molto, ma che gli chiede anche qualcosa in cambio.
Quando un libro inizia così: «Annoiata, Jill pestava i piedi nella veranda, aspettando che sua madre venisse a cercarla. Non lo fece, Morì quel pomeriggio. Furiosa per essere trascurata, Jill si mise a saltare sul letto, tirando i capelli alla madre, tubando le sue prime parole nell’orecchio freddo e ceroso», vuol dire infatti due cose.
La prima: quel libro richiede al lettore, soprattutto quello che non è mai stato nell’outback australiano, uno sforzo di immedesimazione. Immedesimazione nel paesaggio, immedesimazione in una diversa e spiazzante logica sociale e familiare, immedesimazione in un territorio dove le enormi distanze che separano uomo da uomo, fattoria da fattoria, e le fattorie da Sidney, schiacciano e appiattiscono la vita come una forza di gravità moltiplicata, rendendola giocoforza semplice, quasi elementare, per non dire rude. Come un funerale talmente sbrigativo da scivolare in un peculiare humour nero.
«“Allora, dove? Dove la mettiamo?”
“Giù al ruscello, suppongo” disse il marito. (…) Douggie ritornò facendo dondolare il badile. Arrancarono fino al ruscello, dove ci misero delle ore per sotterrarla, il suolo era duro e roccioso. Sudando e con aria cupa, rovistarono la radura in cerca di rocce adatte a marcare il punto».
La seconda: che questo clima si riflette nel linguaggio, particolarissimo, una lingua e delle parole che, per molti aspetti restituiscono, soprattutto nella prima parte del libro, la sensazione di un idioma vergine dove la lingua inglese si ripiega nelle sonorità e nella dimensione orale delle lingue aborigene e dove le parole mantengono alla lettura una ruvidezza non filtrata da secoli di letteratura.
«Dall’alto, in alto tanto quanto il paradiso, la risata di un kookaburra attraversò fragorosa il bush, finché venne ingoiata dalla nebbia che avvolgeva come un sudario le lontane colline. Il suono svanì in un luccicante stormire di foglie, e si lasciò dietro una quiete enorme».

Un libro che attraversa la storia
Un padre solo e distante non è il massimo per crescere una figlia. E poi c’è quella distanza coperta di polvere, da tutto e da tutti, e di certo i libri fatti venire dalla città e legati con lo spago e le lezioni scolastiche via radio-ricetrasmittente che «crepitavano nell’etere ogni mattino» non bastano allo sviluppo di una ragazzina. E così Jill ruba quello che può, quel che le serve a trasformarsi da bambina in adolescente con la stessa difficoltà con cui il padre gratta via i frutti a una terra dura come pietra.
Ma a scombinare le carte ci pensa il giovane Jack, che arriva alla fattoria di Douggie in cerca di lavoro e vi rimane perché percepisce che Jill e il padre avevano«l’aspetto di persone a cui una mano poteva servire». Douggie ne necessita di certo per mandare avanti la fattoria, Jill per crescere. Ma non si tratta certo di un principe su un cavallo bianco, forse anzi proprio dell’opposto.
Tra i due nasce un rapporto complesso, violento e contorto che dalla Grande depressione ci porta dritti fino agli anni Sessanta. Questo rapporto dove attrazione e repulsione giocano in parti uguali, è onnipresente, anche quando lui parte militare, anche quando lei va all’università e poi si trasferisce in Inghilterra. Se non sono insieme fisicamente, sono le loro menti a essere interconnesse, nonostante tutto, nonostante la violenza, l’egoismo e la brutalità di Jack.
Il romanzo si muove su due piani all’inizio paralleli, si potrebbero definire due contrappunti, dove non è presente solo il tema di un amore tanto brutale da sembrare improbabile, ma anche quello della vita come è e come dovrebbe essere. Non è un caso che Jill diventi un’affermata scrittrice di libri per l’infanzia come non è frutto di coincidenze che il suo eroe immaginario, Barnaby, ragazzo dalla testa a forma di alluce, si aggiri tra le quinte, costruite ad arte nella mente turbata di Jill, di un perfetto mondo infantile. Quello che per lei non c’è mai stato.
È qui, nella convergenza di questi due piani che compete al lettore scoprire a poco a poco, che sta una buona parte dell’originalità del romanzo. Sorprendentemente, la Hodgman riesce a creare un altro grottesco binomio come solo gli scrittori più dotati sanno fare. Dalla fattoria persa nella polvere con Jill e il padre che vivono da soli, adesso sono passati gli anni e siamo nella casa di una famosa scrittrice, che manda avanti con Jack un matrimonio sterile e vuoto, uno scenario quasi allegorico. Lei scrive i suoi libri perdendone il conto, lui intaglia i suoi crocifissi di legno costellati di gocce di smalto color sangue. Stiamo assistendo a una rappresentazione del dolore, a una pièce teatrale, lo dice la scrittrice stessa: «La loro era una commedia a due interpreti, gli aveva ricordato lei in caso lui si fosse sentito chiamato fuori».

L’attesa di un figlio che può nascere solo dalle parole
Quella ossessione per la lavorazione del legno sembra quasi una grottesca versione di un mastro Geppetto molto noir che cerca di cavare dal dolore una qualche speranza, magari quella di avere un figlio, esattamente come Barnaby cresce con Jill e in Jill. Una situazione esplosiva, come si capisce, che non può durare. Si intuisce subito pertanto che la storia è solo in attesa di un catalizzatore, di un detonatore in grado far esplodere la stasi che si è ancora una volta creata. La figura di Raelene, l’ammiratrice segretaria che si insinua come un fiume carsico nelle loro vite separandole di nuovo e svuotando di senso dall’interno la loro unione ed è quindi quanto mai necessaria.
Ha insomma un che di mitico e inesorabile questa storia d’amore che pare caratterizzata da una sorta di legge fisica, perché si ha chiara percezione sin dall’inizio che Jack e Jill non possano far altro che vivere assieme, ma questa attrazione non può fare a meno di periodici Big Bang seguiti da altrettanti Big Crunch.
Ma se la storia in questo senso è prevedibile, e come ogni Pinocchio diventa alla fine un bravo ragazzo ogni parola non può che farsi carne, e quindi Barnaby diventare qualcosa di più di un personaggio letterario, la scrittura e lo sviluppo della storia non lo sono affatto, così come il finale.
Non si può da ultimo non rilevare come questo stile “acido” e questo ritmo narrativo grottescamente ironico e graffiante siano caratteristici di tutto un filone che anche al giorno d’oggi caratterizza un nutrito ventaglio di interessanti scrittrici, per esempio di area scandinava, tra cui non si può non menzionare Hanne Ørstavik, autrici che in qualche modo condividono con la Hodgman una certa difficoltà ad arrivare al grande pubblico, a farsi scoprire e tradurre. Il titolo di un libro ruvido che ricorda qualcosa di questo romanzo come Like Sant Som Jeg Er Virkelig, che in italiano suonerebbe più o meno Questo è quello che sono davvero sembrerebbe un bell’epitaffio per Jill, tanto quanto quello scelto per lei dalla Hodgman, «Jack avrà la sua Jill, e a male niente andrà». Di certo, come e tanto quanto il libro, si tratta di uno stravagante lieto fine.

Massimiliano Bellavista

(direfarescrivere, anno XVII, n. 181, febbraio 2021)